Anarchica agnostica amletica


Gabriella Imperatori

Anarchica, agnostica, amletica

Romanzo



Tutte insieme i ragazzi ci chiamano, non senza un filo d'ironia, le Tre Grazie, o anche le fanciulle in fiore (sottinteso: alla cui ombra è dolce sostare), perché quest'anno tutti leggono Proust. Da parte nostra facciamo finta di irritarci. Federica, che ha gli occhi neri e lucidi come un'africana, li alza al cielo e borbotta grugniti presi a prestito dai fumetti che divora, disinvoltamente alternandoli ai classici della sua terra d'origine o a poeti contemporanei. Alessandra, con ostentata modestia a cui nessuno crede, dice uffa!, piantatela di prendere in giro. E io penso a quanto sono fortunata a far parte del trio, e pur con le mie lentiggini e i capelli rossi ad essere  promossa "Grazia", come quelle del Botticelli.
Singolarmente siamo invece soprannominate Alessandra la Pia, Marina la Rossa, che naturalmente sono io, e Federica la Longa, detta a volte anche la Pazza, per la mutevolezza dell'umore. "Già pronte per i libri di storia", commenta con un sorrisetto fatuo Alessandra, che fa collezione di frasi ad effetto.
Al collegio, tenuto da suore con una cuffia bianca plissettata che restringe il viso sotto il velo nero, ci dividiamo una stanza grande, con il soffitto a bótte intonacato di biancocalce, con tre lettini di ferro laccato in un lucido rosso mattone e i copriletti di cretonne a fiori - stessi fiori, diversi colori. Anche le tre scrivanie sono identiche, con l'abat-jour di pergamena giallina che illumina appena un grande armadio a muro rivestito di cretonne come i copriletti. Niente televisore, ce n'è solo uno nella sala di soggiorno a pianterrreno, che viene acceso verso sera, chissà se le suore ce l'hanno nelle loro celle. E chissà che programmi guardano. Cosa pensano, cosa sognano se sognano, dimenticandosi per qualche attimo di pregare. Se si dimenticano.
Un tramezzo in muratura isola la zona bagno, senza bidé per scoraggiare gli atti impuri, e un terrazzino polveroso s'affaccia sul cortile dominato da una torretta a merli guelfi. Tutto è un po' anonimo, ma ciascuna di noi ha personalizzato i  propri spazi. Federica con un grande ritratto di Tolstoj a cavallo, una balalaika appesa al muro e una matrioska sul comodino. Io con una decrepita bambola di pezza, fatta da mia nonna prima che partissimo per l'Italia, e una collezione di conchiglie, raccolte l'estate scorsa sulla sabbia umida davanti al Des Bains, prima che facesse sera. Alessandra con piccoli, preziosi oggetti scovati nei suoi viaggi, o in quelli dei genitori. Oggetti di gusto raffinato ma anche religiosi, un rosario d'ambra polacca appeso artisticamente alla parete, un'immagine  dell'Annunciazione del Beato Angelico, un crocifisso  messicano di legno smaltato a vari colori. Del resto tutto è cattolico, di un cattolicesimo più nordico che papalino, in questa città che sembra diffondere odore d'incenso.
Le luci della stanza sono fioche, per risparmiare corrente e insegnarci a risparmiarla (le signorine di buona famiglia devono coltivare il rispetto del denaro), ma la sera di nascosto noi sostituiamo le lampadine per studiare o per leggere a letto o per spremerci i punti neri sul naso e poi stendere sul viso prodigiose, a sentire Alessandra, maschere di bellezza a base di frutta spiaccicata. Alessandra, che sfoggia impalpabili camicie di batista ornate di pizzi valenciennes,  pilucca nel frattempo  saggi di pittura o riviste di moda. Dei quotidiani legge soprattutto i titoli e sottolinea in biro rossa  quel che le può servire agli esami o nelle conversazioni. Poi ricopia diligente in un quadernetto le frasi più brillanti o più profonde. Io, che indosso ridicoli pigiamini infantili a ochette o elefantini in colori pastello, perché la mamma mi considera sempre una bambina, divoro romanzi ottocenteschi saltando a piè pari le parti noiose e riallacciandomi in velocità alle storie di passione e di morte. Mentre Federica, in camicioni di grosso cotone rigorosamente bianco che sembrano usciti dal baule della bisnonna, sogna a occhi aperti sulle poesie di Neruda o Prévert. Oppure, coi palmi intrecciati dietro la testa appoggiata al cuscino e un'espressione da sfinge, ci guarda mentre leggiamo, e chissà cosa pensa di noi. Qualche suora dev'essersene accorta, del cambio di lampadine intendo, ma chiudono un occhio, perché le studentesse sono un buon affare per l'ex-convento che prima campava solo della scuoletta materna e delle magre offerte delle signore ingioiellate dei gruppi di beneficenza. Da maestre d'asilo le monache si sono riconvertite in albergatrici che gestiscono un hotel rassicurante, dove i maschi sono ammessi solo nel grande salone di soggiorno o in biblioteca, e in ogni caso devono qualificarsi come padri, fratelli, fidanzati o perlomeno compagni di studio. Non che queste suore siano particolarmente bacchettone: chi vuole, può perfino studiare con un compagno di facoltà, in qualche angolo della sala dove è sempre assicurato un continuo viavai di ragazze e lo svolazzare dei veli delle locandiere che tranquillizza i genitori.
A parte gli ospiti di passaggio, tollerati o addirittura incoraggiati perché le suore vogliono dare di sé un'impressione  secolare e quasi internazionale, il collegio è un gineceo diviso in due metà, due mondi che regolarmente s'incontrano anche se non comunicano mai davvero. Come coinquilini indifferenti di un moderno condominio. La metà riservata alle monache ha un esuberante giardino interno, preceduto da un minuscolo chiostro di pietre ruvide color ocra, che s'infuoca al sole del tramonto estivo, riverberando la fiamma sugli archetti gotici e le colonnine tortili e accendendo i frammenti di affreschi dai colori sbiaditi. Dall'altra parte del giardino, si eleva un  edificio un po' staccato che è un altro collegio, ma con le sue ospiti noi non abbiamo mai a che fare: un collegio per ragazze povere, orfanotrofio o brefotrofio, o casa di rieducazione attraverso il lavoro. Non lo so. Se ne dicono tante. Però le ragazze che ci abitano non le vediamo se non quando escono tutte in fila, suora in testa, per andare a cantare ai funerali. Anche le suore addette a governare la loro vita quotidiana non sono le stesse: le chiamano Sorelle, non Madri come chiamiamo le nostre che sono diplomate o laureate. Ogni contatto è impossibile.
L'ala delle studentesse guarda invece sul cortiletto esterno che si apre sulla stradina acciottolata, nata per carretti e cavalli e rimasta così come ai tempi in cui tutta la città era dimora di religiosi e commercianti. E nelle vie centrali pascolavano, come mostrano le stampe d'epoca affisse in biblioteca, perfino greggi di maiali, mentre nelle piazze del mercato punivano con colpi di corda i mercanti troppo imbroglioni.       
Le suore le conosciamo appena. Forse non vogliono farsi conoscere. La madre superiora è alta, ha un profilo aristocratico e una leggera peluria scura le ombreggia il labbro superiore. Le suore non si fanno la ceretta. Parla con accento piemontese, è colta, fredda e gentile. Dicono che suo padre si sia suicidato, e che lei per questo abbia preso il velo. Al primo colloquio illustra, con un sorriso che le stira le labbra sottili ma non le illumina lo sguardo, le norme a cui dobbiamo attenerci, pena l'espulsione ("ma per carità non spaventatevi, questo è il regolamento, sono certa che non ci sarà mai bisogno di applicarlo!"). Sono regole ovvie, riguardano il comportamento che dev'essere modesto, il linguaggio che dev'essere forbito, il rispetto degli orari che dev'essere assoluto, ma anche la collaborazione "per formare insieme una grande famiglia". Qui non si fanno inchini né baciamani, come nella scuola  privata dove si allevano da tempi immemorabili le ragaqzze perbene. Ma Alessandra, che ne è appena uscita, ogni tanto  si diverte a mostrarci come si fa: un due tre, un due tre, sei tempi in tutto, ma sembra una danza.
Quella che mi piace di più è una suorina indiana giovane giovane, forse più ancora di noi, nera di pelle, occhi e capelli, e sempre allegra, che ha appena preso i voti e canta con voce purissima e un buffo accento straniero alle funzioni nella cappella dove lei fa gli assolo e noi il coro. La più inquietante è suor Margaret, una bella donna (straniera anche lei, come il suo nome?) sui quarant'anni, dal viso sofferente, che ci scruta con un interesse come affamato o affannato, e quando si  crede fuori controllo ci fa molte domande, specie sui nostri compagni di studio. Ma la superiora la tiene d’occhio sempre e la fa sempre richiamare altrove. Noi l'abbiamo soprannominata, senza voli di fantasia, "la monaca di Monza". Le studentesse anziane parlano di una monacazione frutto, ed espiazione, di uno scandalo giovanile. E qualcuna sostiene che non sono gli uomini a interessarla, come sembrerebbe dai suoi interrogatori. Sono le donne, lo si vede da come ci guarda, e dalle rughe verticali che le si formano tra naso e bocca conferendole un aspetto tormentato. Viene e va, più va che viene, anche se si capisce che vorrebbe restare.
Per entrare o uscire dal pensionato bisogna passare per il controllo della suora portinaia, grassa, occhiuta, occhialuta, comunque non si può rientrare dopo le dieci di sera, salvo in occasioni straordinarie per cui l'orario del rientro si contratta di volta in volta.
Non sono molto contenta della sistemazione. Avrei preferito alloggiare alla Casa della Studentessa, senza monache fra i piedi, ma i posti erano esauriti e in fondo si tratta solo di un anno, il mio primo anno d'università, perché fra poco i miei si trasferiranno in questa stessa città e così tornerò in famiglia.
Anche le mie compagne di stanza sono qui di passaggio. Forse per questo ci hanno messe insieme. Federica l'anno prossimo farà la pendolare con la corriera, e Alessandra resterà qui solo finché suo padre, un ingegnere progettista di ponti e strade, all'estero con la moglie per un soggiorno di lavoro, non rientrerà in Italia. I fratelli sono affidati ai nonni, ma lei, la più grande, già matricola di Lettere, han deciso che starà meglio in collegio. Più libera e più controllata insieme.
Alessandra Vendramin è davvero bellissima. Oltre che "la Pia", perché esibisce  grande devozione e, perfino alle feste da ballo, si preoccupa sempre di testimoniare la sua fede, la chiamano anche la principessa Grace, e difatti come lei è alta e algida, bionda, elegante di un'eleganza sobria e raffinata che non è soltanto di abiti (quasi sempre in una sfumatura di blu o di azzurro o di pervinca per richiamare il colore degli occhi), ma di modi misurati e signorili, che solo ogni tanto si contraddicono a sorpresa in risate incontrollabili che le arrossano la pelle di pesca. Allora si trasforma, da divina-mondana ridiventa una ragazzetta come noi.
Alessandra ha fatto le elementari, le medie e il liceo classico come esterna al collegio femminile più chic della città, e in tredici anni di scuola privata, religiosa e frequentata da rampolle altoborghesi o aristocratiche o pescecagne, come dice talvolta imitando il linguaggio di sua madre, ha contratto quella disinvolta compostezza  che la fa sempre percepire come perfettamente al suo posto, senza ostentazioni e senza timidezza. L'estate scorsa è stata a Lourdes ad accompagnare un treno azzurro di ammalati, ha spinto carrozzine, si è immersa fideisticamente nelle piscine di acqua benedetta ("coi malati? non avevi paura del contagio?" le ha chiesto dubitosa Federica) e ha partecipato alla grande fiaccolata della processione notturna rivolgendo senza dubbio, e con fervore, infuocati complimenti alla Vergine Maria. Al ritorno però si è fatta sostituire  da un'altra hostess  e - dopo il dovere il meritato piacere - è ritornata in Italia in  pullman, con un gruppetto di turisti o pellegrini sani di corpo e di mente, con cui ha visitato il sud della Francia. Così quando son passati per il principato di Monaco tutti, ma proprio tutti, le han detto che sembrava Grace Kelly fatta e sputata, e lei ha sorriso con malcelata soddisfazione, replicando con un umile "magari!".
Ogni tanto, di notte, prima di dormire, Alessandra ci racconta qualche episodio marginale della sua vita, difficilmente però ci confida sentimenti o progetti, e soprattutto non esterna mai eccessive emozioni,  tantomeno se negative. Al contrario di me e Federica, che siamo spesso scompostamente "in crisi”, oppure  in preda a euforie  irrefrenabil, e ci raccontiamo speranze e patemi, non senza qualche estemporanea esplosione di pianto. Ma Federica ha anche lei le sue difese, lo scopro un po' per giorno, io invece sono come una lumachina che è caduta da un ramo e le si è spaccata la conchiglia, lasciandola indifesa. "Devi corazzarti", consiglia saggia Alessandra, "altrimenti qualsiasi parola potrebbe ferirti a sangue". Le parole, lo so già, sono lame.
        

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Quando sono arrivata al collegio con la mia vecchia valigetta di cuoio morbido color  marrone - l'altra valigia, più grande, era stata spedita in precedenza - e ho premuto il pulsante che rimanda un suono antico come di campanella col batocchio, proprio da convento, mi sono imbattuta in Federica, che usciva giusto allora in cortile con un libro in mano. Poco dopo è rientrata in camera, credo apposta per conoscermi, sapeva che stava per arrivare una nuova, e benché, o proprio perché, siamo timide entrambe, abbiamo avvertito subito una corrente di attrazione reciproca. Lei vien giù da un paesino sui colli, dove suo padre è medico condotto e la sorella maggiore fa supplenze di matematica, in attesa dei concorsi. Federica è nata troppo presto per essere alla moda, e non ha la vocazione a fare la mannequin. E' alta un metro e settantacinque, porta scarpe numero quarantuno e ha lunghi capelli neri e diritti da squaw, tirati indietro da un cerchietto di tartaruga. Il viso è rotondo e infantile, se ride sembra una bambina, ma quando è pensierosa, e lo è spesso, il volto pare invecchiarsi di colpo e prende un'espressione sofferente: come se in lei coesistessero due persone  diverse e contrapposte, due anime in lotta che alternativamente prevalgono. Ha un cognome slavo, Kvas ("sì, proprio come  quella bevanda di pane fermentato che si beve in Russia"). Forse è per quel cognome, anche se i suoi vivono in Italia da tempo immemorabile, che la sento subito sorella, o, diciamo, cugina. Perché io, che ho il cognome italianissimo di Altieri, il cognome di mia madre, sono nata in Istria  che adesso è terra slava. E un po' slava mi sono sempre sentita, a differenza della mamma che si sente italiana anche se ha lasciato laggiù il suo primo amore serbocroato (più serbo che croato, a dire il vero), che è poi mio padre, seguendo il futuro marito sulla nave che ci ha riportate "in patria".
        

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Dell'Istria ho ricordi confusi, avevo pochissimi anni quando ci siamo imbarcate sul vapore pieno di profughi - uno degli ultimi in partenza nel dopoguerra - che  ci ha traghettate a Venezia, dove abbiamo preso in affitto una piccola casa alla Giudecca perché il canone era basso e perché ci ricordava quella lasciata in Istria. Una villetta del primo Novecento, a due piani di mattoni rossi con decorazioni liberty, circondata da un orto pieno di frutta sugosa e da un vecchio giardino ad aiuole delimitate da ciuffi di erba pendula, verde scuro. Le finestre del salotto sono a disegni colorati, come vetrate di una chiesa. Bellissime. Sembra di essere in un castello, ma  bisogna aprirle per far passare la luce. E' divisa fra due famiglie,  noi abitiamo al piano di sotto con la nonna di origine toscana che ci ha seguito anche in Italia "perché, diceva, la mi' bimba ha bisogno di me". La mamma non ce l'avrebbe fatta, sola con la sua pena e un uomo estraneo più di uno straniero. C'era anche il nonno, quando siamo arrivati. Dopo pochi mesi non c'era più. Lo aveva ucciso l’umiliazione del trasloco.
Mi ricordo, del mio paese natale, soprattutto il mare freddo, punteggiato di  isolette rocciose che sembravano sassolini scagliati lontano da un dio bambino. Un mare-lago dove facevo il bagno nuda,  come tutti i bambini e molti adulti, perché gli slavi non conoscono il pudore del corpo, solo quello dei sentimenti. Ma anche la mamma si tuffava nuda dalle rocce, descrivendo un arco con il suo corpo teso, sodo e sottile, librato contro il cielo, mentre al Lido di Venezia neanche la nudità dei bambini era ritenuta decorosa, e allora mi facevano indossare un costumino azzurro, lavorato a maglia a punto riso, che s'imbeveva subito di acqua e non mi lasciava godere del contatto scivoloso delle onde sulla pelle, e poi non si asciugava mai e diventava pesantissimo, e allora bisognava cambiarlo, mettere il prendisole di piquet con i pantaloncini a sbuffo e i bottoncini sulle bretelle.
Mi è rimasta impressa in qualcuno dei sensi (forse l'odorato, più ancora che il tatto) la raccolta delle cozze avvinghiate agli scogli e dei ricci che mangiavamo crudi sul posto, spremendoci sopra succo di limone, mentre il corpo salato si asciugava al sole. E  negli occhi l'immagine di mia madre che cambiava umore e colore ogni volta che mio padre passava da noi, altissimo e atletico, coi capelli biondo-rame e i miei stessi occhi verdi, e mi sollevava in alto facendomi "fare il grattacielo", e fra le sue braccia guardavo superba il mondo di sotto, sentendomi potente come mai più mi son sentita dopo. Lui mi chiamava "mostro", ma dal tono carezzevole della sua voce era come se dicesse "angelo".
Mio padre ci voleva bene, me lo ripete ancora adesso la mamma, ma ci ha lasciate, o meglio non ci ha seguite. "Per motivi politici", mi è stato detto: perché lui era slavo e voleva restare nella sua terra finalmente liberata. Perché era comunista e noi, nel pregiudizio dei suoi compaesani, si apparteneva alla mala genìa dei fascisti. Ma ormai era un po' di tempo che non veniva più a trovarci, nella casetta di mattoni diventata una casa di donne perché il nonno negli ultimi tempi se ne stava rintanato nel suo studiolo sotto il tetto, e se anche ne usciva non parlava quasi più. Casa di donne di tre generazioni diverse, e che tale rimase finché un bel giorno non arrivò quell'altro uomo. Un signore asciutto e silenzioso, di media statura, con i capelli già un po' grigi attorno al viso abbronzato di ex marinaio. Si era innamorato subito della mamma, che era colta e bella e malinconica, e le aveva chiesto di sposarlo e di tornare con lui in Italia, lei non voleva proprio saperne ma la nonna le ripeté per mesi che doveva farlo "per la bambina", che altrimenti sarebbe cresciuta come una nemica dei nuovi padroni, ostaggio in un paese che davvero considerava nemici tutti gli italiani, anche noi che fasciste non eravamo state mai, solo mia madre aveva avuto la tessera ma perché faceva la maestra finché non era stata sollevata dall'incarico. Così lei si lasciò convincere, dopo mesi che mio padre era sparito, a salpare verso un'altra costa, lasciando in Istria la metà viva  di se stessa.
        

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Il battello era una grande carretta di mare che aveva conosciuto tempi migliori, con una scritta arrugginita sulla chiglia risalente a quando portava i crocieristi, e non i rifugiati politici, in giro per il Mediterraneo. Anni Trenta, forse addirittura Venti. Era un piroscafo grigio - o  pareva di questa tinta cinerea perché era livida la giornata della partenza, di uno sbiadito colore autunnale che dal cielo si specchiava nel mare - e tutta la gente si affrettava sul piccolo molo con pesanti valigie in mano. Le donne portavano il cappello di feltro e il cappotto buono,e,   siccome c'erano i fotografi, alcune avevano un sorriso tirato sulle labbra color ciclamino, come mia madre che sopra il tailleur blu oltremare aveva indossato un impermeabile di nylon regalatole dal futuro sposo (un acquisto fatto a Trieste, roba di lusso, roba americana) e mi stringeva a sé con nervosa  forza, premendomi le mani sul mefisto di lana verde smeraldo, da cui schizzavano fuori i miei riccioli rossi. I quali, insieme con il berretto e il cappottino bianco, richiamavano volutamente il tricolore. Un'idea patriottica della nonna, naturalmente. In realtà dovevo sembrare un semaforo. Capivo, dalla sua faccia, che bisognava far finta di essere contenta e sorridere, o la mamma si sarebbe messa a singhiozzare, e forse avrebbe cercato di tornare indietro di corsa. La mamma ha sempre avuto un cuore di bambina.
Invece ormai indietro non si doveva più tornare, perché tutto era stato deciso, e d'altronde mio padre non era nemmeno venuto a salutarci e non aveva risposto alla lunghissima lettera che la mamma gli aveva scritto a rate in più giorni (per dirgli che partiva,  nella speranza che lui la trattenesse). L'avevo imbucata io, con inutile trepidazione. Forse si era trasferito, Tito favoriva i continui spostamenti interni fra etnie, o aveva già un'altra donna non italiana, perciò non "fascista", non nemica e imbarazzante come la mamma e  me.
Altro più non ricordo o forse non voglio ricordare. Il resto sono come echi mentali dei racconti che ho sentito ripetersi negli anni veneziani con variazioni di particolari, come leggende di un ciclo epico salvate da mia madre e dalla nonna per non farle morire, e per non morire.  Ormai non riesco più a distinguere le memorie reali da quelle nate dalle fantasie innescate da quelle storie.
I nonni cercavano di distrarmi, di farmi interessare alla nuova casa, sull'altra sponda dello stesso mare, dicevano, e mi parlavano dell'asilo dove avrei frequentato la "primetta" e dove nessuno mi avrebbe fatto sentire - così almeno credevano - una scomoda e poco amata straniera.
La mamma si sposò pochi mesi dopo nella chiesa della Salute con la facciata bianca tutta a riccioli e volute, e a me  era sembrato quel giorno di perdere tutto per la seconda volta. Forse è per questo che mi sento sempre perdente, come la lumachina  che ha perduto  il suo guscio.


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Le immagini sfocate si accavallano nel mio schermo mentale come in un film mentre racconto a Federica che vengo da Venezia ma sono un'esule, e che mio padre era slavo proprio come i suoi antenati. Non dico altro  e altro non mi chiede, non è una di quelle che fanno il terzo grado: ma sembra capire al volo anche quello che non dico.
"Vieni, scendiamo a farci un tè in cucina, c'è il bollitore sempre pronto" mi dice. Cerchiamo goffamente di far conversazione: "A sproposito - chiede in tono volutamente frivolo -, che facoltà hai scelto?".
"Filosofia, ma poi vorrei specializzarmi in psicologia. E tu?".
"Lettere, come Alessandra, che conoscerai stasera. Insomma, siamo tutte e tre alla stessa facoltà e tutt'e tre matricole: è il massimo, ne avremo di cose da spartire!".
Versa il tè, nella grande cucina, in due tazzoni di ceramica blu, e il liquido scende a riscaldarmi insieme stomaco e anima. Si cambia, finalmente. Vita, città, amicizie, studi. E pazienza se per un anno vivremo in collegio.
                                              
                                              
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"Diciotto", dice Alessandra quando le chiedo l'età, e subito dopo scopriamo, che coincidenza!, di essere nate nello stesso mese, in due giorni vicinissimi. Stesso oroscopo, dunque: eppure, più diverse di così! Lei così sicura e già così signorina, io con i capelli indisciplinati e "di quel colore tristo" - dice  il mio patrigno, che ho imparato con  un po' di fatica a chiamare papà - "che un solo buono  ebbe nel mondo: Cristo". Lo dice scherzando, ma riesce a farmi sentire comunque diversa. E forse intimamente malvagia. Decisamente sono di temperamento tragico, il mio senso dell'umorismo  scarseggia o latita.
"Diciannove", dice Federica che in verità, se non fosse tanto alta, sembrerebbe la più giovane di tutte. Una cucciola con braccia e gambe troppo lunghe, che a volte sembrano svitate, con il seno quasi piatto, sempre accartocciata su se stessa per sembrare un po' più piccola, sempre a camminare sul bordo esterno del marciapiede. Specie se vicino a lei camminano, e succede spesso, dei maschi piccoletti, come la maggior parte di quelli nati in epoca di scarse vitamine. Porta scarpe rasoterra, ballerine o mocassini che le fanno i piedi ancora più lunghi, ma lei sostiene che sono gli angeli ad avere i piedi lunghi, mentre Alessandra volteggia aerea come un'indossatrice sulle sue decolletées di capretto coi tacchi di sette centimetri, e io mi trascino con i miei pesanti scarponcini carroarmato, destinati a durare il più possibile e a far fronte anche all'acqua alta, riservando alle feste le uniche scarpe con il mezzotacco a rocchetto che possiedo, adorne di un piccolo fiocco.


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A lezione ci dividiamo. Io seguo Storia della Filosofia e Filosofia Antica, Alessandra, che è portata a tutto ciò che è bello e armonioso, Storia dell'Arte Moderna e Contemporanea, perciò nel tempo libero è sempre in giro a visitare mostre e musei. Federica invece ha scelto Letteratura Inglese ed Esercitazioni di Lingua, perché, dice, non si fermerà per sempre in questa provincia addormentata, dove si sente una prigioniera in gabbia. L'appuntamento è per le cinque.
M’infilo nella grande aula dove convengono i pochi studenti di Filosofia e quelli di Lettere che seguono il corso monografico. Mi accorgo subito che c'è un gruppetto di caporioni: son loro che interloquiscono più spesso, si mettono in evidenza, sparano battute che credono di spirito, sbandierano sapere filosofico e letterario facendomi sentire un vermetto che non ha letto niente oltre i romanzi-fiume e i libri di scuola. Del resto le ragazze  sono quasi tutte timide, la testa, anche se ce l'hanno, non la mettono in mostra: solo la bellezza può essere misuratamente ostentata. I nomi che sento ricorrere più spesso sono quelli di Nietzsche, Heidegger, Marcuse, e altri che non avevo mai sentito neppure pronunciare, perché il prof del liceo si fermava a Hegel. La contemporaneità non si può giudicare, affermava perentorio, sarà per questo che non aveva mai accennato né ai lager né alle foibe.  C'è un moretto piccolo e vispo, con una bella faccia aperta ancorché brufolosa, e gli occhialini rotondi. Mi guarda di continuo e sorride incoraggiante, quasi un invito a intervenire, ma io in pubblico mi comporto come se fossi sordomuta, credo che parlerei solo con un bazooka puntato alla schiena. Ecco perché certe volte, invece che "La Rossa", qualcuno mi chiama "La Muta".
Mi accorgo che nelle ultime file ci sono degli infiltrati di altre facoltà. Chiacchierano con le ragazze, le guardano, ridacchiano, vanno fuori a fumare e poi rientrano: finché il professore, con un gran parruccone di capelli candidi, esplode: "Si pregano gli studenti di  Ingegneria, Medicina e Legge di andar fuori ad aspettare le studentesse, invece di disturbare la lezione!".
"Io faccio Agraria, dunque ho la dispensa", sogghigna sottovoce un magrolino ricciuto in penultima fila. Ma restano in aula anche gli altri. Le studentesse indossano golfini gemelli di angoretta e gonne a pieghe, scozzesi o fumo di Londra, alcune hanno i capelli cotonati come Brigitte Bardot o Claudia Cardinale in "Otto e 1/2", e sono soddisfattissime dell'invasione degli extrafacoltà che qui sembrano extraterrestri, perché quanto a maschi la facoltà di Lettere, lo ammette anche Alessandra, fa un po' schifo: un paio di preti, belli, niente da dire, ma pur sempre preti, alcuni similpreti malvestiti e insicuri che vengono dalle campagne o dal sud, e i tre o quattro genialoidi, o presunti tali, che non bastano certo per tutte, ammesso poi che, al di là della  genialità vera o fasulla, nutrano sincero interesse, oltre che per se stessi, per le ragazze in ammirazione di cui si circondano. Alle cinque il professore smette di far lezione ed è subito circondato dai big. "Scusi, professore, una domanda...". Quello si aggiusta gli occhiali e risponde incerto: "Ma è peloso lei?". Un barlume di imbarazzo traspare dalla faccia dell'ipersicuro che mi aveva sorriso durante la lezione e ora stenta a reprimere una risata. "Beh... non saprei, normalmente, credo..." L'assistente capisce al volo  e sputa in fretta: "No, professore, Peloso è già uscito".
Esco dall'aula col notes zeppo di appunti e i pensieri zigzaganti in tutt'altra direzione. Il moretto normalmente peloso mi lancia ancora un'occhiata, ma io scappo via. E nell'atrio, sotto i piedi giganti della statua di Tito Livio, che è nato da queste parti, scorgo subito Alessandra e Federica che mi stanno aspettando.
"Abbiamo davanti almeno due ore prima della cena" fa Alessandra dopo aver consultato il suo piccolo Omega d'oro, "che ne direste di passare in chiesa e poi al circolo? Oggi c'è la messa dell'universitario, se ci sbrighiamo è ancora valida". Non ne ho proprio nessuna voglia e, ne son certa, non ne ha voglia neppure Federica, però Alessandra sa essere convincente con la sua sicurezza, e dunque la seguiamo abbastanza docilmente. Gratta la donna, trovi la schiava, direbbe il mio patrigno.
La chiesetta è illuminata soltanto dallo sfavillio tremolante delle candele, ed è già piena. Stavolta ci sono anche parecchi maschi. Ci dividiamo trovando posto in banchi diversi e m'incanto immediatamente a osservare le movenze di Alessandra, davanti a me, che recita le preghiere a voce alta, s'inchina e si rialza con aria ispirata ma a ritmo perfetto, si è coperta il capo con un velo di pizzo bianco estratto dalla borsa, un velo che le dà un'aria regale, proprio da principessa Grace. Dio, come son belle le venete che pregano!
Al momento giusto si alza, va a fare la comunione, torna al suo posto compunta, congiunge le mani, s'inginocchia e, con il volto fra i palmi tesi, resta a lungo in preghiera. Provo a imitarla, anche se non faccio la comunione perché non mi piace confessarmi e poi anche dopo l'assoluzione mi sento sempre colpevole di qualcosa, m'inginocchio e a mia volta copro la faccia con le mani, cercando concentrazione. Ma mi vengono in mente solo i ragazzi delle altre facoltà che ho intravisto a lezione, i genietti di Filosofia e le ragazze dai gemelli color turchese o geranio. Riapro gli occhi, mi accorgo che finalmente Alessandra si è rialzata, ma quando risuona l'"Ite, missa est" e tutti cominciano a muoversi, lei a sorpresa e di colpo ripiomba in ginocchio, riabbassa il capo fra le mani e resta altri cinque minuti buoni in meditazione (non è che penserà anche lei ai maschietti?), finché tutti, nessuno escluso, han potuto notare la sua devozione. Poi finalmente si solleva e - siamo già sulla scalinata esterna - regalmente appare sulla porta distribuendo sorrisi e strette di mano, poi si avvia alla vicina sede del circolo universitario dove ingaggia con destrezza una partita di ping-pong e progetta con altri una "festa dell'amicizia". Al circolo convivono, con qualche conflittualità, tre gruppi di studenti: quello delle associazioni goliardiche a caccia di matricole, quelli laici e, a dir loro, progressisti, e i cattolici praticanti.  L'amicizia di cui parla Alessandra si riferisce soprattutto a quest'ultimi - che di fatto la chiamano "amicizia cristiana",  o se sono della Fuci "fucina" -, anche se le occhiate e i sorrisi che elargisce sono rivolti soprattutto ai primi due gruppi.
"Ma l'amicizia non dovrebbe essere una cosa spontanea, che nasce per caso o  per affinità elettiva?" chiedo poco convinta.
"Ma no" mi spiega paziente Alessandra sulla strada del ritorno, "ti sei guardata in giro? Non hai visto che ci sono anche persone bruttine, o imbranate, alle quali si può regalare cordialità e affetto, farle sentire inserite in una comunità e non escluse o emarginate?". Mi era sembrato che lei discutesse, e giocasse a ping-pong, e soprattutto dispensasse sorrisi ai più muscolosi o ai più brillanti, forse non avevo visto bene.
"E poi - aggiunge - a volte dalle amicizie possono nascere amori. Hai visto quelle due coppie, Francesco e Luisa, e Michele e Giorgia? Sono coppie inossidabili, eppure ognuno è sempre disponibile per gli altri e dà l'esempio di come dev'essere una coppia cristiana, per testimoniare". E dagli con la testimonianza, penso ma non dico, è uno dei suoi vocaboli preferiti. Ma Alessandra mi legge nel pensiero. "Non hai idea di come si comportino certe ragazze, anche fidanzate, quando non si sentono sotto controllo. Quest'estate sono stata un mese nell'Alta Savoia a perfezionare il mio francese, e c'erano molte italiane che si toglievano l'anello di fidanzamento reinfilandolo solo al momento di ripartire".
"E senza anello cosa facevano?" s'informa Federica con aria ingenua. Alessandra sembra incerta se proseguire o no, lei ci tiene ad essere una ragazza di classe, aspira già da ora a diventare "una vera signora". Poi però si butta, decisa: "Le più carine erano  le più porcelline" butta là con un linguaggio volgare che mi tramortisce. Poi cambia argomento, e intanto arriviamo al collegio mentre si fa sera e le prime nebbioline sfuocano i contorni delle case e delle cose.  

                                                       

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Alessandra riceve moltissime telefonate. Il telefono è giù nel salone e si può essere chiamate fino alle dieci. Poi non più. A volte, dopocena, siamo ancora sedute sui divanetti di finta pelle color malva a guardare la tivù o ascoltare musica, o certe sere siamo già in camera, e arriva un po' affannata la suora di guardia ad avvertirla che c'è una chiamata per lei. Sono i genitori dall'estero, dice lei con un sorriso; ma spesso si tratta di qualcuno dei tanti ragazzi che le ronzano intorno. Oltre a quelli che sembra considerare come colleghi o oggetti di volontariato spirituale piuttosto che come corteggiatori appetibili, ci sono gli studenti del grande collegio universitario  che è un  serbatoio di possibili fidanzati, dove interni ed esterni si ritrovano insieme per discussioni filosofiche e religiose, per partite di rugby, e soprattutto per parlare di ragazze. E' qui che nascono i progetti di festine da ballo (prima si chiamavano festini, poi, dopo che questi hanno preso il significato di orge, di balletti rosa o verdi, hanno cambiato genere) ed è qui, ce lo ha raccontato un certo Giancarlo sempliciotto e chiacchierone, è qui che le ragazze vengono "schedate" in base alle loro qualità, matrimoniali oppure d'intrattenimento senza impegno. Le voci della schedatura  vedono al primo posto la bellezza, intesa come armonia del viso, proporzioni e morbidezza del corpo (il modello, per i più raffinati, è la Venere di Milo; le tette e gli altri attributi della Loren per i più sinceri). Per questa voce Alessandra è sempre al top della classifica. Al secondo posto viene la "serietà". L'ideale sembra sia promettere molto e concedere poco, se no ci si squalifica: insomma funzionare come ragazze-accendino ma restare in grado di spegnere  la fiammella. Per chi si è già acceso come un falò funzionano le ragazze-portacenere. Magari meno belle, certamente meno serie, forse più interessanti, ma che si possono usare senza scandalo. Conta anche la famiglia, naturalmente. Che nel caso delle ragazze-accendino dev'essere "buona" e ricca, perché è fra quelle che si sceglieranno le mogli. Mentre per le ragazze-portacenere è meglio che non sia in vista, va bene anche se appartiene al proletariato o alla piccolissima borghesia, va meglio ancora se è "di fuori": come la mia, o quella di Federica. Con la famiglia di Alessandra c'è poco da scherzare, anche se, pare, è meno prestigiosa di quel che lei vuol far credere.
Seguono nell'ordine creatività in cucina (chi fa meglio le torte e le tartine per le feste), abilità nei lavori a maglia (chi fa i più bei maglioni ai ferri), eleganza (apprezzatissima, anche in questo caso, quella sobria e insieme  sexy di Alessandra), e naturalmente verginità, di cui non si parla mai perché la si dà assolutamente per scontata, ma sono ben considerate anche le doti sportive e la passione per il ballo, occasione in cui, quando si spengono le luci (mai più di otto-nove minuti per volta) è considerato lecito farsi stringere (non troppo), ballare guancia a guancia il ballo della mattonella, far capire insomma che non si è proprio di ghiaccio ma che ci si sa ritirare al momento giusto.
"E qual è il momento giusto?" sbotto io che sono sempre un po' indietro di cottura, come dice Alessandra. Lei e Federica infatti ridacchiano, poi Alessandra, senza rispondere alla domanda, spiega che ci sono molti sistemi per ritirarsi senza essere offensive. "C'è per esempio una piccola astuzia facilissima da mettere in pratica - il suo tono è come sempre fra il didascalico e lo scherzoso -: basta  ricordarsi all'improvviso che si deve fare una telefonata e assicurare che si torna subito".
"Poi c'è la conversazione", aggiunge, "devi distrarli, i ragazzi, parlare di un film, di un libro appena letto, o dell'ultima partita di rugby".
"Così si disarrapano", commenta concisa Federica, non capisco bene se con approvazione o biasimo.
"Comunque è importante partecipare - riprende Alessandra, ignorando l'inopportuna interruzione -, per dare l'esempio di come ci si può comportare da ragazze perbene e di buona famiglia perfino ballando il tango argentino in una festa". Dove lei spopola, ne avrò presto conferma, non perde un ballo e dissemina cuori infranti.
Federica fatica un po' a trovare ballerini della sua altezza, i bassotti sono la maggioranza, ma quando ne trova uno, di solito lui non la molla più. Io vengo scelta per i balli veloci perché sono leggera e agile, ma con le mie lentiggini e la gonna scozzese non credo proprio di essere considerata sexy. Anche se, bontà sua, Alex ci aiuta a pettinarci e a truccarci, un po' di ombretto e il fondo tinta, al massimo un velo di rossetto, e ci consiglia sui vestiti da scegliere. Prepararci è ancora più divertente delle feste, almeno per me. Oppure commentarle a serata finita. Il presente sfugge via, si anticipa o ritorna solo nelle rappresentazioni mentali, è fatto di timidezza e imbarazzo e delusione e sforzo per essere accettate, magari da persone insignificanti, senza luce interiore né esteriore. 
Comunque io e Federica siamo abbastanza ricercate ma sappiamo anche cosa vuol dire, per qualche giro di danza, "far tappezzeria" (io allora cerco di consolarmi pensando di essere Natascia al primo ballo, quando non ha ancora incontrato il principe Andrej), mentre Alessandra sembra non aver mai provato quella sottile umiliazione, e così si può anche permettere di rifiutare un invito ("Più tardi, sorride, adesso sono stanca"), sicura che il cavaliere messo in lista d'attesa le siederà a fianco senza lasciarla un attimo sola. Federica invece s'imbosca, certe volte. Si dilegua e poi ricompare, così come altre volte sparisce dalla nostra stanza del collegio e rispunta molto più tardi, dribblando non si sa come i controlli delle suore. Qualche sera torna perfino a mezzanotte e oltre, e non dalla finestra. Ma come farà?
Alessandra, se è ancora sveglia, sospira nel buio, probabilmente alzando le sopracciglia come fa quando disapprova qualcosa, o butta là un: "Sta' attenta, Federica. A parte il regolamento, e sai bene che potresti essere espulsa, pensa a te, non giocarti la vita. E poi devi dormire, non lo vedi quanto sei sciupata?". Federica  di solito tace, forse arrossisce nel buio (arrossisce spesso, come me) e fila dritta a letto senza accendere la lucetta rosa impiantata dietro il comodino, di quelle per scongiurare le paure infantili del buio.
Solo una volta ha risposto, sibillina: "C'è l'inverno per dormire".

        

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Oggi mi hanno presentato un tipo che si chiama  Stefano, nell'atrio dell'università. Non c'era Alessandra, che era andata dalla sarta a provare un cappotto blu e poi a farsi stirare i capelli dal parrucchiere. Sono il suo unico punto debole, i capelli crespi, ma lei se li fa stirare e il crespo non si vede più, appena appena quando piove. Qualcuno dice anche il naso, piccolo ma un pelo aquilino, che però le conferisce regalità. E poi dipende dai giorni, certe volte sembra un po' a patatina, altre volte diritto, e in fin dei conti, da Cleopatra a Sophia Loren, un naso imperfetto non ha mai tolto fascino a nessuna. Certo Federica ha un bellissimo, perfetto nasino all'insù, una virgola, ma lei non si sa valorizzare, deplora Alessandra. "Potresti essere un tipo indimenticabile, e invece non fai che accorciarti le ossa e nasconderti negli angoli".
Anche Federica oggi non si vede, è uno dei suoi giorni di sparizione. Così Stefano e io abbiamo modo di conoscerci e parlare da soli, quasi due ore, fitto fitto. Stefano è uno alto, con i capelli dritti spioventi sulla fronte, e porta una giacca di tweed con le toppe di camoscio ai gomiti. Mi piace subito, come nessuno mi era piaciuto finora. E' piuttosto timido, come me, non sempre ti guarda negli occhi, spesso lo fa di sguincio, quando non si crede osservato, ma se si lascia andare a un argomento coinvolgente non smetterebbe più di parlare. E' uno di quei timidi che hanno dentro un vulcano, basta aspettare che esca la lava, cosa che ai vulcani non capita spesso. Purtroppo l'argomento coinvolgente di stasera è Alessandra. Sempre lei, accidenti: capisco subito che la conosce e chissà, forse era venuto qui per incontrarla, ma fa buon viso anche a me che però non riesco a non sentirmi un surrogato. Studia Legge e vuol diventare giudice, dice, o magari avvocato dello Stato. Ha vent'anni e mi sembra: primo, bellissimo, secondo superintelligente, terzo molto fascinoso: insomma non saprei definirlo senza superlativi.
Anche stanotte, mentre il sonno stenta ad arrivare, ripenso a lui, e vorrei incontrarlo di nuovo:  mi ha detto il suo cognome ma è un cognome comune, nell'elenco ce ne saranno almeno trenta, mica è facile rintracciarlo. Rivolgersi ad Alessandra è rischioso, ha le antenne per queste cose, e chissà mai come potrebbe reagire. E Fede non conosce quasi nessuno, qui in città.
Invece scopro che lo conosce, mi dice che è venuto più volte ad accompagnare Alex in collegio, che l'ha chiamata anche al telefono, ma lei non sembra prenderlo in considerazione. Su chi punta? O su che cosa?
Stavolta, però, Stefano ha accompagnato me, e mi ha anche detto che sono carina (io carina? da quando in qua?), poi si è corretto "anzi bella": sembro un'irlandese, ha detto. Dal che debbo dedurre che tutte le irlandesi sono belle. E quando ha saputo che avevo come compagne di camera Alex e Fede ha aggiunto pronto: "Haec porta Domini: iuxti intrabunt in eam!". Stefano è così, sorride, allude, poi però si ritira. Un po' come Alessandra. Forse più sincero. Quando siamo al cancello mi bacia la mano, anche se io, se non ne avessi paura, se non fosse troppo presto, se non ci fosse di mezzo Alessandra, preferirei un altro bacio.


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Quando non ci sono Alessandra e Federica, mi guardo intorno e scopro le altre compagne di collegio. Sara è una solitaria che scrive sempre, ha scritto sempre, scriverà sempre. E' scrittrice per vocazione, dice con una sorta di solitario orgoglio, anche se sa che dovrà insegnare perché è povera e cosciente che la scrittura non le basterà per vivere. Così studia moltissimo, ha già fatto gli esami del terzo anno e chiesto la tesi, e ai ragazzi non ha tempo né voglia di pensare. E' qui al collegio con una borsa di studio e non può permettersi di perderla. E' un'intellettuale con una sola passione, per il resto sembra un ghiacciolo. Milena invece non studia quasi mai, o forse, chissà, studia di notte, ma frequenta con convinzione l'istituto di Italiano. Ha un volto un po' rozzo e squadrato, da contadina come sono i suoi, guance vermiglie e sguardo attento, e anche il corpo è solido e robusto. Le piace mangiare, è golosissima, specialmente di dolci. I pochi soldi che ha li spende in pasticceria, oppure al cinema dove va spesso, e mi chiede di andarci con lei. Quando accetto è tutta contenta, e dopo il film - se possibile, scegliamo Bergman o Dreyer - ne discutiamo a lungo. Il suo viso, allora, s'illumina come una lampadina, diventa bella. Con lei riesco a parlare facilmente della mia infanzia in Istria, di mia madre, di mio padre e del mio patrigno, lei mi ascolta e mi guarda incantata, come se le raccontassi una fiaba. E' bello sentirsi ascoltata e non temere di essere giudicata.
Milena non è credente, dice che ha perso la fede ma è ancora molto interessata alle religioni, e alle lotte di religione. Con Federica, che neppure lei è credente ma quando c'è Alessandra fa finta di esserlo per farla parlare, discutiamo dell'esistenza di Dio. Noi tre. Pare che l'esistenza di Dio dipenda dal nostro tribunale.  Alessandra invece si ritiene sempre in obbligo di fare proseliti, dispone di argomentazioni razionali e inappellabili e di libri edificanti da citare e da prestare. Oppure consiglia un padre spirituale che, assicura, saprà dissipare tutti i dubbi.
"Ma io non so vivere senza dubbi" ribatte Fede in assenza di Alex. "Detesto gli obblighi, i dogmi, tutte le certezze assolute che portano al fanatismo". Scuote i capelli corvini e aggiunge: "Ci pensavo l'altra notte, quando non riuscivo a dormire, che per autodefinirmi potrei usare tre aggettivi che cominciano per A: anarchica, agnostica, amletica. Ecco cosa sono". Ride. La guardo con ammirazione per la battuta, a me non vengono mai così a proposito. Anche Milena ride contenta, quando è con noi si sente protetta contro la sicumera bigotta e  crudele dei suoi compaesani. Però anche lei è sensibile alla grazia di Alessandra. I ragazzi, a quel che pare, non le interessano molto, e fra le ragazze sembra calamitata da noi tre. Sara invece è autosufficiente, vive in un suo mondo scarnificato fatto solo di parole ed è certa che diventerà una grande narratrice, anche se per questo dovesse rinunciare a farsi una famiglia. I libri son meglio dei figli. Dice che la pensano così anche Moravia e Pasolini.
Noi tre invece (di questo Milena non parla) vogliamo sposarci, e prima innamorarci, e prima ancora guardarci intorno, scegliere ed essere scelte: cosa non facile, perché di solito succede che chi ti sceglie non ti piace e chi ti piace non ti sceglie, il che è all'origine di infinite confidenze, qui al collegio, su catene di amori unilaterali e lacrimevoli, su speranze, oroscopi e perfino "fioretti" e preghiere.

                                              
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Ho l'impressione di essere attratta da Stefano ogni giorno di più, non faccio che pensarci, ma lui non si sbilancia, anzi sembra sempre orientato a favore di Alessandra, che invece lo considera con schizzinosa indifferenza. Federica mi scruta con preoccupazione: di Alex non si fida del tutto. All'ultima festina, alla cui riuscita abbiamo collaborato con vassoi di tartine multicolori e crostate confezionate nella cucina delle suore, c'erano quasi tutti: i genietti di facoltà e i "Bellissimi" (è Federica che ironicamente li ha battezzati così) del collegio universitario. E io, sapendo che sarebbe venuto Stefano, ero tesa e intimorita, nonostante che per una volta avessi abbandonato la divisa scozzese a pieghe a favore di un nuovo maglioncino aderente e una gonna a ruota di pannolenci orlata di frange. Niente a che vedere col vestito di Alessandra di rasatello blu, peraltro. La sua era una mise da principessa. La festa era in una casa privata, un vecchio appartamento nobile un po' fané. Vi si accedeva da un centinaio di scalini di marmo sbrecciato e si apriva, sul tetto, in una gran terrazza con vista sulla Basilica. C'era nebbia e freddo, quella sera, un freddo bagnato e cattivo e senza vento, da novembre padano, ma il terrazzo, con poche piante intirizzite o già spoglie, era ugualmente frequentato da coppiette che s'imboscavano a turno per "rinfrescarsi", fumare qualche Giubek e ascoltare la musica che arrivava ovattata dal piano di sotto, canzoni galeotte come "Diana", "True love" o "Il cielo in una stanza".
Stefano non ballava molto, si alternava solo tra me e Alessandra, se ballava con me parlava di lei  e il mio cuore si metteva a sanguinare come quello trafitto di San Sebastiano, ma se ballava con Alex c'era subito qualcuno che con un colpetto sul braccio gli portava via la dama. E lui tornava da me.
"Non è il mio tipo", a domanda (nostra) risponde Alessandra, pur compiaciuta del corteggiamento. Un altro trofeo da appendere al muro. E io, allora, estrema furbizia, invito Stefano a dichiararsi, contando sulla previsione che lei gli dirà di no e dunque l'infatuazione gli passerà e forse potrò subentrare, anche se il verbo mi mette malinconia, all'icona di perfezione di Alex. Ma Stefano esita, preferisce aspettare. Una volta che Federica non c'è, Alessandra mi racconta con un filo di maligna soddisfazione di aver ricevuto una lettera da lui, e di non avergli nemmeno risposto. "Qualche giorno fa l'ho visto vicino al collegio con Federica, chissà che adesso, credendo di farmi dispetto, non ci stia provando con lei" insinua, escludendomi perfino dal novero delle possibili succedanee. (Anche questa è una brutta parola, fa pensare alle uova di lompo che nella pubblicità è il succedaneo del caviale). Federica? Ma Federica sa che mi piace Stefano, ne abbiamo parlato per un'intera serata. Comunque mi sento sempre più fuori causa. Adesso gli ostacoli da superare diventano due e sono proprio le mie due migliori amiche. E Stefano è sempre più simile a una sfinge.
Di fatto, da qualche settimana Fede va fuori ogni sera e torna tardi, sempre più tardi, dopo la mezzanotte. Non oso chiederle nulla, quando la vedo rientrare di soppiatto, con le scarpe in mano, e farsi strada silenziosissimamente fino al letto con la piccola torcia elettrica. Chissà come fa a dribblare sempre la suora guardiana. Mi sento sola, poco amata, poco felice, poco furba. Anche se ho diciotto anni, l'età mitica.
"Dovresti pregare" mi suggerisce Alessandra, "la Madonna ascolta le preghiere di chi soffre". Comincio invece a provare morsi di insofferenza, oltre che di gelosia, ma mi sembra di non meritare nulla e nessuno. Del resto, se mio padre mi ha lasciata, oltre ad aver lasciato partire mia madre facendone per sempre una donna a metà, vuol dire che neanch'io dovevo piacergli granché, come figlia. Forse per via di questi capelli più rossi dei suoi e delle lentiggini, che lui non aveva affatto. O perché ero sempre senza parole quando, piccolissima, lui veniva a trovarci portando qualche dolce, o un piccolo dono per me. Il più bello era stato un cavallo a dondolo di legno laccato a luccicanti colori. Ci montavo sopra e sognavo di lanciarmi al galoppo nel mondo in corse sfrenate, e che poi lui mi arrivasse vicino all'improvviso con un altro cavallo, grande e bianco: allora ci saremmo messi al trotto e insieme avremmo guardato il panorama lunare di sassi carsici e luce bianca,  di solitari cipressi ondeggianti e ulivi tremanti, io e lui, e qualche volta magari anche la mamma.
Chissà, se avessi saputo incantarlo, essere spiritosa e sbarazzina, parola allora molto di moda, magari si sarebbe innamorato di me come io lo ero di lui, io che avvampavo tutta quando mi sollevava per prendermi in braccio, ma non riuscivo a formulare nessuna di quelle frasi che pure mi preparavo con tanta cura. Lui pareva non farci caso. Mi caricava sul sellino che aveva montato per me sul manubrio della pesante bici da lavoro e mi portava in giro per le strade non asfaltate, accecanti sotto il sole, che si aprivano come  piaghe nella terra carsica, poi si inoltrava nella boscaglia pedalando di lena per sentieri appena tracciati fino a una baia deserta, e lì si metteva a pescare in silenzio. Sembrava tranquillo. M'insegnava a nuotare e nuotavamo insieme e io mi sforzavo di non avere paura quando c'era vento, e le onde mi cavalcavano sulla testa e mi coprivano il viso e mi mancava il respiro, perché sapevo che lui ammirava il coraggio. "Ti sei spaventata?" mi aveva chiesto una volta, vedendomi in difficoltà. "Macché, io sono una bambina Novecento, non ho paura di morire", avevo risposto tutto d'un fiato con finta fierezza,  impadronendomi lì per lì di una frase che avevo sentito da un'amichetta più grande di me. Ma lui non era sembrato impressionato, aveva riso e mi aveva detto che era una frase fascista, e io avevo capito solo che ancora una volta non ero riuscita a farmi ammirare dal mio grande amore.
Di solito non parlavamo, al massimo lui fischiettava, ma io pativo quel silenzio come se ne fossi stata la causa, perché non sapevo incuriosirlo, stupirlo, neppure intrattenerlo. Capitava, sì, che mi sforzassi di farlo, di parlargli dei miei immaginari compagni di gioco a cui avevo dato nomi slavi per compiacerlo. Ma mi accorgevo da sola di risultare goffa, stonata.
Mio padre era serbo e naturalmente amava i russi, amava tutti gli slavi, salvo sloveni e croati che riteneva filotedeschi, ma amava soprattutto Tito e al suo seguito si era spostato sulla costa. Lo amò più di noi due, italiane e dunque per questo fasciste.
Ai margini della spiaggetta c'era un capanno per gli attrezzi costruito in legno e muratura, una specie di casetta dipinta di un blu acceso, un po' scrostata e piena di fessure, ma io fantasticavo che diventasse la nostra casa, e che lui un giorno m'invitasse a restarci per sempre, con la mamma. Una casa azzurra davanti a un mare altrettanto azzurro e tutto nostro, un mare privato con una spiaggia privata, di noi tre. Un giorno ho provato a parlargliene, ma lui non mi ha neppure risposto: probabilmente lo annoiavo. Ho sempre pensato, fin da allora, di annoiare la gente, e ho sempre attribuito ogni silenzio dei miei interlocutori a disinteresse nei miei confronti. Anche adesso, con Stefano, dopo quella prima volta in cui c'eravamo parlati fitto fitto, non so mai cosa dire. Finisce che per interessarlo gli parlo di Alessandra, anche se in certi momenti mi pare, miracolosamente, che basterebbe molto poco a spostare l'interesse in mio favore.
Comunque di Federica devo sapere. E infatti quando torna, una notte, dalle sue misteriose scorribande, e io l'ho aspettata sveglia, la invito a scendere nel mezzanino dove ci sono due poltrone di vimini, e anche se mi costa non resisto a chiederle se era uscita con Stefano.
"Con chi??? Stai scherzando! Chi ti ha ficcato questa idea in testa? Non vorrei che fosse quella gattamorta di Alessandra...".
Annuisco, un po' vergognosa, e allora lei si arrabbia di brutto. "Eccola qua la santerellina che fa la predica a tutti, e poi guarda  che fantasia malata!".
Mi sento sollevata, elettrizzata quasi, la solidarietà di Fede, e la certezza che non mi ha tradita, mi dà conforto ed euforia.
"Sembrerebbe che la sua morale fosse solo sessuale..." dico io. Un lampo passa nello sguardo di Federica, un lampo ambiguo che colgo anche nella penombra. "Mica tanto, se è per questo. A me non importa proprio niente, ma... Buon per lei, del resto. Poi, tanto, si va a confessare".
La rivelazione mi scuote ma non mi scandalizza. Semmai, mi fa sentire l'unica a non avere ancora esperienze, se si esclude qualche bacio viscido, qualche carezza che non mi aveva dato nessun piacere, e una notte stellata che avrei preferito dimenticare. Ma Federica con chi esce, allora?
"Ho un uomo", mi confida un giorno come captando la muta domanda. E dice proprio "un uomo", non "un ragazzo". "Uno del mio paese che viene a trovarmi, che vorrebbe mettersi con me, ma io non me la sento di impegnarmi, e poi non capisco nemmeno cosa provo per lui".
"Ma ti piace?".
"In un certo senso non posso farne a meno, ma non è che sia il mio ideale...".
Non può farne a meno! Ma in quale  senso? Mi accorgo di essere circondata di segreti, bugie, reticenze.Tutti san tutto, e io non so niente. Anche mia madre e mia nonna mi hanno sempre detto bugie. Mi hanno detto che il secondo marito della mamma mi voleva così bene che per questo aveva voluto portarmi in Italia, via dai Titini, lontano il più possibile dalle foibe. (Ma c'eran già state le foibe?) Ma io avevo capito lo stesso che non era me che voleva portar via dalle foibe dei Titini. Io ero solo una protesi. Come adesso sono una protesi di Alessandra,  forse  perfino di Federica.
        

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Si avvicina Natale. L'aria è piena di fumi di caldarroste, e la gente si aggira allegra fra le bancarelle di dolciumi. Qualcuno fischietta, i bambini vogliono tutto, gli altri si limitano a desiderarlo. Ma io non amo il tardo autunno,  son nata d'estate. Oggi non vado a lezione perché sono raffreddata e afona. E' rosso perfino il mio naso oltre ai capelli, mi sento orribile. Fuori turbina un insolito vento borino, un nevischio fuggevole non fa in tempo ad attaccarsi per terra ma spolvera di bianco le cupole orientali del Santo che dalla finestra sopra la mia scrivania sembrano lo sfondo portentoso di una tela di Chagall.  Ma sì, in fin dei conti è bella questa piccola città maligna e arcana, chiusa nella foresta dei portici che ogni tanto lasciano apparire visioni mozzafiato (cambiare termine). Le piazze  multicolori e il grande Palazzo della Ragione che all'interno cela un antico tribunale e un odoroso bazar orientale. Le cupole e i minareti della basilica dove troppi stili si confondono senza romperne l'armonia. Il Prato, che dicono sia la più grande piazza d'Europa, con tante statue bianche come fantasmi, circondate da un canaletto circolare che a sua volta incastona una piccola isola verde. E' bella ma claustrofobica, penso che anch'io un giorno me ne andrò, come Federica, in cerca di metropoli, di orizzonti meno soffocanti.
Per il momento però resto nella biblioteca del collegio a riordinare gli appunti, occupazione che detesto sempre perché far ordine presuppone metter mano al mio disordine e il mio disordine è malato, fatto di cose che vorrei ma che non riesco a buttar via. L'Istria? Mio padre? In realtà ci sono legata con una corda molto più robusta di un cordone ombelicale. Mia madre? I suoi misteri e le sue menzogne? La sua mancanza di coraggio? Eppure non so rinunciare alla sua tenerezza, perfino la sua apprensività nei miei confronti mi opprime ma mi dà calore e rifugio. I sensi di colpa? Il dover essere, così scomodo perché lo prendo troppo sul serio, anche se non lo prèdico come Alessandra che magari non lo pratica? Ecco, forse ci siamo, per andar libera nel vasto mondo, che non è solo l'Istria e non solo Venezia e tantomeno questa stanza di collegio, avrei bisogno di affrancarmi  dai mille fili che mi stringono da dentro, da tutte le gerarchie, da tutti i dogmi. Ma se mi liberassi da queste che sono anche le mie sole difese sarei debole come un bruco, e non so se ce la farò mai a percorrere da sola un cammino di ricostruzione tutto in salita, in un sentiero esposto su precipizi dove potrei cadere e non risollevarmi e spiaccicarmi giù.
Oggi non vado all'università e non ci sarò neppure alla festa di Capodanno dove andranno gli altri, forse anche Alex e Stefano, ma io di sicuro resterò a Venezia a casa coi miei, non ce la faccio più ad andargli dietro a tutti e due. Sabato scorso eravamo a casa di uno dei Bellissimi, c'era un grande abete già addobbato e luccicante di candeline dorate, e alcune coppiette lo guardavano, doverosamente estatiche. Alessandra come al solito non si perdeva un ballo e quando era entrato Stefano non lo aveva degnato nemmeno di una sbirciatina. Così, facendomi coraggio, gli ero andata io incontro, e il padrone di casa, che conosceva poco tutti e due, ci aveva presentati scambiando i nostri cognomi. Quando aveva pronunciato il suo, attribuendolo a me, Stefano aveva precisato disinvolto "non ancora" e aveva ridacchiato, e anch'io avevo riso ma mi era sembrato un segno del destino, come quando l'Elisabetta fa i tarocchi di nascosto dalle monache e guardandomi fissa mi dice che un ragazzo, per ora stregato da un'altra, presto s'accorgerà di me. Adesso lui è però scivoloso come un'anguilla, e se un giorno mi cerca poi per una settimana posso star sicura che sarà irreperibile.
Verso le undici arriva una visita per Federica, che è uscita di prima mattina. Una donna. La suora portiera la indirizza a me, lei mi s’accosta  e mi chiede se ho idea di quanto la dovrà aspettare. E' sua sorella, si presenta: ma non potrebbero essere più diverse. Questa qui ha un'aria tutta perbenino, pare stata alla scuola di Alessandra, però è più provinciale e anonima. Nient'affatto bella. Una biondina insignificante di statura media, con i capelli cotonati a ciocche tutte uguali, tanti riccetti rivolti all'indentro che la fanno sembrare un carciofo, e il rossetto clair-de-lune sulle labbra pallide e sottili. Dalle orecchie le pendono due orecchini d'argento con piccole pietre turchesi, indossa una redingote di lanetta scura e una borsetta di pelle le penzola dal braccio destro. Sembra  un po' vecchia, già una zitellina. Dimostra almeno trent'anni. Quel che la fa vecchia è l'espressione, come di rabbia  rassegnata e impotente, di una che mai si è sentita amata. Le dico di sedersi su un divano e la rifornisco di riviste che sfoglia distrattamente, come sovrappensiero. Quando finalmente, dopo un'ora buona, arriva Fede, si alza di scatto, le va incontro diventando paonazza e si mette a parlarle sottovoce ma fitto fitto, in tono concitato. Da lontano mi sembra minaccioso.
"Se non torni neanche a Natale è finita, lo sai": è l'unica frase che colgo perché la voce si era involontariamente alzata, ma mi fa supporre che anche il sabato e la domenica, da qualche tempo, Federica non ritorni a casa. Dove andrà? In collegio, per restarci nel fine settimana, bisogna avere motivi validi. Di solito ci restano solo le meridionali e le sarde. 
Quando sua sorella esce, Fede è pallidissima e sale difilato in camera senza neppure pranzare. Resta a letto tutto il pomeriggio. Se tento di parlare fa finta di dormire. Le labbra sono esangui e gli occhi ostinatamente chiusi. A sera però si alza anche se continua a tacere, ed esce come sempre, la testa imbacuccata in uno scialle bianco che la fa sembrare bella e tormentata come Anna Karenina (chissà perché le trasgressive, anche come immagine, sono sempre i personaggi femminili che mi piacciono di più: forse perché trasgressiva io non riesco a esserlo, anche se mi piacerebbe tanto). Torna tardissimo, verso le due. Dopo quella sera non esce più. Due giorni prima di Natale fa la valigia e parte per il paese, come io per il mio, e non mi dice niente, solo mi abbraccia con forza e gli occhi scuri sembrano più lustri del solito. Alex invece raggiungerà i genitori all'estero, col proposito di rientrare a Capodanno. E io tiro su le mie quattr'ossa e la valigia piccola  dimenticandomi di salutare Milena che è chiusa in camera, anche lei a fare i bagagli. E poi non faccio che sentirmi colpevole per averla dimenticata. 

                                                        
*****

        
In corriera, nell'autostrada sepolta nella nebbia, m'imbatto in Salvio, che sembra contento di vedermi e si siede accanto a me. Sta andando a Venezia per incontrare un amico che studia a Ca' Foscari, un calabrese come lui, e come lui senza i soldi per tornare a casa a Natale. Passerà le vacanze in città, m'informa, da solo perché i suoi compagni di appartamento sono già partiti o in partenza, e così mi chiede se può venire a trovarmi a casa mia, un giorno di questi. Annuisco, gli do l'indirizzo. Salvio, che di nome vero fa Salvatore come metà dei suoi conterranei, è un ragazzo alto e bruno coi riccioli sempre scomposti, allegro e pieno di iniziative, e viene spesso nella nostra facoltà a conoscere ragazze perché a Medicina ce ne sono ancora poche, ma non si vede mai né al circolo universitario né tantomeno nelle elitarie festine dei Bellissimi, dove io e Federica, del resto, siamo invitate solo perché donne, passabilmente carine e soprattutto compagne di Alessandra. Salvio si dichiara apertamente "di sinistra" e ateo, fa politica in polemica con le associazioni dei cattolici. Fantocci senza spina dorsale, figli di papà e mamma, dice con un certo disprezzo. E' un tipo focoso e forse romantico, oltre che bello, ma scioccamente mi irrita la cadenza del suo parlare, le doppie che infarciscono le parole che dice, i "sabbato" e "subbito" e "dubbito", il suo chiamarmi "piccioncino", il suo tentare di baciarmi ogni volta che mi accompagna in collegio. Che si fa così, si fa? Per questo lo evito quando posso, anche se in fondo mi è simpatico e mi sembra più libero e spontaneo dei rampolli piccolo o alto borghesi o baciapile - invece che baciar ragazze -  che frequento con Alessandra. Ma è il mio patrigno che mi ha instillato certi pregiudizi  nei confronti dei "terroni", secondo lui scansafatiche e lamentosi, incapaci di lavorare un po' più del dovuto e sempre pronti a spillar soldi al Nord. Se poi sapesse che Salvio è anche comunista! Naturalmente non gli credo ciecamente, però un po' di diffidenza  me l'ha trasmessa.
Con la testa rifiuto le idee preconcette, ma mi accorgo che certi comportamenti m’infastidiscono anche se non mi so spiegare il perché. Forse, semplicemente, m'infastidisce la corte di Salvio perché sono innamorata di Stefano e di tutti gli altri mi disturba perfino la vista. Le compagne di facoltà e di collegio, però, lo hanno subito adocchiato per la sua bellezza mediterranea su una statura insolitamente nordica, per gli occhi arabi, l'abbronzatura naturale tutto l'anno, il sorriso ironico e i muscoli da statua di Policleto che s'intuiscono perfino dal pullover. "Cosa mai vai cercando?" mi chiede anche Federica che in queste cose vede spesso giusto, e aggiunge che Stefano è solo l'incarnazione di un astratto desiderio. Ma io vado cercando proprio  quelle emozioni che  Stefano mi suscita e Salvio no, forse perché il primo è misterioso e cangiante come i cieli della nostra terra e l'altro troppo esplicito anche  nel suo desiderarmi, e mi spaventa.
Non lo so perché poi il sesso mi spaventa tanto, mentre quando ero piccola mi attraeva inconsapevolmente la sua forza primitiva, la sensazione incandescente che mi procuravano le prime esplorazioni corporee, la curiosità per gli attributi sessuali degli altri bambini. E nell'adolescenza, a letto, nelle notti senza sonno mi sentivo bruciare, ma resistevo e per non cadere in tentazione mordevo il lenzuolo insalivandolo e poi bucandolo con i piccoli canini affilati. Forse è per il disprezzo che avverto ancora adesso nei commenti per quelle "che la danno facile", che "si fanno mettere le mani addosso davanti e didietro", che sono "poco serie". O magari demi-vierges. Parole come scudisciate. E io mi lascio frustare come nei paesi africani frustano le adultere e le donne per male.
Sulle semivergini comunque ho fatto molte fantasie, su quelle ragazze che la danno e non la danno, che danno tutto ma solo al di qua del confine, sacra soglia di tempio varcata la quale sarebbe disonesto indossare l'abito bianco da sposa. Perciò tanti abiti color avorio.
Ma come si fa poi a essere certe che quel confine sia rimasto intatto? Mia madre dal ginecologo non ci va mai, ha il terrore delle malattie ma è fatalista, figuriamoci se ci porta me, e poi avrei vergogna e paura, anche se io l'amore vero non l'ho fatto mai, ma potrei essere caduta da piccola quando giocavo sfrenatamente sui sassi aguzzi della spiaggetta istriana e l'imene (termine che ho imparato a scuola studiando anatomia) potrebbe essersi rotto per una caduta. Oppure potrei essere stata violentata, sempre da bambina, forse nel sonno, e magari è per questo che ho tanta paura del sesso. Se no che significato avrebbero quelle immagini mentali che mi appaiono nel dormiveglia, quando mi pare che il mio corpo diventi piccolissimo e come avvolto, o sovrastato da un involucro enorme? Uno stupro rimosso? Che altro?
"Potrebbe essere un ricordo di vita intrauterina" azzarda Alex e probabilmente ha ragione, ma l'ipotesi non riesce a darmi tranquillità, e continuo a fantasticare sulla terrificante "prima volta", quando il mio ragazzo o marito si accorgerà che non sono più vergine e io non potrò fornire alcuna spiegazione e in ogni caso non mi crederà: come si fa a credere a fantasie di stupro o di accidentali cadute su sassi acuminati?
Alessandra, che dopotutto è anche comprensiva e di sicuro meno nevrotica di me, pensa che tale eventualità sia altamente improbabile. Federica prende invece un'aria  assorta, come se la problematica le fosse del tutto indifferente.
"Federica - mi confida Alex - il salto lo ha già fatto, ne sono sicura, e non avrebbe problemi se non ci fosse quella sua famiglia così severa. Che d'altra parte è una protezione, una sicurezza per una come lei". (Come lei come? penso ma non chiedo).
        


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La mia famiglia invece è mia madre, che è sempre così lacerata, così divisa fra l'immagine delle nostre isole e penisole sparse di ville e giardini, illuminata dal ricordo della passione per mio padre che resta il sogno intatto di un perfetto (perfetto?) impossibile, e la vita quotidiana accanto a un uomo  che  ci protegge davvero anche se in un suo modo brusco e introverso, senza comunicare se non con i fatti. Un uomo per cui prova gratitudine ma anche rabbia perché non è l'altro, quello che non l'ha voluta come oggi Stefano non vuole me. Di sicuro è per questo che m’incaponisco a cercare chi non mi vuole, anche se, invece, esito a ricalcare la seconda parte del copione materno, accettando magari la corte di Salvio che un po' mi piace ma non amo. Io però non ho nessuna bambina da crescere, io sono libera.
In corriera, il tempo è volato mentre parlavamo del più e del meno, per non affrontare le cose che premevano davvero, ma la vicinanza di Salvio mi comunica mio malgrado una sensazione piacevole che si dirama in ogni cellula del mio corpo. Ha un buon odore di sigarette e dopobarba agli agrumi, due braccia forti di cui percepisco i fasci di muscoli contro i miei, bei denti candidi nel sorriso ironico.
A Piazzale Roma lui si stacca con fatica da me, promette ancora di telefonarmi, e mentre salgo sull'imbarcadero e poi sul vaporetto in partenza e lo vedo fermo a guardarmi, alto come un normanno e con l'impermeabile svolazzante, mi chiedo se non sto per caso sbagliando tutto, se non è solo la paura di essere come mia madre a trattenermi, a togliermi il coraggio di provare a vivere invece che immaginarmi la vita.


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Quando ritorno al collegio, dopo le vacanze, sfoggio un cappotto nuovo, un cappotto-regalo-di-Natale di stoffa pelosa grigio perla, con la martingala ("Carpe diem per Martin Galan" so che mi dirà Federica, la quale giocattola sempre con le parole) e con le "canne" sul dietro, un cappotto che mi fa sentire grande e molto elegante. Ho raccolto i  capelli in una coda di cavallo e mi sono truccata un poco, pochissimo e con tinte tenui perché ho già troppi colori al naturale. Mi aspetto che tutte lo notino, mi sento finalmente bella anche perché la visita di Salvio, con cui ho passato una giornata intera a Venezia vagando a caso fra calli e campielli, mi ha rassicurato sul mio incerto fascino.
Ma nessuna delle ragazze sembra notare la mia metamorfosi, sono io che invece mi accorgo subito che c'è una strana agitazione nell'aria, che a cena s'intrecciano commenti sussurrati a bassa voce, e i visi sono rossi, eccitati. Ci sono Sara e Milena, che ha preso posto accanto a me (non si era offesa, allora, del mancato saluto: dovevo immaginarlo, è troppo intelligente). E Alessandra che stasera  è seduta a un altro tavolo. Invece manca Federica, anche se è già lunedì e domani riprenderanno le lezioni. Chiedo di lei e mi risponde il silenzio. Ma non è un silenzio vuoto, somiglia piuttosto a quello precario alla fine di ogni conferenza, quando l'oratore  chiede se ci sono domande e nessuno ha il coraggio di rompere il ghiaccio. Finalmente è Sara a parlare con voce atona: "Federica non verrà più, farà la pendolare, e forse nemmeno subito perché adesso è ammalata, ce lo hanno appena comunicato le suore". Ma dagli occhi di Milena capisco che ci dev'essere dell'altro, dell'altro che devo, che voglio sapere perché Fede, adesso ne sono certa senza ombra di dubbio, è stata la mia migliore amica in questi pochi mesi così nuovi e intensi.
Milena questo lo sa, e se prova un filo di gelosia per la nostra amicizia è gelosia buona, è come se ci ammirasse entrambe e trovasse normale, anche se un po' doloroso, non essere lei la preferita. Forse lei che pur essendo atea prova interesse per le religioni perché vuole sapere come gli uomini sconfiggono la paura della morte e le innumerevoli pre-morti quotidiane, ha appreso dal Buddismo a non soffrire troppo per le delusioni, a non aspettarsi riconoscimenti e successi, come quei monaci che compongono i loro sfolgoranti mandala di granelli di sabbia colorati fino a farne un capolavoro per poi distruggerlo, e allenarsi così a non soffrire separandosi da ciò che di bello hanno fatto o vissuto.
Cosa prova dentro di sé, Milena non lo dà mai a vedere: ha sempre una specie di sorrisetto irridente sulla faccia aperta, con i capelli tagliati corti come un ragazzo, e ben poco femminili sono anche i suoi vestiti e i modi decisi. Ma gli occhi rivelano momenti di un'inquietudine che non si permette di esplicitare a parole, un'inquietudine pudica. Stasera però mi guarda fisso, con uno sguardo d'intesa che dice ti voglio parlare, da sola, senza Alessandra o Sara o altre, e così appena finita la vaschetta di macedonia scipita in cui galleggiano due ciliegine sciroppate che fanno colore ma non hanno sapore, ci alziamo quasi in contemporanea e ci avviamo, a pochi secondi l'una dall'altra, su per le scale, verso le poltroncine di vimini del mezzanino. Poi però lei cambia idea, mi chiede di seguirla in camera sua che, singolare privilegio, è una cameretta singola, ma molto piccola e senza bagno, così che deve servirsi di quello del corridoio. Ma lei viene dalla campagna profonda e forse da una casa anche quella senza bagno, e a queste cose non ci bada. Si siede sul letto, a me indica una poltroncina rossa: "per l'ospite", spiega abbozzando un sorriso stentato, ma capisco che ha ben poca voglia di scherzare.
"Sai qualcosa, vero?".
Fa cenno di sì, sembra per un attimo ancora incerta se parlare, poi si decide.
"Vedi - attacca con imbarazzo, come a volersi scusare per un pettegolezzo, lei che è tutto fuorché pettegola -, sono convinta che attraverso di me è con te che voleva comunicare, quando è venuta in campagna a trovarmi, la scorsa settimana".
Alzo gli occhi stupita, un po' gelosa, poi subito comprensiva. Già, avevamo dimenticato di scambiarci gli indirizzi al momento del saluto, io e Fede, certe com'eravamo (o forse piuttosto com'io ero?) di rivederci prestissimo.
"'Sai - mi ha detto - non ci tornerò più in collegio, mio padre me lo proibisce, credo per sempre. In ogni modo per un pezzo dovrò studiare da sola, perché m'impedisce anche di frequentare le lezioni. Quello che non sa è che per tenermi prigioniera occorre la mia complicità...’.
Le ho chiesto cos'era successo di tanto terribile, ma la verità è venuta fuori un poco alla volta, e non tutta, ogni frase che le usciva di bocca sembrava un conato di vomito per liberarsi di un peso insopportabile ma non eliminabile. Tutto è cominciato quel giorno che è venuta qui sua sorella e tu l'hai ricevuta, te lo ricordi?".
Ricordavo, come avrei potuto dimenticarlo?, ricordavo perfettamente quella ragazza così perbenino e che tuttavia senza  un motivo ragionevole m'era sembrata  repellente. Un topo ammaestrato.
"Ecco, era venuta qui quel giorno perché Alessandra le aveva telefonato, preoccupata, a quanto pare, per le uscite serali di Fede. Non avrebbe mai voluto parlargliene, le aveva detto, ma aveva l'impressione che sua sorella corresse dei rischi di cui il minore era quello di essere cacciata dal collegio, se le suore avessero scoperto i suoi rientri clandestini alle ore piccole".
Tremo di sdegno, ma nello stesso tempo sono sicura (insomma, quasi sicura) che Alessandra non sia stata mossa proprio da cattiveria, ma dal desiderio sincero di evitare a Federica guai più grossi. La sua solita vocazione da dama di carità ispirata da Dio.
"Ma in fin dei conti cosa può averle detto, oltre il fatto che rientrava tardi? Con me ha ipotizzato che uscisse con Stefano, che non è certo un bruto...".
Malgrado la drammaticità del momento, Milena  scoppia a ridere.
"Questa era solo una punzecchiatura per te. In realtà Alessandra non sapeva niente, ma la sorella di Federica ci ha messo poco a  scoprire tutto".
"Tutto cosa?".
Milena esita un attimo, sembra chiedersi se sono abbastanza adulta per accettare la verità.
"Che Federica ha, o aveva, una relazione. Ecco, una relazione speciale, con un uomo sposato, uno che sta per separarsi e le vuole bene, ma al paese non può farsi vedere con lei. E allora l'unica possibilità che avevano di incontrarsi era qui in città, la sera dopo cena quando nessuno poteva riconoscerli".
Milena ha saputo anche (ma perché solo io mi perdo sempre tutto?) come faceva Fede a rientrare di notte. Al paese aveva conosciuto una delle educande povere dell'altro collegio, quello la cui conoscenza ci era interdetta. Era figlia di una ragazza-madre rimasta incinta  mentre serviva, come domestica, in casa di un ricco avvocato. D'estate, quando la famiglia era in vacanza, e solo il figlio minore, studente, era a casa con lei, era rimasta incinta e più tardi l'avevano licenziata, ma la figlia della colpa doveva essere nascosta, chiusa in quel collegio dove le ragazze lavano la biancheria dei frati della Basilica senza prendere un soldo, ore e ore, al freddo invernale e al caldo acquoso d'estate, mangiate dalle zanzare. Se protestano sono botte, castighi umilianti, dice Milena che l'ha saputo da Fede. Possono fare il bagno solo due volte all'anno, a Pasqua e a Natale, e gli altri giorni lavarsi a pezzi con uno straccetto, senza togliersi un camicione che deve nascondere la nudità anche a loro stesse.  Se però le monache trovano in giro, magari in qualche cassetto, biancheria intima sporca, gliela calcano in testa e le fanno inginocchiare nel refettorio, mentre la lettrice di turno legge a voce alta la storia di Santa Maria Goretti.
Resto allibita, con noi le suore esigono disciplina, ma si mostrano aperte, quasi moderne. "Noi paghiamo - mi ricorda Milena - e non siamo figlie di madri nubili". (Io sì, in un certo senso, lo sono, o almeno lo sono stata, e capisco adesso da cosa mi ha salvata mia madre). "Ci sarebbe da scrivere un romanzo, su quelle ragazze", aggiunge, "Fede sa molte cose perché, quando la sua compaesana tornava a casa degli zii, gliele raccontava. Così hanno fatto un po' amicizia, e sai, beh, era lei che aveva rubato delle chiavi per farla transitare, di notte, da un collegio all'altro senza passare davanti alla suora portinaia". Come facessero non lo capisco ancora, ma il puzzle a poco a poco si ricompone, Federica mi sembra ora molto più adulta e navigata, con questa sua doppia vita che avrei potuto intuire ma nella mia ingenuità non avevo nemmeno voluto sospettare. Come al solito, mi sento cretina. Ascolto i rintocchi della pendola, mi distraggo per non pensare.
"Non è finita", riprende Milena, "se fosse tutto qua...". E io a sentirmi sempre più inadeguata, già mi pareva tantissimo riuscire a sovrapporre le due diverse Federiche che entrambe corrispondevano a un aspetto della sua realtà. Federica la cucciola giocherellona, anche se a volte filosofa altre volte scervellata, Federica dal cognome slavo i cui antenati arrivavano forse dalla stessa terra di mio padre, Federica che sopportava a stento le prediche di Alessandra ma poi rideva con lei e con me, commentando i doveri della perfetta amicizia cristiana. E dal lato in ombra che era come la faccia nascosta della luna, Federica l'amante, la dark lady che certo si stupiva del nostro gran parlare di sesso e di purezza e di demi-vierges, e dei goffi tentativi di avvicinamento che i ragazzi mettevano in atto alle festine. Qual era la vera Federica?
"Il fatto è - prosegue Milena - che prima la sorella ha inscenato lei una sfuriata, ma quando ha capito che Fede non aveva nessuna intenzione di troncare quel rapporto, ha detto tutto al padre e...".
"E lui ha deciso di punirla togliendola dal collegio e magari dall'università...".
Milena indugia ancora, certo dalle mie reazioni mi sente davvero troppo piccola, troppo sprovveduta, ma poi  forse stabilisce che anch'io devo crescere, e riprende sottovoce: "C'è dell'altro, Marina. Suo padre, lo sai, è il medico condotto del paese. E... quando Federica è tornata a casa prima di Natale, non le ha detto niente, solo di presentarsi subito in ambulatorio. Qui si è chiuso a chiave con lei e l'ha obbligata con la forza... ecco, a... farsi visitare. E' un uomo altissimo e robusto, sai, è da lui che ha preso Federica, non dalla madre che è una donnina minuta e fisicamente assomiglia alla figlia maggiore...".
Mi  vanno via le forze, spero di non aver capito.
"Ma scusa, visitare come?".
"Come un ginecologo, per vedere se era ancora vergine".
"Il padre? La figlia?".
"Il padre. La figlia".
Sento la nausea pungere in gola, risalire in bocca lasciandomi un sapore di vomito fra l'acido e l'amaro, vedo le manone che frugano come quelle di un macellaio dentro le viscere vermiglie e umide di Federica, la nostra Federica, vedo gli occhi sbarrati di lei, sento le sue grida, non riesco più a dire niente, ho la gola gonfia. Quando un uomo vuole umiliare una donna la riduce a carne, pura carne da macellare, stuprare, buttare. E se non ce la fa la rende bestia con le parole.
"A un certo punto, il padre s'è messo a urlare: vacca, cagna, troia, puttana".
Dentro di me ripeto: urlava.
"Lei ha gridato a più non posso - Milena è ormai inarrestabile -, si è ribellata, le ha prese".
Dentro di me ripeto: le ha prese.
"Pugni e schiaffoni a mani nude e pesanti. Calci perfino, che l'han fatta rotolare dal lettino sul pavimento. Soprattutto quando il padre ha scoperto che, effettivamente, vergine non era più. Un'offesa, un affronto personale per lui. Sai, è sempre stato attaccatissimo a Federica, morbosamente geloso di lei. Sembrava disprezzare la moglie e l'altra figlia, con loro aveva sempre un'aria di sufficienza, gli devono sembrare due donne insignificanti, e forse lo sono. Era su Federica che puntava tutto, e lei lo sapeva. La domenica, fino a pochi anni fa, d'autunno la portava con sé in lunghe escursioni sulle colline nebbiose, sulla spiaggia vuota o sul delta deserto del Po. E d'inverno in montagna a sciare, e discuteva con lei di ogni cosa perché Federica era reattiva e, lo sai anche tu, mai banale. Ma una volta qualcosa si era guastato...".
Milena s'interrompe e poi di nuovo va avanti:
"Perché lui, di ritorno da una gita, l'aveva stretta a sé all'improvviso e in un modo che a Fede era sembrato poco paterno, affannoso, capisci?, così mi ha detto e forse non ha detto tutto, allora lei si era scostata bruscamente e lui si era ripreso, non ci aveva più riprovato, ma da quel momento il rapporto era cambiato, lei non aveva più voluto seguirlo da sola, e lui aveva preso a criticarla con disprezzo, a rimproverarla per ogni nonnulla, ed era arrivato a incaricare la sorella di sorvegliarla, quando si era accorto che Federica gli sfuggiva".
... E la sorella aveva incaricato Alessandra di spiarla, e nessuna di noi aveva capito niente...


*****

        
Si chiamava Ivan, il padre di Federica, in omaggio alle sue remote origini slave, ed era stato un ragazzo di campagna, figlio terzogenito del sacrestano del paese. Suo papà, il nonno di Fede, era un uomo di chiesa, cattolico e osservante anche se nelle sue radici c'era certamente traccia  della religione ortodossa dei suoi avi.
Ma quelle radici, quella lontana migrazione si perdevano nella notte di tempi immemorabili: lui viveva qui e nel paese era il parroco quello che contava, che dettava legge e prometteva un fulgido futuro trascendente a compenso della povertà immanente. E come lui anche Ivan si era attaccato agli insegnamenti del parroco, più ancora che a quelli del Cristo. Il Cristo andava bene sui santini, quelli col Sacro Cuore rosseggiante sul petto, o nella riproduzione gigante incorniciata sul muro di cucina, sopra il camino. Un Cristo biondo con i capelli lunghi e ondosi, per niente ebreo. Un Cristo ariano. Lo stesso del ritratto portato in processione, due metri avanti a quello della Vergine col manto celeste e il volto mite e come assoggettato (anche se schiacciava con insospettabile energia, sotto i piedi, il serpente maligno) che per Ivan era stata il primo ideale estetico di donna dopo sua madre. Di faccia, le due un poco si somigliavano per gli occhioni spalancati e il sorriso dolcemente stupito per come andavano le cose di in questo mondo.
Ma la dolcezza di sua madre era più che altro apparente, i sacrifici erano il suo credo e del resto proprio le sue rinunce, con quelle del marito, avevano reso possibili gli studi di Ivan. In cambio lei chiedeva altre rinunce, soprattutto un'adesione totale agli insegnamenti della religione, o meglio del suo ministro che prometteva o minacciava  la giustizia ultraterrena per dar senso alle lacrime di questa vita, ai soldi che neppure bastavano per comperare la biancheria, sicché lei la confezionava  da sola con la ruvida tela comprata al mercato che sfregava e beccava la pelle come un cilicio. Per dar valore al bucato  fatto con la cenere  per risparmiare il sapone, ai servizi  quotidiani nelle case del medico e del farmacista, alle parche cene di molta polenta e poche sardelle. 
Ivan Kvas aveva adorato sua madre anche quando, cresciuto, si era iscritto a Medicina, e in città si era dovuto scontrare con un modo molto diverso di vedere la vita e soprattutto la sessualità, ma, pur frequentando di tanto in tanto le prostitute del piccolo bordello per studenti dove scaricava i suoi robusti istinti, non aveva voluto rinnegare del tutto gli insegnamenti materni. Ogni volta si confessava, faceva le penitenze con una gioia masochistica quasi superiore al piacere del corpo che invece lo lasciava dolente, sfibrato. Malato. Sconfitto nella carne come il Parsifal del mito. E aveva sognato una donna totalmente pura per mondarsi con lei e formare insieme una famiglia indissolubile. Aveva forte il senso della sacralità familiare fondata sul sangue, e gli pareva possibile celebrarla soltanto con una donna vergine. Non importava che fosse bella, carina bastava per poterla desiderare senza dover ricorrere alle donne di strada. E così, quando aveva conosciuto, in corriera, la maestrina che veniva a insegnare al suo paese da un paese vicino, una biondina un po' insipida ma sottomessa come dev'essere una sposa, l'aveva subito corteggiata e in poco tempo erano arrivati alle nozze. Ma forse la biondina non era così pura come aveva creduto, oppure in lui i lunghi anni di castità intervallata dal peccato mortale avevano agito come freno, oppure ancora il terrore dell'inferno si era inserito anche nel rapporto coniugale, fatto sta che qualche cosa era andata storta ed era cresciuta più storta ancora, e lui ne aveva dato la colpa a lei e lei a lui ma senza parlarne mai apertamente, di certe cose non si parla, solo per allusioni ustionanti come una sigaretta sulla pelle (chissà perché gli venivano sempre in mente immagini di torture). Così entrambi avevano subito voluto un figlio sperando nel miracolo e forse il figlio lo avrebbe fatto davvero, il miracolo, se non avesse pensato male di morire al quinto mese di gravidanza, e proprio il giorno successivo a una gita che lei aveva voluto fare a tutti i costi e che le sarebbe stata per sempre attribuita a colpa. Il suo compito era far figli, non ucciderli, le aveva detto. Anche se lui la uccideva con le parole.
Il figlio era maschio, e dunque le due femmine che erano seguite non potevano sostituirlo, specie Chiara, la più grande, che era tutta sua madre e suscitava troppo spesso in Ivan un bisogno quasi sadico di schiacciarla, punirla, annientarla come sua moglie. A cui aveva fatto smettere l'insegnamento perché si curasse delle bambine - tanto c'era lui a guadagnare -, ma spesso poi le rinfacciava di essere una mantenuta, una maestrina di paese riciclata in casalinga. Dopo si pentiva, quando le vedeva il viso contrarsi sugli zigomi e scarnificarsi, allungandosi sempre di più, e il sopracciglio destro piegarsi tremolando ad angolo circonflesso, la bocca torcersi all'ingiù e le palpebre appesantirsi per il pianto segreto che non ce la faceva a sciogliersi in lacrime liberatrici. Ma riusciva ad addolcirsi solo fino alla volta seguente, bastava ben poco per scatenare il suo disprezzo o la sua ira.
Lei si era chiusa in una malinconia che aveva trasmesso alla figlia maggiore insieme a un senso d'impotenza, di debolezza, di paura della gente e della vita. Paura di lui, soprattutto. E rassegnazione ad essere donna. Ma via via che la piccola Federica cresceva in grazia e intelletto, sia lei che Ivan avevano dovuto fare i conti con un carattere indocile su cui nulla potevano lusinghe, minacce o musi lunghi. Federica, fin da piccola, aveva ragionato da sola e si era aperta una breccia sia nella cronica depressione materna sia nell'inesausta sete paterna di risarcimento per un qualche segreto torto subìto e non vendicato.
Federica era identica a suo padre nell'aspetto e nell'acutezza mentale, ma era una creatura libera e fintanto che la sua libertà non aveva contrastato la simbiosi con Ivan, lui l'aveva amata senza condizioni. Era rinato con lei. Federica piccola, l'anatroccolo che lui portava al mare e che vinceva il terrore dei cavalloni per un suo sorriso. Federica scolara con il grembiulino bianco, che faceva sempre il tema più strano, Federica adolescente che portava a casa libri di filosofia o leggeva i romanzi e poi glieli passava, e la sera si raccontavano a vicenda dei loro compatrioti Alioscia  o  Raskolnikov o Pierre Besuchov come fossero dei vicini di casa. D'inverno, in montagna, lei scendeva giù dalle piste nere - avevano preso lo stesso maestro di sci, lei era diventata presto la più brava ma Ivan ne era orgoglioso - e d'estate andavano in camper in giro per l'Europa e per Fede lui riusciva a portarsi dietro anche le altre due donne della famiglia. 
Alla maturità, Fede aveva preso il massimo dei voti e lui per premio voleva portarla in aereo in America, da anni le aveva promesso che avrebbero esplorato insieme i canyons dell'Ovest e visitato le riserve indiane, lei sì che l'avrebbe fatta viaggiare perché lei era intelligente, ma Federica si era rifiutata, era un po' che rifiutava tutto e soprattutto suo padre. Da quando quella sera, tornando da Cortina, lui aveva accostato la macchina all'orlo della strada con il pretesto di un colpo di sonno, e poi non ricordava bene, forse aveva davvero sonno, sapeva solo che non voleva perderla, la sua cucciola lunga lunga coi capelli e gli occhi neri che guardavano troppo il maestro di sci, l'unica donna della sua vita che era come se l'avesse fatta lui, lui da solo come Zeus aveva fatto Atena già adulta e in armi come un maschio, e adesso non poteva rinunciarci, non doveva arrivare un altro a guardarla con occhi lascivi in cui si leggeva la voglia di spogliarla, di portargliela via. Non subito, almeno. Forse mai. Non era successo niente di definitivo, quella sera, almeno a quanto ricordava, aveva riavviato il motore ed erano ripartiti per la pianura. Ma Federica gli era scivolata via per sempre. E neanche questo lui lo poteva tollerare.
Quando Chiara gli aveva detto, due anni dopo, che Fede usciva con un uomo, soli soli nella notte buia finché andavano a rinchiudersi chissà dove, lui immaginava in una qualche sordida stanzetta d'albergo, lì per lì non le aveva creduto, e l'aveva schiaffeggiata, un manrovescio che le aveva lasciato il segno di tutte e cinque le dita.
"Come lo sai?", l'aveva aggredita.
"Me lo ha detto una sua compagna di stanza, le avevo chiesto di darle un'occhiata, lei lo ha fatto per un mese e in questo mese tua figlia - aveva detto proprio così, tua figlia, come se lei sola lo fosse stata - è uscita due o tre sere alla  settimana...".
Ammazzato. Era rimasto ammazzato.
"Sei sicura di non inventare o esagerare? Sei sempre stata invidiosa di tua sorella, perché è tutto quello che tu non sei e non potrai essere mai...".
"Certo lei è sempre stata la tua preferita, il tuo orgoglio, e me mi hai sempre disprezzata come se neanche fossi tua figlia anch'io. Però sei stato tu a darmi l'incarico di sorvegliarla!".
"Non di sorvegliarla, idiota, di farle da sorella maggiore, di darle consigli, di rassicurarla".
Non riusciva più a controllare le parole e nemmeno il tono di voce che si alzava sempre più  ringhioso.
"Non è vero!", stavolta Chiara lo aveva fronteggiato a testa alta in un soprassalto di dignità. "Mi hai chiesto tu di andare in città, di scoprire che cosa fa, se si vede con qualcuno. Qualcuno che esiste davvero e (era arrossita ma non aveva abbassato lo sguardo) di cui tu sei geloso".
La seconda sberla era arrivata puntuale sbattendole sui denti con un rumore secco, avrebbe voluto vederglieli schizzar via tutti quanti, quei dentini da coniglio, ma Chiara era fuggita in lacrime e Ivan non si era placato finché Federica non era tornata a casa, finché il suo scempio non era stato compiuto. L'aveva frugata così, incurante degli urli di lei. Senza riguardo, senza neppure desiderio, senza più affetto. La sua era soltanto vendetta. Anzi giustizia, che se non si fa, qui sulla terra  o in cielo, tutto diventa lecito, anche tradire un padre andando a letto con un altro uomo. Puttana.

                                              
*****

        
Milena, ora che ha preso l'aire, sembra non si debba più interrompere, e io, man mano che la storia di Federica vien fuori, ricostruisco frasi spezzate, riempio silenzi, vedo scene deliranti, interpreto espressioni che mi erano parse indecifrabili. Chissà se Alessandra sa qualcosa...
Milena mi legge dentro.
"Fede mi ha raccomandato di parlarne solo a te, di dire ad Alex che lei sta poco bene, e basta. E non vuole che nessuno le scriva o si faccia vivo finché non sarà lei a trovare il modo di tornare in città, se deciderà di farlo". "Sono molto preoccupata", soggiunge "ma penso che dobbiamo rispettare questo suo desiderio".
Lo penso anch'io, certo. E nel contempo mi chiedo come farò senza di lei, lei la ragazza dalle tre A, così anarchica agnostica amletica, che si domandava come fa ad esistere un altro inferno più terribile di questo che già abitiamo, vuol dire allora che la creazione è imperfetta, forse una specie di prova generale. Ma poi subito rideva e io credevo che scherzasse. Lei così allegra e così triste, piccola e grande, no, non solo alta, così diversa dalla perfettissima Alex che però, bene o male, aveva fatto la sporca spia. Mi resta Milena, certo, anche Milena è importante, anche lei è libera e senza dogmi, anche lei mi vuole bene: ma è un'altra persona, e le persone non sono intercambiabili.


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E' strano. Mentre sono certissima che  ricorderò sempre tutto del primo semestre di questo primo anno di università, che lo conserverò nel cervello come un film indelebile, il secondo si stinge già mentre lo vivo, senza Federica.
Frequento di malavoglia le lezioni, preparo gli esami alzandomi la mattina alle cinque - sono sempre stata mattiniera quando studio, nel primo pomeriggio invece mi piace fare la siesta o sognare a occhi aperti, come fa mia madre -, studio e non m'interessa niente di quel che studio, mi aspettavo molto dall'università e invece ne sono delusa, i professori tengono noiosissimi corsi monografici che servono alle loro carriere più che a noi studenti, fa un caldo afoso, "wet", avrebbe detto Federica che studiava inglese, e  ogni giornata  è sospesa come una nuvola  in un cielo immobile, in un'infinitudine opaca senza vento e senza cambiamento. La vita ha perso azione, ha sbiadito i colori, è qualcosa che mi grava addosso, mi schiaccia, m'immobilizza, impedendomi anche di fuggire.
"E' soltanto un calo di serotonina" dice sdrammatizzando Milena che è l'unica amica rimasta al collegio dopo che anche Alessandra è partita, ormai da un mese, quasi all'improvviso.
"Farò un salto in Olanda dai miei genitori e poi andrò a Parigi a fare ricerche per gli esami" aveva detto. "Tornerò in giugno, ma forse per allora saranno rientrati anche i miei e così andrò direttamente a casa".
Chissà se la sua è una fuga dal rimorso: certo non può sapere con esattezza quel che è successo a Fede, ma qualcosa deve pure aver intuito.
Benché con Alex non avessi legato come con Federica, mi sento comunque abbandonata. Perché non mi aveva detto dei suoi progetti, perché mi ha messo davanti al fatto compiuto, come se di me non le importasse niente?
"In realtà - dice Milena - le importa solo di se stessa e del suo entourage. Alessandra è molto ambiziosa, nonostante la modestia che ostenta, per lei conta il successo in ogni campo, ma non ne fa parola con nessuno finché un obiettivo non l'ha raggiunto".
Proprio come me che dissipo i miei sogni raccontandoli, e  mi accontento di vivere nella fantasia ciò che in realtà non vivrò mai. Alessandra è una formica che accumula o un castoro che scava, costruisce, lavora senza sosta per realizzare quello che ha in mente. Forse un matrimonio d'eccezione, o un lavoro d'eccezione, qualcosa che continui a farla svettare sopra gli altri e a farle raccogliere regalmente gli omaggi degli ammiratori. Come la principessa Grace.
Di Federica nulla. Non si è più rivista all'università, qualcuno dice che si sia trasferita in un'altra sede ma nessuno ha notizie precise, al telefono di casa una voce femminile - sua madre, sua sorella, una domestica - risponde sempre che non è al paese, in questo periodo.  No, non si sa quando ritornerà.
Così in quella grande camera a tre letti, dove ormai per quest'anno non prenderà più posto nessuna nuova ospite, sono rimasta sola. Niente più Tre Grazie, niente più festine perché ogni casa è ardente come un forno acceso e poi tutti studiano. Niente più nemmeno i fuggevoli incontri con Stefano, dissolto anche lui nel nulla dopo la sparizione di Alessandra e Federica. Non so bene cosa voglio e mi sento incapace di tutto. Non so volare, o volo troppo basso, perché nessuno mi ha insegnato a volare alto, o perché porto, e sempre porterò, un pallino di piombo conficcato nell'ala. Come quell'uccello con la coda verde che nella pineta mi aveva fatto notare mio padre, un uccello che anche lui volava basso, con cautela, ogni tanto scendendo a riposarsi su un ceppo della radura. Come i vecchi che si riposano su una panchina dopo un pur breve cammino. "Vedi? E' stato colpito - mi aveva detto - da un cacciatore inesperto che non è riuscito a ucciderlo ma lo ha lasciato per sempre mutilato, incapace di autosufficienza nel volo".
Non sapevo, allora, anzi non sapevamo nessuno dei due, che anch'io sarei stata ferita seppure non a morte e che per sempre quel granellino di piombo mi sarebbe rimasto incistato dentro: a legarmi i movimenti, a impedirmi di vincere la paura perenne che mi blocca.
Studio sul terrazzino, ripeto a memoria le frasi sottolineate e ne sottolineo altre ancora con colori diversi, così le pagine dei miei libri a poco a poco appaiono tutte  nevroticamente colorate come flipper, con un effetto di horror vacui che di sicuro non facilita la sintesi. Mi distraggo a osservare i fondali chagalliani che si elevano dal chiostro e ora sono dorati dal sole rovente, seguo con l'occhio le rondini in folle picchiata e le nuvole che senza parere mutano di continuo profilo e consistenza come i miei pensieri, ma non ci vedo più preistorici mammuth o dinosauri come quando ero bambina, o Padreterni benevoli e barbuti. Mi suggeriscono soltanto un'idea di provvisorietà, di fugacità che però si ripete - forse solo per me - instancabile, paradossalmente eterna. Bel destino, un'eterna provvisorietà, roba da legge del contrappasso dantesco. Vanitas vanitatum. E mi fanno affiorare il rimorso per tutto il tempo che ho ammazzato cercando invano di imparare le materie della vita su cui non prendo mai voti lodevoli, di sgrovigliare i gomitoli pieni di nodi e ritrovare un filo da seguire per andare avanti. Con Federica e Alessandra per un momento mi era sembrato possibile. Con Stefano, ne ero certa, di una certezza senza prove, quasi una fede, ci sarei riuscita. Ma Stefano si era volatilizzato come la nuvoletta che avevo occhieggiato poco fa e adesso non c'è più, svaporata via, e io non riesco più a trovare, da sola, un filo di senso alla mia vita.
"Forse il senso della vita è semplicemente vivere, giorno dopo giorno - dice Milena pragmatica -, cioè sforzarsi di non morire prima del tempo. O anche non stancarsi di indagarne il senso come fanno i filosofi, ma tanto l'una che l'altra impresa sono destinate al fallimento, perché come condannati a morte non abbiamo speranza di grazia, solo certezza di un'esecuzione rimandata a data da destinarsi, che dipende appunto dal destino".
E' pensosa, ma poi sorride, sa sempre essere autoironica sul suo filosofeggiare adolescenziale. Stavolta mi chiude d'autorità il libro e mi dice dài, per oggi basta, andiamo fino al Prato a prenderci una Nafta (uguale gelato più panna montata più sciroppo di amarena più una manciata di amarene intere, insomma una bomba di calorie). Vada per la bomba, sempre meglio che i brodini delle suore che non san di niente e con questo caldo ti fanno solo sudare.
Ci avviamo sotto i portici, comodissimi quando piove, mentre se piove a Venezia e non hai l'ombrello come minimo ti parte via un paio di scarpe. Però i portici, anche stavolta non posso non pensarlo, restringono e oscurano le strade rendendole simili alle navate di una cattedrale gotica, sbarrando l'entrata al sole e accentuando quel peso che devono provare tutti gli abitanti di questa città segreta  e malata. Ma qual è il suo segreto e quale la sua malattia? O, più probabile, sono solo io la malata che ci proietto dentro il mio male?
"Il segreto è la colpa, di cui nessuno riesce davvero a liberarsi - mi spiega Milena -, che sia colpa sessuale o avidità di denaro o smania di potere o invidia per la fortuna altrui, ma è soprattutto la prima quella che non ti viene perdonata, e che perciò non ti perdoni".
Già, è la prima, anche se incomincia a coniugarsi, verbo che usano da qualche tempo sia i genietti di facoltà sia i Bellissimi, con le ideologie sovversive che iniziano a essere formulate in riunioni segrete. E che dalla colpa ti liberano rovesciandola sugli altri.
"Hai mai baciato nessuno?" mi chiede inopinatamente Milena guardandomi fissa.
A parte i baci rubati alle festine, quando si balla sulla mattonella e si spengono le luci e il ragazzo di turno ti suda addosso e tu non ti diverti per niente ma chissà perché non hai voglia di dargli lo spintoncino educato in cui è specialista Alessandra quando tutti la vedono, e così continui a lasciarti strusciare e il calore dei corpi che si toccano  diventa quasi piacevole suo malgrado, specie se ti lasci trasportare dalla fantasia che ci sia uno Stefano a stringerti fra le braccia e a baciarti, ma gli Stefani anche alle feste non ti stringono e non ti baciano, forse si conservano incontaminati per l'Alessandra o altre come lei. A parte dunque i baci-non-baci delle festine, l'unico bacio vero che mi viene in mente  è quello che mi ha dato Gianni, lo scorso anno, in montagna, in quel paesino povero ma bello che non ha mai voluto arrendersi al turismo anche se è ricoperto da folte pellicce di foreste nere e l'acqua dei torrenti risuona di trombettieri angelici e le pareti di pietra dolomia, pallide al giorno come nelle leggende alpine, si arrossano di sera come intimidite dalle prime stelle che cominciano a stremolare nel cielo concavo. Ma gli abitanti hanno sempre preferito aiutare i figli a emigrare piuttosto che lanciarli in imprese turistiche, e difatti c'è una valle profonda  che si apre quasi al centro del paese e che non a caso hanno chiamato California, e i vecchi dai volti incisi di crepacci, che son rimasti a guardia delle piccole frazioni isolate, si guardano bene dal vendere le terre  e i masi.  Perché, se ai figli andasse male laggiù nella Grande Mela o nella Grande Arancia o addirittura nell'infinito Sud della Pampa, potrebbero sempre tornare qui, ma da padroni, non a servizio delle multiproprietà o dei villaggi turistici installati dai signori delle città. Al massimo, i vecchi affittano appartamenti a buon prezzo, nei mesi estivi, a turisti come noi, gente quasi povera anche se di una povertà ben dissimulata, o come Gianni, che è venuto quassù per curarsi gli esiti di una  brutta pleurite.
Gianni è comunista  tesserato e sindacalista e poeta, ha dieci anni più di me e per il mio diciottesimo compleanno mi fa ballare diciotto volte, nella terrazza dell'unica piccola pensione ai piedi del campanile e di fronte al cimitero dove ogni notte serena si accendono i fuochi fatui. Posto allegro per noi giovani, dice ridendo, ma altro non c'è. Difatti Gianni mi porta, una sera, a costeggiarlo, e intanto mi conta la storia dei due montanari che son saliti sulla croda e non son più scesi a valle, e nessuno ne ha trovato i corpi, ma nelle notti di bufera loro ritornano a piangere la mancata sepoltura. E poi mi guida giù sul greto del torrente che si è gonfiato dopo tre giorni di diluvio e mi sento come la donna del Romancero Gitano di Garcìa Lorca, anche se io non ho ancora marito. Il sentiero è scivoloso, almeno io scivolo con le mie scarpette da tennis che fra l'altro mi stanno grandi perché tutto mi viene ancora comprato in crescita, e allora Gianni mi cinge la vita per sostenermi finché arriviamo a un grosso masso piatto che si sporge sull'acqua turbolenta. Ci sediamo. Gianni adesso parla di Marx e di Engels e della Russia dove andrà la prossima estate se sarà guarito. Poi tace di colpo e comincia a baciarmi, e le sue labbra rosse e calde, febbricitanti, forzano le mie e la sua saliva si mescola alla mia e io non provo alcun piacere ma solo un vago senso di schifo e però sono anche contenta, mi sento promossa al mondo dei grandi anche se non vedo l'ora che tutto finisca per poter tornare al mio lettino e ripensare a questo primo bacio che nel ricordo diventerà certo più bello, come sempre avviene per ogni esperienza del mondo. Quel che è certo è che vorrei che restasse un episodio isolato, anche se le stelle sono grosse e brillanti come pietre preziose e la Croda argentea manda bagliori sotto la luna e il fragore del torrente in piena che c'investe con i suoi spruzzi è una musica degna del rito iniziatico che si sta compiendo. Ma poi il volto di Gianni cambia espressione, il corpo prende a contorcersi sopra il mio, cerca di alzarmi la gonna ma non fa a tempo, e io sento un liquido vischioso scivolarmi sulla stoffa e sulle mani mentre il suo sguardo, pian piano, si fa di nuovo placato.
"Ci ricorderemo di questo momento - dice solennemente Gianni, ma mi sembra anche che reprima uno sbadiglio -, io mi ricorderò sempre del tuo viso bianco di luna e tu ti ricorderai del canto dell'acqua", aggiunge, anche se lui ha una donna che lo aspetta in città, una donna che sta per sposare (ma questo non me lo dice e io lo verrò poi a sapere per caso e ne proverò sollievo e rabbia insieme). La brezza della notte mi asciuga il vestito, il vento dell'alba me lo fa raggrinzire.
"Allora non è stato bello, il tuo primo bacio", riassume Milena il mio racconto confuso e frammentario. E' stato, penso, forse doveva essere. Anche se non era un bacio d'amore ma solo di crescita, e per lui, forse, una specie di  addio al celibato.
        
                                     
*****
        
Ma quel che ne resta, dopo l'estate, è solo il solito maledettissimo senso di colpa, e il bisogno di lavarla via confessandola a quell'inquisitore che odio ma, nei momenti critici, ha potere decisionale sulla mia vita, fino al punto di influenzarne i dettagli: è lui che dice no al bikini (anche se lo porto lo stesso, ma lo stesso torno a confessarmi), è lui a dividere il mio corpo adolescente in zone buone (quali? il naso? i capelli?) e cattive ("le parti basse", così lui le definisce  in gergo burocratico da confessionale, ma anche la bocca e le mani e gli occhi non sono sempre innocenti!), e a me pare di stare in una macelleria dove la carne rosea è esposta su freddi banconi metallici, o in un altrettanto gelido ambulatorio ginecologico.
Incomincia  ogni volta  con un:
"Ti sei toccata?".
"No. Beh, lavandomi, certo....".
"Hai provato piacere?".
"Non saprei, forse no...".
"Forse no o forse sì?".
"Forse sì".
"Sta' attenta, è un piacere cattivo!".
Poi si passa ai baci.
"Hai baciato qualcuno?".
"Sì".
"Dove?"
E' il momento della verità, si può morire tacendo o si può morire parlando.
"Vicino alla bocca".
"Vicino o sulla?".
E' il momento della verità delle verità, si muore evitandola e si muore toccandola. So che secondo lui le ragazze virtuose non baciano i ragazzi, e le ragazze semi-virtuose li baciano sulla guancia, quando son voltati. Non un millimetro più in là.
"Sulla bocca".
Sento il suo respiro farsi più rumoroso, al di là della grata.
"E lui ti ha baciata?"(Che domanda!).
"Sì".
Quando l'argine è rotto, la piena dilaga, non la puoi fermare.
"Dove?".
Rispondere è come toccare un filo scoperto con la corrente elettrica, sono appena stata folgorata, devo proprio bruciarmi.
"Vicino alla bocca".
Io so che secondo lui le ragazze virtuose non si fanno baciare dai ragazzi, e le ragazze semi-virtuose, quando un ragazzo sta per baciarle, si voltano di scatto, in modo da offrire la guancia. Non un millimetro di più. Bisogna sempre poter convincersi che i baci siano stati non-baci.
"Vicino o sulla?".
"Sulla bocca". 
"A labbra chiuse o aperte?".
Silenzio e debolezza, tanta debolezza che potrei morire. Poi:
"Aperte".
"Baci colombini, allora. E' peccato. Peccato grave. Non farlo più. Mai più".
Prometto, con le forze che mi restano. Nel proponimento, un pensiero astuto, maligno, satanico: mi erano piaciuti di più i baci-non-baci dei baci colombini.
Si rilassa.
E tutto sommato, nel suo computo ragionieristico-voyeuristico (forse anche statistico) non mi sembra sconvolto dai miei imbarazzati resoconti, che mi costano perché temo di essere sacrilega se non li faccio ma insieme mi vergogno di piegarmi a questa umiliazione e mi chiedo cosa potrà mai importare a Dio che sopporta le guerre e gli assassinii e tutte le altre iniquità del mondo che ha creato. Ma quando sente che lui è comunista, avverto nel suo subitaneo silenzio come uno scatto, infatti si dimentica delle distinzioni corporali e mi chiede "di fare un sacrificio, una rinuncia indispensabile". Essere comunista è dunque peggio ancora che commettere atti impuri, traduco dentro di me. E siccome da parte mia non ho nessuna voglia di continuare questa storia senza senso mi dichiaro, con molto sollievo, pronta a sacrificarmi come l'agnello pasquale. Così lui soddisfatto si dimentica perfino di darmi la penitenza in preghiere, e io esco di chiesa allegrissima per essermi liberata in un sol colpo di Gianni e dei sensi di colpa. Forse è questo il bello del cattolicesimo, che non ti lascia mai a lungo a tu per tu con la tua coscienza, la quale può essere molto severa perché sa quali fogne albergano in ciascuno di noi, sotto, molto sotto la superficie. Non ti lascia mai solo con i tuoi dubbi, perché ti scodella la verità bella e pronta perché "rivelata", oppure prodotta da menti illuminate che hanno diritto di scegliere per te. Tutto, perfino i roghi se servono a salvare le anime. Non ti lascia mai solo con la colpa, con la macchia, ma ti indica un detersivo universale capace di scioglierla all'istante, qualunque essa sia. E' una religione drammatica perché ha al centro una vittima, perché ci fa sentire vittime (o carnefici, o alternativamente vittime e carnefici), ma in un certo senso anche allegra e vitale, perché tutti gli orrori li puoi cancellare con un atto di pentimento davanti a una persona diversa da quella che hai offeso o fatto soffrire.
Milena sorride, io le sorrido di rimando anche se la malinconia resta fonda in entrambe, come la solitudine seppure siamo in due. Perché io amo Stefano per il quale sono trasparente, e Milena ama me che neppure (ma è proprio vero?) me ne accorgo.
La Nafta scende giù soffice, per un poco ci addolcisce tutte e due.


*****

        
A Federica scrivo una, due, tre lettere. Tutte senza risposta. Arriva, invece, una busta rettangolare azzurro-polvere con una sigla stampigliata in caratteri eleganti che riecheggiano il liberty. Sono le iniziali intrecciate di Alessandra. Spero assurdamente di trovarci qualche rivelazione o qualche indizio sulla scomparsa di Federica, o almeno qualche parola di amicizia per me. Ma la lettera sembra una guida turistica o un reportage giornalistico per riviste femminili. Apprendo dell'esistenza di canali immobili in cui si specchiano, ormai immobili anch'essi, vecchi mulini ad acqua. Di campagne ove  pascolano sonnacchiosi greggi di pecore su smaltate praterie, naturalmente smeraldine. Infine che la Ville Lumière ha dispiegato tutte le sue luminarie apposta per lei, e lei alterna biblioteche austere, musei e vagabondaggi sulle rive della Senna, fermandosi a curiosare nei baracchini dei bouquinistes o risalendo le viuzze del Quartiere Latino sulle tracce - chissà perché proprio Alessandra - di  Sartre e Simone de Beauvoir.
E' una lettera che mi suscita un po' d'invidia (ma perché non mi aveva detto niente?), un po' di rabbia (perché non dice niente di Federica?), un po' di delusione (perché è sempre così decorativa?). Ma è pur sempre una lettera di Alessandra, e Alessandra, si sa, o l'ammiri incondizionatamente o ti suscita invidia, rabbia e delusione.
Decido di andare di persona a cercare Federica. Anche se lei non vuole vedermi. Alea iacta est.


*****

        
Oggi fa meno caldo del solito perché stanotte ha diluviato, e l'asfalto è pieno di pozzanghere che riflettono frammenti di arcobaleno. La strada è quella che faceva ogni settimana Federica quando tornava a casa sua, così mi sembra di fare un pellegrinaggio. Ma pellegrinaggio è una parola triste, evoca qualche cosa d'irreparabilmente perduto o santificato e Federica non è, non voglio che sia, perduta, tantomeno santificata. La città mi viene incontro, stavolta non con i portici gotici o le cupole bizantine o i campanili orientali sottili come minareti, questa qui è la città delle strade e piazze fasciste con gli alti, boriosi palazzi del potere. Poi si sfilaccia in una periferia di villette con giardini  popolati di statuette dei sette nani, o di condomìni brutti e pretenziosi, appena costruiti e già scrostati, coi pianterreni ancora allagati dal nubifragio. Ma in fondo allo stradone si delinea nitido il profilo delle colline dalle verdi forme tondeggianti, morbide come seni di donna. I casolari di mattoni rossi, col portico e il fienile adiacente, cominciano a essere disertati dai contadini che si costruiscono villette cubiche a due piani, senza tinteggiatura per motivi di risparmio: quella può aspettare, tanto la bellezza cosa conta? È il mattone che conta. Mentre i cittadini più furbi comperano per due lire le vecchie fattorie con il progetto di ristrutturarle in case da week-end. La passione di questa gente per i soldi e gli affari, anch'essa nascosta come il peccato sessuale, esplode nelle occasioni di morte, quando si devono dividere le eredità, in liti  forsennate tra parenti serpenti. I giardini e i palazzi si celano dietro facciate austere, quasi spartane, i soldi non vengono ostentati eppure si deve sentire che ci sono, che valgono, forse più di tutto.
La corriera ha una tromba stentorea che intona a ogni curva un motivetto volgare. Lo stradone, che va restringendosi via via che ci allontaniamo dalla città, ha una  svolta a sinistra che s'inerpica sui monti diventando poco più che un sentiero per vecchi ciclisti in maglietta sportiva. Da un lato, ci lasciamo alle spalle l'abbazia benedettina coi severi bastioni attorniati di vigneti carichi di uva acerba. Qui, in questa abbazia, s'è convertito Totila.  Finché la strada, ancora mal asfaltata, arriva a un centro abbastanza grosso dove la corriera fa sosta per dieci minuti, così scendo in un negozio di alimentari per farmi un panino, perché nonostante tutto sono sempre affetta da fame nervosa ("Carenza d'amore" ridacchia Milena imitando lo stile di Alessandra, "fortuna che hai un metabolismo perfetto, non come me che ogni cosa che ingoio si trasforma in ciccia"). Il panino lo faccio riempire di burro e mortadella e si scioglie in bocca, e solo allora mi ricordo che somiglia ai panini che mia madre portava nella sporta di rafia al mare istriano e ce li mangiavamo nelle radure bevendo aranciata o mish-mash, cioè sempre aranciata ma corretta con un po' di vino rosso, e  avanzavamo ogni volta qualche pezzettino di pane da sbriciolare per gli scoiattoli e gli urogalli della pineta.  Senza accorgermene, faccio sempre le cose che faceva la mamma, ma provandone fastidio non appena me ne rendo conto, mentre le cose che fa la nonna e che dovrebbero irritarmi, perché la nonna sembra uscita da un'altra era e un altro mondo, mi fanno tenerezza, al massimo mi strappano un sorriso.
La corriera riparte, sempre strombazzando, si arrampica fra basse pareti verdi che introducono, dai finestrini aperti, odori aspri di mentuccia, dolci di caprifoglio, pungenti di conifere, risvegliandomi l'olfatto addormentato. Finché la strada si allarga di nuovo rivelando antiche ville guardate da statue bianche immerse in giardini francesi, dove cinture di bosso s'intrecciano in labirinti costruiti per i villeggianti di due secoli fa. Anch'io sto penetrando in un labirinto, alla ricerca  del mostro che tiene prigioniera l'amica perduta.
Siamo arrivati. La piazza è proprio brutta, pensata senza alcun senso estetico, dominata da una chiesona vagamente rinascimentale. Un'edicola-tabaccheria, il municipio, la farmacia e tre o quattro negozi: il centro è tutto qui. Chiedo qual è la casa del medico condotto e mi viene indicata una stradina tutta villette e siepi ben potate. La casa è l'ultima a destra e non è una casa anonima, ma una costruzione del primo Novecento che somiglia alla mia, anche qui attorno alle finestre sono stati disposti dei mattoni rossi in modo da formare delle arcate. Al piano superiore c'è una grande terrazza con ombrelloni a righe bianche e marroni, nel giardino sonnecchiano per mancanza d'uso un'altalena e un gazebo, e in alto si slancia una torretta dove, dai suoi racconti, dev'esserci la camera di Fede.
Federica aveva scelto, verso i quindici anni, di stare nella torre che allora non la faceva sentire prigioniera ma al contrario più libera, più in alto di tutti, lontana dal gelo che intuiva fra i suoi genitori. Bastavano quei trenta scalini a separarla dalle prediche ansiose della madre, dai ricami che pretendeva di insegnarle (a punto erba, a punto croce,  a punto quadro, a punto catenella), dal buon senso e dalla gelosia della sorella, dalla presenza smisurata di suo padre. Adorante e soffocante. Troppo disponibile. Troppo indagatore. Non nel modo meschinello di sua madre, certo. Lui non leggeva i suoi diari senza permesso, non origliava le sue telefonate, però, quando la sorprendeva al telefono, il volto gli s'incupiva impercettibilmente. Non intercettava le sue lettere. Semplicemente c'era, c'era sempre a invadere il suo spazio, in ogni momento importante. C'era con il corpo grande e grosso e caldo che quand'era bambina le era sembrato il più confortevole dei rifugi. C'era con il pensiero che voleva spiegarle ogni cosa, interpretarle ogni frammento di realtà. Con il suo giudizio inappellabile.
"Non mi piace come ti sei vestita, oggi. Non ti sta bene, ti fa sembrare una vecchia".
"Non mi piace questa espressione che hai usato, è sciocca e volgare, la dicono tutti e non significa niente".
"Quel ragazzo che ti ha accompagnato mi sembra un mediocre, sa dire solo banalità".
Lui non diceva mai banalità, ma spesso pronunciava sentenze spietate, e perché queste sentenze non ferissero anche lei, Federica si sforzava di compiacerlo, almeno si era sforzata di farlo fino a quel giorno in cui lui l'aveva stretta a sé con il respiro affannoso, con le mani brancicanti attorno al suo corpo e gli occhi famelici. Per un minuto, o forse pochi secondi, lunghi però come una vita. Da allora lei aveva smesso di essere la sua bambina, nella torre ci stava rinchiusa a pensare, a calmare, alla vista della pianura che si allargava azzurra fino alla città, il tumulto degli interrogativi senza risposta che non poteva porre a nessuno.
Era fiera, Federica. Si rivelava solo in qualche parola che pareva sfuggirle per caso. Come quando le avevo detto che io avevo avuto due padri ma era come se non ne avessi avuto nessuno. "Se potessi dartene almeno metà del mio!", aveva sorriso soltanto con le labbra. E io avevo capito solo dopo. Molto dopo. Troppo dopo.
Sento il cuore martellarmi sulle tempie, ai polsi, sulle vene del collo, dappertutto tranne che al posto giusto, non c'è mai niente di normale nel mio corpo, ma premo lo stesso il bottone del campanello perché non posso più aspettare, devo sapere, devo ritrovare Federica. Federica, sono qui.
Risponde solo il latrato di un cane che esce dalla sua baracchetta legato a una lunga catena e si avventa contro il cancello. E' un doberman nero e asciutto con l'aria feroce che gli compete. Mi accorgo infatti che la scritta "Cave canem" è ben visibile su uno dei pilastri che delimitano l'inferriata. Suono di nuovo, anche se nel frattempo ho scoperto che tutte le imposte sul davanti sono accostate, mentre sono aperte, e fissate al muro con ganci arrugginiti, due finestrelle laterali, velate di tendine bianche.  C'è qualche cosa di fatiscente, in questa casa, come se già da un pezzo i suoi abitanti avessero smesso di provare gioia di vivere, di progettare o anche solo di immaginare un futuro. Sono così le case dei vecchi, e  difatti forse qualcuno, lì dentro, o tutti per una sorta di epidemia familiare, sono invecchiati precocemente.
Finalmente si fa sulla porta un uomo alto e robusto, no, non anziano, eppure come appassito. Anzi consumato. Mi squadra interrogativo, poco accogliente.
"L'ambulatorio è chiuso, non ha letto il cartello?".
Macché, non l'ho letto, sono così distratta che non potrei mai fare l'investigatrice, e neppure la giornalista, mi sfugge tutto perché ho la testa sempre occupata dalle mie sciocche fantasticherie ("Ma perché ti svaluti sempre?", sento arrivarmi la voce di Milena che ormai mi fa da coscienza critica come il grillo di Pinocchio, "le fantasie aiutano a vivere, sono i poveri di spirito quelli a cui non sfugge niente, specie dei fatti altrui"). Tossicchio, cerco di mantenere ferma la voce  e attacco con finta disinvoltura:
"Ecco, veramente non sono una paziente, sono una... una compagna di Federica. Ha dimenticato in città degli appunti, volevo restituirglieli, ma in collegio non si vede più, le ho scritto e non ha risposto, ho provato a telefonare ma...".
"Federica non c'è - m'interrompe con voce definitiva -, e non penso tornerà prima dell'autunno".
Sta per fare dietro-front senza neppure salutare ma io torno alla carica, e non so dove trovo il coraggio.
"Potrei almeno avere il suo indirizzo?".
Esita una frazione di secondo, anche se non sembrava un tipo capace di esitazioni, poi spara secco: "Non mi ha autorizzato a darlo. A nessuno. Quanto agli appunti li può lasciare a me. Provvederò a farglieli avere".
Esito anch'io, perché gli appunti non li ho, erano solo un pretesto. Poi sparo a mia volta:
"Non sono autorizzata a darli a nessuno".
Adesso mi guarda con più attenzione, anzi con evidente sorpresa, non dev'essere abituato alle sfide. Poi fa l'occhio cattivo e per un attimo penso che mi voglia picchiare, o forse visitare come ha visitato Federica. Le mie gambe si stringono. Certi uomini  hanno bisogno di denudare le donne per ridurle all'obbedienza. Invece fa un fischio al cane che si era ritirato nella cuccia e che torna fuori velocissimo dal canile scagliandosi nella mia direzione. Faccio appena in tempo a scostarmi dal cancello. L'uomo mi volta le spalle e rientra in casa, sbattendo la porta con un colpo che riecheggia come uno sparo.
In paese, nessuno sa niente di Federica, che "dev'essere in città a studiare". E la madre? E la sorella? Partite, forse, è un po' che non si vedono in giro neanche loro. Magari sono nella casa al mare. Ma nessuno sa dirmi dove si trova.



*****

        
Sto per raggiungere la fermata dell'autobus, arresa, quando sento  dei passi e la voce di una ragazza, una voce senza espressione, che mi raggiunge da dietro. "Forse il professor Nordio ne sa qualcosa, perché non prova da lui?  Sta in quel condominio giallo dall'altra parte della strada. Di solito a quest'ora lo trova, durante l'estate".
Il professor Nordio? E chi potrà mai essere? Forse un insegnante delle scuole medie, che Federica deve aver frequentato qui al paese. Oppure era lui l'uomo con cui Fede s'imboscava di notte all'insaputa di tutti, giù in città? Ma quel tale era sposato, a sentire Milena, forse conviveva ancora con la moglie, aveva dei figli. Come trovare il coraggio d'interrogarlo? Mi avrebbe respinto anche lui,  incattivito per la mia invadenza.
Invece non mi respinge e non s'incattivisce. Quando suono il campanello e rispondo, alla schiva voce maschile, che sono un'amica di Fede, mi apre subito. Magari la moglie è al mare anche lei. Doveva essere ben informata, la ragazza senza espressione. Lui invece ha un'espressione confusa, dolente ma come speranzosa che io sappia, che gli possa dare qualche informazione. Mi fa entrare nel piccolo soggiorno modesto, con la libreria in tek e due divanetti in finta pelle, da professore delle medie con famiglia, appunto. Mi offre un caffè.
"E allora - mi chiede dopo due secondi -,  sa dov'è?".
"No, non lo so, per questo son venuta qui, ma suo padre mi ha sbattuto fuori".
"E' suo padre la causa di tutto. Ma nemmeno io so dove si trova Fede adesso. Non mi ha più scritto, più telefonato. Come svaporata, o persa in un deserto".
Non so come trovare la forza di continuare, alla fine mi butto:
"Ma lei, lei è un amico di Federica?".
Cerco di sovrapporre le poche cose che so dell'uomo di cui Fede "aveva bisogno" su questo tipo in tuta e scarpe da ginnastica, con un volto scarno e ascetico e la barba lunga di due giorni. Uno che ha gli occhi gonfi e arrossisce spesso, ma non sembra per timidezza. Piuttosto per una specie di furore trattenuto.
"Un amico, sì, credo di poter dire che sono un amico. Ma un amico che doveva nascondersi, mi capisce?".
Non so se capisco. Nascondersi dal padre di Federica di certo, forse anche da una donna, da paesani pettegoli e occhiuti, dalle suore giù in città, dalle amiche non così poco sveglie come me.
"Io a Fede voglio bene - aggiunge dopo un attimo sollevando la testa -, e sono molto preoccupato per lei, ma non posso fare niente per ritrovarla".
Penso che non abbia altro da dire e che stia per congedarmi, sia pure in modo più urbano del padre di Federica. Faccio per alzarmi ma lui all'improvviso mi fa cenno di aspettare e riprende a parlare, benché con sforzo evidente.
"Fede è stata mia scolara alle medie - conferma la mia supposizione -, io insegnavo lettere, e insegno ancora, giù in città. Lei era la più intelligente della classe, la più originale. Nei temi non ripeteva mai quello che insegnavo, piuttosto lo metteva in discussione, esprimeva i suoi dubbi e le sue opinioni".
Anche allora, penso ma non dico. E lui continua:
"Era una ragazzina molto allegra, avida di vivere. Solo ogni tanto il suo sguardo si faceva assente, come se inseguisse un pensiero segreto. Durava tre, cinque minuti. Poi si risvegliava e ricominciava a parlare, a far domande, commenti. A volte era presa da un riso irrefrenabile, altre volte, specie quando leggevo in classe una poesia che la colpiva, diventava serissima. Il giorno dopo la sapeva già a memoria, senza che nessuno l'avesse obbligata a impararla. Sua madre, le rare volte che veniva a colloquio con me - perché di solito, sa, ci veniva suo padre -, mi sembrava preoccupata. Diceva che Fede non voleva mai andare a dormire, che leggeva fino a notte fonda. Leggeva di tutto, dai fumetti ai classici, già allora. Stevenson, Conrad, Dickens, perfino Dostoevskij. Le sembrava ingorda di conoscenza, e lo era, ma in modo felice, non come compensazione...".
"E suo padre, sua sorella?".
"Oh, sua sorella è molto diversa, e forse è sempre stata gelosa. Una brava ragazza, molto legata alla madre. Del padre, invece, era come un'innamorata respinta, lui vedeva solo Federica che a quell'epoca, quando era adolescente, lo considerava un eroe, un maestro. Capivo che era un legame molto, forse troppo stretto, e per questo cercavo di sostituirmi, almeno come insegnante, a lui. Ma lui ne era infastidito e contraddiceva, con lei, tutto quello che io cercavo di trasmetterle. Senza rendersene conto, forse, voleva esserle indispensabile, unico, e faceva terra bruciata di tutti gli altri suoi rapporti. Anche per questo Fede è cresciuta con tanti dubbi...".
"E dopo?".
"Dopo io mi sono trasferito in città e sono tornato qui solo lo scorso anno. Mi sono sposato, nel frattempo, ho avuto un figlio. Adesso sta spaccandosi tutto, ma avevo ritrovato Federica e negli ultimi tempi la vedevo spesso. Finché lui non l'ha mandata via, o lei non è scappata".
"Ha qualche idea sul perché?".
Lo so il perché, ma cerco una conferma. O spero in una smentita.
"So solo che da un anno, o forse più, il rapporto fra di loro si era incrinato. Lei aveva preso le distanze, qualche volta faceva del sarcasmo pesante su di lui. Ma non mi ha detto niente di preciso. Intuivo che aveva bisogno di un altro appoggio, e questo non poteva arrivarle da nessuno della sua famiglia".
"Forse lo aveva trovato in lei...".
"Lo pensavo anch'io, ma può darsi che abbia sbagliato tutto. Pensavo, vede, che avesse bisogno di me anche come uomo, come compagno. Invece era un altro padre che andava cercando".
Avverto un crescente disagio, un imbarazzo ad andare avanti. E insieme un desiderio di sfogo.
"Lei è Marina, vero?".
Già, non mi ero neppure presentata.
"Sono Marina", confermo.
"L'avevo capito subito. Mi raccontava molto di lei... Ma mi scusi, sto parlando troppo, so che anche per lei Fede era  - si corregge -  è importante".
Fa una pausa.
"Per me era unica" (dimentica di correggersi).
Forse vorrebbe continuare, esita ancora, poi tace definitivamente. Il caffé si raffredda nelle tazzine che nessuno dei due ha toccato. Non voglio insistere. Se nemmeno lui sa dov'è, vuol dire che dev'essere prigioniera (o finalmente libera) da qualche parte dove non può o non vuole comunicare con nessuno. Magari l'ha fatta rinchiudere nel reparto psichiatrico di qualche clinica, quello là, o perfino in un convento. Forse simile al convento delle figlie-di-nessuno annesso al nostro collegio per signorine-bene.  Devo accontentarmi del racconto di seconda mano di Milena, destinato a me che son costretta a tenermi dentro il mio segreto come il professor Nordio deve tenersi il suo. E immaginare, soltanto immaginare il resto della storia. Forse una storia d'amore, forse di ribellione. O di risarcimento.



*****
        

I giorni precipitano verso gli esami. Ma sento il bisogno di parlare con qualcuno che, per una volta, non sia Milena. Vinco la ritrosia, chiamo Stefano e, miracolo, sembra entusiasta di sentirmi. No, di Federica non sa niente, neanche di Alex, a dire il vero, aggiunge con falsa disinvoltura. Sì, sta studiando, deve dare Procedura Penale, poi andrà in Inghilterra, in un college dell'Oxfordshire, e alla fine (o prima, parla a velocità supersonica e in tono eccitato, per cui non riesco a capire bene) passerà un mese in montagna, con la famiglia.
"Dove andate?" chiedo, io pure con finta nonchalance.
Nomina un piccolo paese in una valle parallela a quella dove avevo passato le vacanze dei miei diciott'anni, quello del torrente e dei fuochi fatui e della valle chiamata California. E del mio primo bacio non-d'amore. Questa qui è una vallata un po' più chic e più costosa, anche se non più bella, ma io, prima ancora di riflettere, mi sento sicura  che riuscirò a convincere i miei a cambiare i programmi di vacanza.
"Davvero? - mi sento replicare ancora una volta stupita del mio inconsueto ardimento - che combinazione, credo proprio che anche noi andremo lì. I miei stanno trattando l'affitto di una casa per la stagione e concluderanno giusto nei prossimi giorni".
Si mostra entusiasta, ha espressioni di un'euforia che pare sincera, progetta gite ed escursioni, il mio cuore fa  capriole anche se temo, per esperienza, che non siano progetti affidabili. Quante volte mi aveva detto: "Uno di questi giorni ti porto al cinema". Oppure: "Domenica si potrebbe andare a sciare, non so ancora se sarò libero ma ti chiamo comunque". Poi non chiamava. Ma stavolta, lo sento, lo voglio sentire, non sarà così, e quindi devo darmi da fare per convincere i miei genitori, magari raccontando a mio padre, patito di raccolte, che la zona è piena di funghi e frutti di bosco.
L'opera di convincimento, in effetti, risulta più facile del previsto. Manca ancora più di un mese alla partenza e adesso posso concentrami sugli esami, anche se l'assenza di Alex e Fede accentua la mia insonnia e la mia ansia. Però c'è  sempre Milena, con la sua presenza attenta, e capisco che su lei posso contare, che mi vuol bene senza condizioni, non come Alessandra che sembra sempre impegnata a dimostrare la sua superiorità. E nemmeno come Federica, che da parte sua è troppo impegnata a fare a pugni con la vita. Milena sa tenersi tutto dentro, cioè tutto quello che la turba e che lei combatte in silenzio, ma è sempre disposta ad accollarsi i turbamenti degli altri, anzi delle altre, soprattutto  i miei.


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E' la Paoletta che, un bel giorno, mi "apre gli occhi". La Paoletta che viene da Venezia come me, ma l'ho conosciuta solo da qualche mese. Fa Lettere anche lei, secondo anno. Tutte facciamo Lettere, salvo qualche esemplare raro che fa Matematica oppure Farmacia, ma tutte quante siamo state programmate per l'insegnamento: un lavoretto, dice la mamma, niente male, che ti rende autonoma (lei non lo è mai stata, da quando siamo emigrate, e le pesa) e ti lascia il tempo per badare alla famiglia: proprio l'ideale per una donna. Sarà per questo che di maschi in facoltà ce ne sono sempre meno. La Paoletta la incontro in treno o in corriera nel fine settimana, la vedo naturalmente in facoltà ma lei non abita in collegio ed è molto fiera della sua autonomia. Vive in casa di un'affittacamere e divide la stanza con una certa Alice, che, nomen omen, è riuscita a ottenere il passaporto del Paese delle Meraviglie, cioè quello dei genietti di Filosofia, e a legare con il più geniale di tutti. Peccato che lei sia atea e lui invece cattolico, ed entrambi si facciano in quattro per convertirsi reciprocamente.
La Paoletta, invece, di suo è un'appassionata di astrologia di cui sa tutto, in secondo luogo di medicina alternativa,  ma fa il possibile e l'impossibile per sembrare un'intellettuale astratta come Alice, la quale del resto se la tira sempre dietro (anche se le vieta di parlare di oroscopi fuori dell'intimità della loro camera). Forse perché è sempre informatissima, la tiene al corrente di tutti i pettegolezzi - notizie, li chiama lei - universitari, di cui la sapiente amica va ghiotta. Paoletta è una veneziana bionda come quelle della pittura del Rinascimento e delle canzoni che cantano i gondolieri, ha capelli lunghissimi che ferma anche lei con un cerchietto come Federica, ma le punte sono rivolte all'insù, e saltellanti ad ogni passo. Gli occhietti piccoli, furbi e grigi sono sempre fissi su qualcosa come quelli di un cane da tartufi, e le labbra gonfie e prominenti, da cui sporgono leggermente due grossi incisivi candidi, le danno un'espressione più avida o infantile, da fratel coniglietto, che sensuale. Si muove in continuazione, ondeggiando spalle, gambe e braccia, parla tanto che non si capisce come faccia a respirare. E oltre che sulle persone, il suo sguardo indagatore punta sulle cose che, afferma, lo sentono e si lasciano attirare. Infatti è specialista nel trovare per terra qualche moneta o banconota, e una volta perfino, nella toilette di un bar, un braccialetto d'oro che sfoggia con fierezza. A volte fruga perfino fra le immondizie, e, racconta, ogni tanto le capita un colpaccio di fortuna. "Non avete idea di quello che la gente butta via!". E' curiosa di tutto. "Dovrei fare la giornalista", sogna ogni tanto ad alta voce. Effettivamente non le sfugge niente e in più racconta molto bene. Ma soprattutto le piace interpretare le vite altrui, e quando può, predìre: l'amore, lo studio, la fortuna. Però sa anche ascoltare, tutta concentrata e senza distrarsi, introiettando e incasellando ogni cosa come un'enciclopedia. Agli esami - racconta con orgoglio - è sempre andata bene perché tutti i possibili riassunti, bignami, manualetti e perfino rubriche di rotocalchi sono suoi. Ha preso  un trenta raccontando un libro di storia di cui aveva letto solo una recensione di mezza pagina. Il libro, si lascia scappare, non aveva proprio senso leggerlo, la recensione diceva già tutto. Del resto è proprio perché è così scoperta che Paoletta è simpatica a tutti. Quasi  a tutti. E di quel quasi ne soffre. Il dolore più grande sembra provarlo quando non si sente presa in considerazione, allora diventa sospettosa, non è possibile mentirle, ti fa il terzo grado, anche perché detesta ogni tipo di mistero, reticenza o metafora, tranne quelli celati dagli astri. Detesta e insieme ammira, per motivi diversi ma equivalenti, anche Alex e Federica. Troppo misteriose, appunto. Quanto a me, non lo so. Mi cerca spesso, da quando mi ha "scoperta" in corriera, ma soprattutto da quando mi ha vista con Alessandra e Federica, e qualcuno le ha detto che ci chiamano, ma ormai dovrei dire ci chiamavano, le Tre Grazie. Paoletta è sempre attirata da ciò che brilla o è colorato, come se avesse bisogno di rischiarare con una luce esterna una specie di buio opaco che sente dentro e a volte le si legge nell'espressione, e nell'omega malinconico che le disegna due leggerissimi solchi attorno alla bocca, quando non sorride. Come se fosse possibile riempire il proprio vuoto con le vite degli altri. Assomiglia a quei bambini piccolissimi che sono attirati dai rossetti e dalle collane delle donne e scappano via dai baffi, dai grigi (e dai vocioni) degli uomini. Alice a volte sembra essere il suo idolo, di sicuro quando Paoletta è con me, e ne decanta l'intelligenza e l'originalità come se fossero sue. Altre volte però le sfugge un commento rancoroso, come se non si sentisse accettata pienamente da lei, ma solo usata, e forse, segretamente, un poco disprezzata. Dev'essere questa la segreta paura che l'accompagna sempre: di essere usata perché sa tutto di tutti (anche il destino), e così ognuno può sfogare il proprio lato più vacuo o irrazionale senza esporsi in prima persona: semplicemente ascoltando. Usata come una tecnica di rilassamento, usata per lasciar emergere impunemente una parte inconfessata di sé. Lei questo lo intuisce anche se lo cancella dalla coscienza. E allora alterna elogi - per accattivarsi la gente che potrebbe sfuggirle - a piccole ottuse cattiverie che mette in atto quasi senza accorgersene, cercando non proprio di metter male fra le amiche, ma di metterle in competizione fra loro.  Oppure mediocrizzando i pensieri altrui, rendendoli banali e scontati. Ma si riscatta sempre in qualche modo, perché essere accettata è la cosa che le preme di più.
Oggi viene a prendermi alle quattro. Volevo studiare Storia della Filosofia, mi mancano cento pagine e tutto il ripasso, ma i libri mi danno la nausea, il caldo sloffia la mente e appesantisce il corpo mentre il sole lancia raggi impolverati dalla finestra. Perciò scendo coi libri in giardino. Alex non si è più vista e Fede non risponde ai miei messaggi. Milena mi è passata davanti, poco fa, mentre cercavo di decifrare il flipper di sottolineature policrome del manuale, si è fermata un attimo, sapevo che se avessi alzato lo sguardo mi avrebbe chiesto se volevo uscire con lei, certo capiva che avevo bisogno di qualcuno ma temeva di non essere lei quel qualcuno, e temeva a ragione perché le voglio bene ma in lei c'è qualcosa che non capisco, che mi lascia allarmata, che non mi dà respiro, quei suoi racconti a voce bassissima che mi fan dubitare di essere sorda, o quel suo ascoltarmi famelica come se fossi un oracolo e guardarmi come se fossi un angelo. E poi quel voler condividere tutto, i libri che leggiamo i film che vediamo le musiche che ascoltiamo. Mi soffoca. E oggi, anche se sapevo che poi me ne sarei pentita, l'ho evitata, ho chiamato la Paoletta che - strano - era libera dai suoi molteplici impegni e dispostissima a uscire con me. Però non potevo dire a Milena che ero stata io a cercarla, così non ho alzato lo sguardo, anzi ostentatamente ho premuto sul libro il pennarello turchese che fin'allora non avevo usato, e lei discreta, in punta di piedi, se n'è andata via per ritornare in camera sua. Ho scelto anch'io di dar voce a una parte inconfessata di me che non mi piace.
La Paoletta arriva giusto adesso con una minigonna viola che le scopre le lunghe gambe perfette (Mary Quant è appena sbarcata anche qui da noi) e una maglietta di un viola più chiaro, quasi lilla, i capelli lavati che cadono dritti e pesanti e non arruffati e ricciuti e tanti come i miei che basterebbero per un paio di teste, e il solito cerchietto glieli sventaglia sulle spalle come spighe di grano maturo. Ammucchio i libri, li deposito su un tavolo del salone e schizzo via prima che Milena possa vederci insieme. Ma la Paoletta, che l'ha adocchiata da lontano, ridacchia:
"Come sei riuscita a mollarla?".
Io allora mi sento davvero Giuda perché come avrei fatto tutti questi mesi senza Milena, però oggi ho bisogno di sentirmi leggera, di non parlare di Bergman o di Brecht o di Buddha, e soprattutto di non sentirmi puntare addosso sguardi adoranti oppure dolenti, da cane bastonato. Così ho optato per quelli indagatori di Paoletta e adesso faccio fatica a mentirle, a dirle per esempio che Milena sta preparando un esame e non ha tempo per uscire, perché io posso anche essere stanca di Milena, qualche volta, ma non tollero che Paoletta lo sappia, non voglio essere sua complice nel giudicarla.  Paoletta non ci crede, a quel che farfuglio, ma abbozza, anche perché stavolta si sente la preferita, e allora  m'impelago, per autopunirmi, in una disquisizione su un film che ho visto ieri sera con Milena e lei aveva visto con Alice.
"Che palle!" sbotta subito. 
Ma io la contraddico saccente:
"Ma no, è una metafora della morte di cui ci sono segnali e prefigurazioni in ogni momento della vita".
"Questo è ovvio, lo capiscono tutti" dice lei che non lo aveva capito affatto, come conferma la sua espressione. Allora tira in ballo Alice "che è la più intelligente della facoltà (sottinteso: tu invece no, tu sei come me), ma nemmeno a lei è piaciuto molto", ed è chiaro che la straordinaria intelligenza di Alice è usata contro di me, che non devo montarmi la testa perché sto sempre con quella pizza di Milena e da quando la frequento nessuno mi cerca più come quando uscivo con Alessandra: "Quella sì è una ragazza molto ma molto in gamba. E' del Leone, vero?".
Cerco di cambiare discorso, ma lei non molla e torna su Milena, e io giù a dirne bene, tutto il bene possibile che allora non si capisce proprio perché oggi l'abbia messa da parte, finché Paoletta implacabile incalza:
"Ma che è lesbica te ne sarai accorta, no?".
Silenzio mio.
No, non silenzio, perché riascolto quelle parole, che non ho capito. Qualcuna è lesbica, non so chi.
Silenzio suo, per assaporare meglio la mia sorpresa. Mio Dio, anche questa mi era sfuggita, come ho fatto a non accorgermi di niente, in realtà avevo percepito e registrato tutto, i suoi sguardi e lo starmi sempre addosso, il suo modo di cercare sempre e solo ragazze, ma non avevo voluto far mente locale, e non perché la cosa mi traumatizzasse più di tanto ma perché... ecco, perché "sapendo" sarebbe stato più difficile esserle amica, e sdraiarsi vicino a lei sul suo o mio lettino, e sarebbe stato impossibile piangere fra le sue braccia immaginando che... che forse lei desiderava toccarmi o magari baciarmi, e magari non baci-non-baci, ma baci-baci. Perché io, che pure al mio primo bacio eterosessuale ero rimasta disgustata o quasi, sapevo per certo (per certo, o piuttosto volevo esserne certa?) che era un ragazzo-maschio che volevo, uno come Stefano, insomma Stefano. Però era anche vero quello che Milena aveva detto una volta, che l'amore è amore per una persona, indipendentemente dal suo sesso, e che quando una cerca sempre il ragazzo che non può avere è per crearsi un alibi, per non mettersi alla prova. Ma forse diceva così perché smettessi di incaponirmi su Stefano e magari mi accorgessi di lei, io invece niente, ottusa come una mucca.
E così ad aprirmi gli occhi - espressione  violenta che lascia immaginare  un gesto di forza - è stata la Paoletta la quale, sospettando dal mio prolungato silenzio di aver toccato il tasto dolente, e quindi giusto, perde interesse all'argomento e si mette volubilmente a parlare di moda, e squadrandomi con improvvisa concentrazione mi dice che il mio vestito verde acqua con due nastrini ai lati della vita è sì cariniissimo (e strascica la seconda i), però la dovrei smettere di indossare la sottogonna che ormai non la usa più nessuna e del resto neppure le gonne a pieghe: sono out, la scelta è fra minigonna e pantaloni, aggiunge con tono dogmatico, oppure quei completini sai come quelli che porta Jackie Kennedy anche se fanno un po' signora, oppure i vestiti dell'Alice senza maniche e tutti plissettati da cima a fondo o i tailleur Chanel dell'Alessandra che per dire la verità è sempre elegantissima, oltre che bella e "in gamba".
Di Federica invece vorrebbe aver notizie da me, buona questa,  proprio da me che quello che so non potrei dirlo nemmeno in confessione, figuriamoci a lei. Allora provo a rovesciare le parti, sentendomi sempre più imbranata e scontenta, e le chiedo di Alice e del suo nuovo ragazzo geniale. La Paoletta non sembra aspettare altro, già si è dimenticata di tutto il resto e si lancia a raccontare dell'ultima riunione a cui quei due sono andati insieme e poi Alice gliene ha fatto un dettagliato resoconto.
Erano una decina, in un piccolo bar poco illuminato e defilato nei pressi degli istituti universitari, e parlavano fitto fitto di qualche cosa come 'Ma-Ma-Ma-ismo', e  qualcuno aveva spiegato che il primo Ma  voleva dire "Marx", il secondo "Marcuse" e il terzo Mao, e poi avevano incasellato tutto l'universo, e stabilito che bisognava cominciare a forzare le fondamenta di un sistema corrotto e corruttore, che il PCI era  schiavizzato dall'URSS e poco aperto alle scienze umane e troppo "prude" con il sesso. Datemi una leva, chiedeva Aristotele, e vi solleverò il mondo. Eccoti la leva, rispondeva il nostro tempo: ed era il sesso. Certo non erano tutti d'accordo perché qualcuno si sentiva ancora cattolico e oscillava fra Dio e i nuovi demòni, dubitando di quelle recenti idee che circolavano in Francia, in Germania e in alcuni campus americani, però si cominciava a trovare un comune denominatore, come la lotta alla scuola meritocratica che poi voleva dire borghese, e alla famiglia altrettanto borghese che castrava i figli per la loro felicità. Da lì si doveva cominciare, come faceva Alice che già da un anno la dava a tutti quelli che gliela chiedevano, e adesso la dava anche al genietto cattolico che le portava da leggere i Padri della Chiesa e Maritain e Bernanos. L'altra sera Alice le aveva chiesto di restar fuori fino alle undici, alla Paoletta, e quando lei alla fine era tornata aveva incontrato sulle scale il genietto che fischiettva con aria ispirata zigzagando destra-sinistra sui gradini saltati a tre  a tre. "E' uno Scorpione, dunque un mistico che naturalmente ha anche una forte componente erotica. Peccato che Alice sia Leone, perché sono due segni che si attraggono ma poi non sanno stare insieme senza litigare".
        
                               

*****

        
Si è fatto tardi, per fortuna, è quasi ora di cena e la nuvolaglia in tre tonalità di grigio che veleggia verso ovest promettendo di spegnere l'afa  mi dà una scusa per tornare in collegio. Paoletta non fa una piega, per oggi gli argomenti, pardon le notizie, sembrano esaurite, almeno con me, e così se ne va tutta allegra progettando di rivederci presto. Ma io a cena, anche se c'è la pizza fatta in casa, cioè fatta dalle suore, che di solito mi piace tantissimo a cominciare dal profumo di pane origano e pomodoro, che si diffonde fino all'atrio, invece del solito odore dolciastro di minestra, non ho voglia di toccare cibo e ignoro gli sguardi di Milena e quelli di Sara che stasera mi fissa anche se di solito non si accorge di niente che non sia lo studio o i suoi progetti di scrittura creativa. Così salgo in stanza dicendo che mi sento poco bene, no no!, non ho bisogno di niente, solo di chiudere un poco gli occhi, in realtà mi sento un verme decerebrato che ha vissuto sempre sotto terra, e spero assurdamente che mi chiami al telefono Stefano (ma lui naturalmente non mi chiama) o Federica, che chissà dov'è e se c'è ancora, o Alessandra, o la mamma che una volta alla settimana telefona in collegio per sapere come sta la sua bambina, o perfino la nonna che quando riparto da Venezia mi mette sempre in valigia un nuovo capo di vestiario cucito da lei ispirandosi ai figurini di moda anche se poi di moda non risulta e mi fa apparire d'altri tempi come ha rilevato la Paoletta, a cui anche di queste cose non sfugge nulla.
Invece stasera non si fa vivo proprio nessuno, e comunque capisco che non è nessuno di loro che vorrei, sono tutti dei sostituti di quel papà slavo che non mi ha voluto e non avrò mai più. Mai più mai più mai più. Un'eternità negativa mi si apre davanti ed ecco che, finalmente, due lacrimoni mi scivolano giù per le guance,  ho l'occasione per sentirmi vittima della sorte e piangermi un po' addosso - ebbene sì, è poco coraggioso ma così liberante piangersi addosso - e lasciar uscire con le lacrime d'acqua e sale la rabbia e la mediocrità che questo pomeriggio mi ha lasciato addosso.

*****
        
        
"Pesca?", chiede il professore. So bene cosa significa la curiosa domanda in un contesto di esami, ma sentirmela porre così direttamente mi fa sussultare. L'alternativa alla pesca del bigliettino giallo, con cinque domande scritte  a mano in un corsivo elegante, adagiato coi suoi compagni in un largo vassoio di silver che da lontano sembra  pieno di caramelle Ambrosoli, è affrontare l'esame con le domande inventate lì per lì e quindi con tutti gli imprevisti, compreso un sempre possibile cambio d'umore del  prof che è appunto un umorale, o un intervento dell'assistente che per far notare la sua competenza potrebbe buttar fuori una domanda cattiva su un paragrafo marginale di quelli che non avevo sottolineato con nessun pennarello, e dunque contempla anche la possibilità di un dodici sul libretto. Con le domande già scritte sul bigliettino è diverso. Peschi, leggi le domande, e se le sai accetti il colloquio, altrimenti te ne vai e puoi tornare la sessione dopo, quando il professore non se ne ricorderà neanche più, o addirittura alla sessione estiva di Bressanone, dove si va per flirtare e recuperare esami, senza che nessuno abbia da obiettare niente. C'è chi si ritira solo perché la sua preparazione sulle cinque domande non è da trenta ma solo da ventisei. Io Storia Romana l'ho studiata in fretta e male, quest'anno non riesco ad appassionarmi nemmeno ai Gracchi che quand'ero al ginnasio mi parevano gli antenati dei sindacalisti, come l'omerico Tersite del resto, che a me era simpatico più degli eroi aristocratici che lo picchiavano e sbeffeggiavano perché era povero e brutto. Tantomeno alla vita romana dell'epoca imperiale come ce la racconta Svetonio o il Carcopino. Quest'anno avrei fatto volentieri un corso sull'amore (platonico e non ricambiato), sui dolori dell'amicizia o perfino sul lesbismo, magari cominciando da  Saffo.
Però ho già dato tre esami, Storia della Filosofia e due complementari: una lode e due trenta del tutto inaspettati, perciò mi sento (almeno in questo) sotto una buona stella, anche se la Paoletta ha predetto che quest'anno avrò delle delusioni. Pesco, dunque. La pesca non è di qualità, a quattro domande posso rispondere qualcosa, insomma cavarmela sia pure alla meno peggio, all'ultima chissà se ci arriviamo, non ci si arriva quasi mai, la risposta non la so proprio ma decido di rischiare. Ho bisogno di un'estate libera da date, epigrafi e pandette. Sfodero perciò un sorriso raggiante (sorridi sempre, mi consiglia la mamma,  hai un bel sorriso) e dico che resto. Il professore prende in mano il bigliettino, lo legge con tale attenzione che sembra quasi che non lo abbia preparato lui, e consegna il mio libretto all'assistente, la quale comincia subito diligentemente a compilarlo scrivendo con la stilografica a inchiostro blu la materia d'esame e la data. A questo punto già mi preparo a rispondere alla prima domanda su Pompeo che se ne va in giro per i mari a snidare pirati dai loro covi (i pirati, specie quelli della Malesia, mi sono sempre stati simpatici), a cui penso già di aggiungere le altre imprese del tipo, quelle che a quarant'anni facevano piangere d'invidia Giulio Cesare ai piedi della statua del rivale, quando il prof, chissà poi perché,  decide di attaccare dalla fine, e io mi accorgo che la testa comincia a vorticare in cerca di parole e che se non fossi seduta sentirei sprofondare il pavimento come se fosse fatto di quelle sabbie mobili con cui il mio patrigno si divertiva a terrorizzarmi rievocando i suoi trascorsi di marinaio. Intanto sento il volto diventare in tinta coi capelli e farfuglio cercando di scivolare fuori tema, ma lui mi ci riporta implacabilmente e così smetto di dibattermi e mi chiudo nel silenzio. Sconfitta. Arresa. Finita. Morta.
Il professore, che dopotutto è un brav'uomo, si agita un po' anche lui, cerca di instradarmi, ma della differenza fra le province senatoriali e quelle imperiali (domandina facilissima, se solo non avessi saltato il paragrafo) proprio non so dire una parola. Allora mi guarda con curiosità e alla fine mi chiede perché mai sono rimasta. Perché perché, come faccio a dirti perché speravo che non saremmo arrivati all'ultima domanda e tu vai a cominciare proprio da lì, come faccio a spiegare e giustificarmi se tutti, tu, l'assistente, i ragazzi che sono entrati a sentire il mio capolavoro di esame  (compreso Salvio che è venuto per farmi coraggio) siete lì a guardarmi come se fossi Niobe impietrita dalla disperazione e a cercar soluzioni  che non ci sono perché la regola è chiara: se non si sa una domanda niente promozione.
"Allora mi ritiro", balbetto alzandomi.
"Ma ormai, replica lui, abbiamo scritto la data sul libretto (e scusa, non potresti proprio cancellarla, metterci su un timbro, che so, una dicitura  tipo scritto per errore, insomma caro mio non hai né fantasia né potere!) e siamo costretti a scrivere, se non un voto, almeno un Ritiro...".
Così ecco fatto, al quarto esame il libretto è già sporcato, altro che quello dei genietti che definiscono il loro "sverginato"  al primo ventinove, io mi porterò l'onta per quattro anni quattro, a ogni esame tutti la scopriranno, mi chiederanno come mai oppure non chiederanno niente ma si metteranno in sospetto, e nessuno mi considererà un genietto ma solo un'inaffidabile che arranca, e le vacanze che sognavo con Stefano saranno inquinate dalle beghe fra Mario e Silla, e se poi anche a ottobre non ce la farò dovrò rinunciare all'università, non perché a casa m'imporranno questa rinuncia ma perché non potrò sopportare l'onta di due bocciature.
Intanto quello mi restituisce il libretto ancora aperto e con l'inchiostro fresco, l'ignominioso Ritiro è scritto in stampatello in modo che non sfugga neanche all'occhio più presbite, poi mi saluta con qualche parola che non afferro ma che forse vuol essere di consolazione o d'incoraggiamento, e adesso il pavimento sprofonda davvero mentre passo fra i banchi disposti in fondo alll'Istituto e Salvio si alza a precipizio  e mi sostiene per il gomito e mi porta fuori ma anche lui non capisce perché diavolo ero rimasta. Un'amnesia? Cosa ti è successo? O ti sei sentita male? Ecco qua che cosa potevo dire, mi sento male, così mi avrebbero fatto uscire per mezz'ora e intanto mi sarei potuta studiare la risposta, oppure mi avrebbero cambiato il biglietto e forse stavolta sarei stata più fortunata... Ma tanto ormai non conta, tutto è fatto, è compiuto, mi sento la peggiore di tutte, perfino la Paoletta si è beccata un ventitré, e adesso come farò a dirlo alla mamma che per mandarmi al liceo e all'università  si è sposata per convenienza, e a Stefano che magari non mi ama ma finora mi stimava, e all'Alessandra che lei di sicuro non si sarebbe fatta incastrare... Ecco, sì, mi resta Milena, e difatti eccola qui fuori che m'aspetta e so che capisce tutto e che mi stima lo stesso, o dovrei dire mi ama ancora. Perché per lei non sono la peggiore, sono sempre la più perfetta di tutte.
Io però, con una cattiveria che non si merita, le dico: "Ci vediamo stasera", ed esco con Salvio al quale non par vero e mi guida subito in un bar dove mi rifornisce di aperitivo e sigaretta e intanto mi stringe un po' a sé - ma possibile che pensi solo a quello? - e poi mi propone di andare a prendere un po' d'aria in campagna. Non ho la forza di replicare, così saliamo su un autobus che arriva in periferia ma sembra lo stesso campagna, c'è un fiume abbastanza largo che scorre lentissimo e giallastro e sulle rive ha cespugli polverosi che nascondono piccole radure, e anfratti dove si può piangere in pace. Salvio però non vuole che pianga, mi asciuga gli occhi, stende per terra un giornale che mi irrita (cosa cavolo ha, paura di sporcarsi?), poi dice cosa vuoi che sia, una volta succede a tutti e con originalità tira fuori bocciature di Einstein in Fisica e di D'Annunzio in Italiano, e io avrei voglia di rispondergli ma no! chi lo avrebbe sospettato?, invece sto zitta e assaporo l'odore aspro di menta che ha il potere di distrarmi e mi concentro sul movimento monotono dell'acqua, tre metri più in giù, che a poco a poco mi calma. La pelle  di Salvio ha un buon profumo di lieve sudore maschile misto alla solita colonia di agrumi calabresi, così quando mi bacia non provo affatto schifo ma una sensazione sorprendentemente piacevole, peccato che lui cerchi subito di sbottonarmi la camicetta, perché se il primo bacio è stato un fallimento e il secondo, questo qui, quasi un successo, non vorrei rischiare che il resto, la famosa prima volta, fosse una delusione, perché è la prima volta che conta, non la seconda (come per il mio esame di Storia Romana). E soprattutto vorrei che fosse con Stefano e non con uno che mi consola ma di cui non m'importa niente, e allora anche se mi sto cominciando a rilassare dico che adesso devo andarmene, devo telefonare a casa, mi riallaccio la camicetta, lui ci riprova ma ormai l'occasione è sfumata, ci rialziamo, i vestiti sono stropicciati, il giornale è da buttare, i capelli spettinati, la pelle come quella degli indiani d'America e il cuore, almeno il mio, una poltiglia.


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La corriera, quest'anno la mia vita è costellata di corriere, si arrampica ansimando su per i tornanti e ad ogni curva il conducente suona la tromba  come  quel giorno che sui colli andavo in cerca di Fede, ma non riesce a interrompere il corso poco allegro dei miei pensieri. Sto raggiungendo la famiglia in montagna dopo una settimana a Venezia a leccarmi le ferite con la nonna, la quale ogni giorno mi preparava pietanze sublimi per farmi riprendere peso e colore. E' bravissima, alterna cucina della sua terra toscana, fritti croccanti di verdure e cervella e crostini di milza, con specialità istriane come gli gnocchi di riso e marmellata, non parla tanto ma nel nutrirmi esprime tutto il suo affetto oltre che la creatività. La nonna è un'ex aristocratica, ha fratelli tutti quanti laureati e ha vissuto in case patrizie di città e di campagna, ma dopo il matrimonio il nonno ha avuto dei dissesti e lei si è facilmente riciclata in una vita modesta e perfino esule, quando si sono spostati in Istria e poi dall'Istria a Venezia.
"Il mi' babbo mi diceva sempre di adattarmi, di prendere la vita per il bavero e pensare alla famiglia".
E così ha fatto con forza e senza troppe malinconie. Solo io ero la sua spina, perché il mio, di babbi, mi aveva lasciata anche se - "nella sfortuna c'è sempre una fortuna" - ne avevo poi trovato un altro.
La nonna era adattabile, ma nel cuore restava toscana. Anzi, poiché aveva vissuto a Firenze ma era nata a Pisa, si sentiva pisana e s'irritava quando le leggevo il verso di Dante sulla sua "Pisa, vituperio delle genti".
"Il mi' babbo diceva 'vita e imperio delle genti’, non 'vituperio'. Dev'essere uno sbaglio della tua edizione", sosteneva convinta. Le variazioni sui testi erano una delle sue specialità. Una volta, alle medie, le raccontai  che per tema in classe avevamo dovuto commentare il sentenzioso e filastroccante Metastasio: "Se a ciascun l'interno affanno / si leggesse in fronte scritto / quanti mai che invidia fanno / ci farebbero pietà".
"L'ultimo verso è sbagliato", assicurò lei. Quello vero dice "girerebbero in landò".
"E cosa diavolo è?".
"Una carrozza, diamine! Ma cosa ti insegnano a scuola?".
"E perché in landò?".
"Per la vergogna, perché l'espressione non rivelasse il loro stato d'animo!".
Scuoteva la testa, e io rimanevo allocchita.
Anche sui cibi conosceva proverbi, frasi fatte, consigli per gli acquisti e per l'uso sociale: spesso misteriosi.
"Al contadino - recitava - non far sapere / quanto sian  buoni formaggio e pere".
Fin qui chiaro, anche se reazionario. Dicendoglielo, avrebbero fatto fuori tutte le riserve in magazzino. Il seguito però lo era molto meno:
"Ma fa' sapere al mondo tutto / quanto sian buoni fichi e prosciutto".
Uno sprazzo di generosità sociale per una sorta di comunione gastronomica? Un'annata ricca di suini? Un doppio senso volgarotto? La nonna non lo sapeva e non le importava, ma i fichi ancora caldi d'orto abbinati con prosciutto crudo erano uno dei miei antipasti preferiti e lei me li serviva volentieri, accontentandosi per sé di un caffelatte.
"Perché non ti godi un po' Venezia, prima che arrivi l'orda dei turisti?".
Vorrei farlo, Venezia è lì che attende da me di essere esplorata e penetrata e non solo sfiorata con lo sguardo, ma non è ancora tempo, anche se sono passati quasi quindici anni da quando ci sono approdata. E' ancora il simbolo del mio esilio, della mia prima sconfitta. Avevo i vestiti ben rattoppati - inserti scozzesi o a fiorellini su fondo unito, che oggi sarebbero roba da boutique  - e una casetta con poche sedie e pochi tavoli dove non potevo ancora invitare a far le lezioni nessuno dei miei compagni, anche se la mamma e la nonna si davano un gran daffare a confezionare vaporose tendine di sangallo e cuscini colorati, e perfino a tessere, nelle sere invernali, policromi tappeti "persiani". E il nuovo papà nelle ore libere da un lavoro che aveva trovato all'Arsenale ricopiava da un vecchio libro di navigazione vedute di marosi con le creste di schiuma e galeoni corsari dalle vele concave, poi le colorava con gli acquarelli e le lasciava asciugare nell'orto, contornandole alla fine con cornici dorate di sua fabbricazione. Insomma la casa sembrava un cantiere, ma a poco a poco prendeva vivacità  e colore. Però sentivo che non bastava ancora e non perché le case degli altri fossero tanto più belle, in quel dopoguerra povero in cui solo i pescecani potevano sfoggiare ricchezza di cattivo gusto; ma perché noi eravamo i profughi, "poveri lamentosi e pretenziosi" e probabilmente, anche qui, "fascisti", mentre i veri fascisti veneziani si erano rapidamente mascherati o riciclati, se non da comunisti almeno da cristiani, cioè da democristiani, e tutti i grandi  avevano fatto almeno un po' di Resistenza, magari solo una telefonata per avvertire che c'era una retata in corso, o avevano invitato a cena un ebreo che poi nei racconti diventava averlo nascosto a rischio della vita, comunque tutti avevano fatto qualcosa per costruire la nuova Italia, e se erano stati monarchici dopo il referendum avevano cambiato casacca anche se, nel chiuso delle case, alcuni a volte canticchiavano ancora che "sul cappello che noi portiamo / ci sta lo stemma di casa Savoia", e questo a dire la verità lo faceva anche la nonna che di cappelli militari non ne aveva ovviamente portati mai ma aveva il culto della Regina, "la mi' regina", della quale portava pure il nome, e tanto bastava a farla sentire monarchica a vita.
Dunque Venezia era la mia disfatta ribelle, era la disfatta rassegnata di mia madre, e forse per questo, come in un film, quel giorno che per la prima volta ci era apparsa dal mare dopo che la nave aveva gincanato fra isolotti grigioverdi, aveva voluto apparirci imbronciata e piovosa, inquietante come un destino presago di ulteriori sconfitte. La Giudecca, e il Lido dove d'estate affittavamo una capanna sulla spiaggia meno elegante, erano un'altra cosa, è vero: le stradine bordate di siepi d'alloro e profumate di caprifoglio e le villette liberty erano abbastanza simili a quelle della  nostra  cittadina  istriana, che del resto anche nella sua parte vecia  assomigliava un po' a Venezia, una Venezia ricostruita a memoria da emigranti che ne avevano ricordato soprattutto i campanili e le calli senza sole. Alla  scuoletta delle suore mi avevano accettata con simpatia, forse perché ero così piccola o perché anche i nemici devono essere accettati in nome di Gesù. Erano suore buone, quelle . E la corta calle dove abitavo, aperta  su un campiello, si riempiva dei nostri strilli e giochi, miei e dei piccoli vicini di casa. "Guardie e ladri" dove non volevo mai fare la guardia, ruolo scelto di solito dai ragazzini più antipatici, o "Palla prigioniera" o "Campanon" erano palestre di astuzia infantile, gare di abilità, prove di alleanze. Giochi che non richiedevano giocattoli salvo una vecchia palla, un fazzoletto che serviva da bandiera, qualche pietruzza piatta e tanta voglia di giocare, e i maschietti cominciavano a farci la corte e inventare canzoncine su di me e le mie amichette, e d'estate si andava tutti insieme alla spiaggia, senza grandi  fra i piedi, così si poteva tuffarsi di testa dalla diga anche solo un'oretta dopo aver mangiato e non dopo tre come quando c'era la mamma, e poi arrivava col vaporetto delle cinque la nonna a portarci la merenda di pane, burro e acciughe, oppure i fichi tiepidi di sole e con la goccia di miele dolcissimo, o le prugne profumate ancora di albero. L'albicocco invece non faceva mai frutti, ma nessuno lo sradicava, faceva anche lui un po' di ombra e quindi aveva una sua funzione nella vita dell'orto e nella nostra.
Ma allora era allora e adesso è adesso, non mi bastano più le merende e i vestiti ormai senza toppe che mi fa la nonna, anche se mi danno ancora conforto, adesso ho bisogno di Stefano e Stefano va in montagna e io lo inseguo anche se faccio finta che sia una combinazione. E lui fa finta di crederci. Così quest'anno non andrò in spiaggia o sui murazzi e neppure tornerò nella vecchia valle della California da dove tutti i giovani sono emigrati perché lì non si poteva più vivere, come noi eravamo emigrati perché neppure laggiù in Istria si poteva più vivere. E forse come tutti quanti noi umani che ci sentiamo immigrati in un mondo dove non sappiamo bene se siamo vivi o no.
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A ogni fermata un nuovo paese e ogni paese è più montanaro di quello che lo precede. Fra l'uno e l'altro traversiamo vallette strette e buie, con alture spelacchiate ai due lati e nel fondo un torrente  bianco e azzurro che ballonzola fra i sassi, dominato da una grande centrale idroelettrica. Fa già fresco, il sudore leggero della pianura mi si rapprende sulla pelle mentre imbocchiamo una valle più verde bordata di case di legno, e alla fine svoltiamo a sinistra, dove la strada s'inoltra fra praterie  apparentemente senza fine, ma non è vero perché la fine sono le vette che appaiono all'improvviso fiammeggianti  già del rosso carico della sera. Rosso di sera bel tempo si spera, dice la nonna che è un'arca di proverbi, e anch'io ricomincio a sperare. Il nodo di angoscia si scioglie, sono a casa, una delle mie tante piccole, provvisorie case.


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Odore di mamma, finalmente: un odore pulito di sapone di Marsiglia ma caldo e forte, come quando mi prendeva "sotto le ali" nel lettone, appena il papà usciva di casa. La mamma non ama far da mangiare come la nonna, ma stavolta mi ha preparato una cena a base di frittelle salate e dolci, e poi jota e altre leccornie che mi consolano per l'esame andato male. "Meglio un asino vivo che un dottore morto", sentenzia, "e poi perché asino? L'esame lo ridarai e andrà benissimo, ne sono sicura", e giù anche lei con gli esempi di Einstein e D'Annunzio che staranno tirando calci nella tomba ad essere nominati per motivi irrilevanti, o forse infondati. Prima di metterci a tavola mi consegna una cartolina di Salvio, già arrivata prima di me. Sento un moto di tenerezza, di commozione quasi e insieme di leggera insofferenza, per un attimo penso a lui ma è appunto un attimo, la domanda mi brucia sulla lingua e non riesco a trattenerla: "E' passato nessuno qui a cercarmi?".
"No, chi doveva venire?".
"Beh,  un amico, ma probabilmente non è ancora arrivato, verrà su nei prossimi giorni".
Invece lo so che è partito già tre giorni fa. Non ha fretta di incontrarmi, come al solito. Adesso sento il consueto moto di delusione (ahi le previsioni della Paoletta!), anche se dovevo aspettarmelo, perché Stefano non cambierà mai, nessuno cambia mai. O se cambia, cambia in peggio.
La mia cameretta è sotto i tetti, no, non proprio una mansarda, ma ha il soffitto spiovente, una stufa di maiolica bianca e blu e una finestrella che dà su un prato in salita, che anche lui sembra arrampicarsi verso l'infinito. E' meglio che non si vedano le montagne che chiudono l'orizzonte comunicando un senso di limite, di oppressione di cui non sento proprio bisogno. Anche se erano così nitide stasera da sembrare ritagliate dai cartoncini colorati dei bambini. Il prato è largo, dà l'idea del possibile. La mamma è di nuovo qui con me, disfiamo insieme la valigia e appendo nell'armadio i tre vestiti nuovi - di cinz, di piquet e di rasatello - che mi ha fatto la nonna, i blue jeans, i maglioni multicolori, il kilt, i calzoncini corti, le pedule e la giacca a vento. Sotto la finestra, c'è un tavolinetto di abete dove allineo i libri di storia, tre romanzi, Jane Eyre, Orgoglio e pregiudizio, Tess dei D'Ubervilles, il teatro di Ibsen e di Cechov, oltre che  L'Antologia di Spoon River, le poesie di Neruda e perfino Siddharta, che quest'anno tutti leggono davvero, dopo aver finto di leggere Proust. Ma i classici consolano sempre, anche se certo Alessandra avrebbe fatto scelte meno scontate.
Da sotto, arriva la voce del papà che ci chiama a tavola. Ha preparato con le sue mani il budino di cioccolata - mi sa che stasera ingrasserò tre chili -, in onor mio, ma per lui ogni occasione è buona per preparare dolci di cui è golosissimo, mentre nella pentola si cuociono lentamente, esalando il loro profumo selvatico, i funghi porcini che ha raccolto nel bosco e che mangeremo domani.
Ha una vera passione per i funghi, e le sue gite sono lunghi andirivieni su e giù per le montagne, gite utilitarie ma senza meta geografica. Io invece ho bisogno di mete. Un rifugio, la cima di un monte, un esame da superare, Stefano, anche se so che non le raggiungerò tutte e specie l'ultima. Non mi piace raccogliere e conservare ("Vuol dire che sei una mutante", commentava Federica), come non mi piace cercare, riordinare, mettere a posto le cose anche se detesto il disordine apparente ("Vuol dire che hai paura del tuo disordine interiore", psicanalizzava Alessandra) e Milena si arrabbiava: "Ma perché volete sempre interpretarla? Marina è Marina, è fatta così perché è fatta così, come ha gli occhi verdi e i capelli rossi. C'è un motivo oltre il suo Dna?".
Sento nostalgia di Milena, di Federica, di Alessandra,  perfino di Sara e Paoletta, stasera ho le lacrime in tasca, ma la cucina, da basso, è calda, la cena sa d'infanzia, la mamma per una volta non sembra malinconica, il papà dopotutto è lui il mio vero papà, non quell'altro che non ci ha voluto e ci ha lasciato partire per l'esilio, perché eravamo italiane e dunque fasciste.
Il sonno già lo sento arrivare, con la stanchezza delle emozioni dei giorni scorsi. Dalla finestra senza imposte, una luna porosa e spugnosa ascende grigia nel cielo viola. Domani è un altro giorno, penso come Rossella O' Hara, ho due mesi davanti da vivere nello stesso paese dove c'è Stefano, dove c'è la mamma, dove il prato apparentemente senza fine potrò risalirlo fino a intravedere un nuovo orizzonte. Un piumino candido mi avvolge in un calore confortante, non spietato come quello della città universitaria, del collegio delle suore, non malato e perfino funebre come quello di Venezia. Sono già nel dormiveglia quando ancora una volta sale la mamma per darmi la buona notte. Sto ancora sognando quando, la mattina dopo, arriva di nuovo a riempirmi la stanza di aroma di caffè forte, di uovo a bere tiepido, di fette di pan tostato croccante su cui si scioglie il burro salato di malga. E' dolce, mia madre, quando non è disperata, quando non è matta, quando non è nostalgica di un uomo che non sarà più suo, che non è mai stato suo, ma che le ha lasciato me.



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Indosso i jeans e una camicetta a quadrettini bianchi e blu, calzo scarpe da ginnastica immacolate, finalmente della mia misura, ed esco, ufficialmente in esplorazione dei dintorni, in realtà nella speranza di incontrare "per caso" Stefano. Il sole già scotta sulla pelle chiara incremata a dovere e le rocce lontane, color piombo, non più vermiglie come ieri sera, disegnano nettissima la linea della vegetazione: fino a 1800 metri, terra verde, più su, pietra nuda. Non sgarrano di un centimetro. Le case candide del villaggio mandano lampi di luce come i sassi piatti delle stradine non asfaltate. Dal forno della cooperativa esce un sano odore di pane caldo. Il torrente si divide e si riunisce scendendo a precipizio dal prato senza fine. Mi avventuro in direzione opposta, verso la strada asfaltata da cui ero arrivata e che congiungeva i paesini della valle biforcandosi in due rami diretti ad altrettanti valichi. I passanti salutano con un cordiale "buon giorno" che in città sarebbe impensabile fra sconosciuti. Rispondo a tutti e sorrido, cammino e mi guardo intorno, respiro odore acuto di resina e umido di segherie e dolciastro di fieno appena tagliato. Non mi ricordavo più di quanto mi piacessero questi odori: quasi come quelli dell'Istria. Per un po' riesco a sentir vibrare ogni fibra del mio corpo che è un corpo che sta bene, che torna a funzionare e a sentirsi vivo. Tiro calci ai sassi e faccio giochetti mentali scemi: se questo sasso andrà a bocciare quell'altro più grosso che s'intravede laggiù, vuol dire che Stefano mi ama. Bang, il sasso colpisce quello vicino al bersaglio, non ho mai avuto buona mira. Provo con un altro. Stavolta è in palio l'esame di Storia, prendo la mira con cura: centro. Almeno questo. Mi sento più leggera, mi guardo intorno. In una radura circondata di faggi e abeti vedo emergere una villetta con un'insegna dove sta scritto "Al Rododendro". Dev'essere un bar, ci sono tanti ragazzi e ragazze seduti su panche all'aperto. Più in là, fra gli alberi, un altro gruppo, molto numeroso, saranno forse una ventina, attira la mia attenzione e senza parere m'inoltro nel sentiero che mi porta vicino a loro. Sono tipi fuori del comune, sembrano quasi usciti da una foto di gruppo del secolo scorso. Calzano pesanti scarponi chiodati, assurdi per quella radura lungo la strada, indossano camicie scozzesi di flanella e per terra hanno deposto zaini affardellati. Forse tornano da una gita. Qualcuno mastica un panino, qualcun altro intona una canzone e a poco a poco tutti si uniscono al coro. Mi vien voglia di fermarmi con loro, sono rustici e belli, non ho il coraggio di abbordarli, ma un ragazzo alto alto (poi scoprirò che infatti viene chiamato Giorgio Lungo) m’invita inaspettatamente: "Vuoi cantare con noi?". Arrossisco, esito, poi annuisco, e subito mi sento osservata con una specie di affetto, come se mi avessero sempre aspettata. Ma anche con curiosità, come fossi un'aliena. Mi accorgo che molti sono in coppia, coppie giovanissme che esprimono l'amore castamente, braccio sulla spalla, testa di lei appoggiata al torace di lui, qualche bacio sulla guancia, i cattolici baci-non-baci. Ma Giorgio Lungo è libero e si dedica a me con un'attenzione  di cui ho bisogno anche se è un altro quello che sto cercando. Vengono qui tutti gli anni, mi dicono, sono studenti - Giorgio Lungo studia astronomia -, fanno gite ed escursioni e comunque viaggiano sempre con scarponi e zaini, anche quando, come adesso, fanno solo giretti per i boschi, a fragole e lamponi. Non sembrano intellettuali come i miei compagni di facoltà, o mondani  come i "Bellissimi". Sono molto nature. Scoprirò che gli altri ragazzi villeggianti li chiamano "i Lupi". Mi piace.  Per una mattinata dimentico Stefano e mi integro coi Lupi. Com'è riposante!



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Lo incontro nel pomeriggio, nella piazza al centro del paese dove il municipio è dedicato "al Sacro Cuore della Beata Vergine Maria". Capisco perché siamo un popolo di santi, ma io, che mi escludo anche come possibile poeta, mi sento piuttosto una navigatrice coatta, un'apolide, una senza patria segnata dall'esilio e condannata a scontare le colpe dei padri in un errare inquieto e senza fine.
Mi fa le feste, finge sorpresa, dice naturalmente che ci rivedremo presto, se non altro per festeggiare il mio compleanno (dunque se ne ricorda! il cuore batte un colpo in meno), ma poi scappa via subito, ha un impegno (anche qui in vacanza?) e come al solito mi lascia interdetta, insicura. E' un fantasma che appare e scompare. Quando appare, è il genio buono di Aladino, vuol sapere cosa desidero per darmelo. Ma poi una forza maligna me lo sottrae e non ho lampade da sfregare per farlo ricomparire. Per fortuna ho diciannove anni che sto per compiere, per fortuna ritrovo i Lupi che mi portano a cantare in un fienile. Non è il massimo, ma a poco a poco il coro polifonico di voci bianche e voci baritonali mi trasporta altrove, e penso che domani andremo in gita, e ci sarà Giorgio Lungo, e sono naturalmente invitata, e nessuna  forza maligna distruggerà i miei programmi.


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I Lupi, oltre che con benevola curiosità, mi trattano con rispetto, come se appartenessi a una razza o classe superiore, forse perché sono sempre ben vestita nonostante i miei abiti fatti in casa. Camminiamo molto, cantiamo moltissimo, ci arrostiamo al sole sulle panche dei rifugi, mangiamo panini col salame e beviamo, dalle borracce, acqua gelata di torrente. Quando scendiamo al paese, al tramonto, sembriamo un plotone di alpini di ritorno da un'esercitazione. La mamma mi guarda perplessa, ma vedendomi serena non obietta niente. Una volta incontriamo Stefano che con altri ragazzi più simili ai "Bellissimi" che ai Lupi, passeggia nei pressi del "Rododendro". Anche lui mi guarda stupito, poi mi s’avvicina confidenziale, un po' ironico, quasi geloso, e mi dice che per il mio compleanno, cioè fra tre giorni, stanno organizzando una festa proprio lì, e allora io mi libero subito, mentalmente e verbalmente, da tutti gli impegni possibili, con la famiglia, coi Lupi, compresa una gita in Marmolada che avrei fatto volentieri. E prometto che ci sarò, certo che ci sarò. Giorgio Lungo ha spiato l'incontro stando in disparte e resta un po' rannuvolato, ma non dice niente, solo raccoglie il mio zaino posato a terra e se lo carica in spalla, insieme al suo. E' uno di quei gesti che equivalgono alle parole, anzi dicono molto più delle parole. Aspetta che Stefano mi abbia congedato (è sempre lui che mi congeda) e mi accompagna a casa. Mi sembra che si siano scambiati uno sguardo, loro due, inquieto quello di Giorgio, sfuggente ma indagatore, come sempre, quello di Stefano.


                                              
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Tre giorni senza tempo di prati senza fine, di mucche che scampanano stonate, di corvi che volteggiano a cerchi concentrici, di polenta gialla fumante nei rifugi. Le coppie dei Lupi sono caste ma strettissime. Giusi ha diciotto anni, solo uno meno di me, ha occhi azzurro-ghiaccio e assomiglia alla protagonista svedese del film "Ha ballato una sola estate". Un film che avevo visto al Cineforum con Milena, e poi ne avevamo discusso per le scene di sesso e innocente nudità, che ai "fucini" però erano sembrate peccaminose o disgustose. Chissà se Giusi e Franco, che si vedono solo d'estate perché lui sta a Venezia e lei a Roma, qualche volta si appartano ad amoreggiare o se il loro sentimento si esaurisce nelle carezze leggere e nei piccoli baci-baci che si scambiano nei rifugi, quando lei si sdraia sui panconi di legno con la testa sulle ginocchia di lui e io li invidio perché loro sono comunque in due e io invece sono sola. Franco ha il volto butterato dall'acne, ma i lineamenti sono belli, e l'incantato sperdimento con cui guarda Giusi e lei guarda lui è lo stesso che proverei per Stefano se Stefano non fosse sempre in cerca di quello che non ha. Come me.
Ogni tanto Giorgio Lungo parte da solo in esplorazione, o si lascia scivolare giù dai ghiaioni in discesa fulminea, fra rotolii di pietre sporche. Poi aspetta, forse aspetta me che faccio la frivola e gli chiedo con finto rammarico perché mi ha abbandonata. Lui arrossisce sulle orecchie e sulla punta del naso già bruciata dal sole e unta di crema Nivea, e dice non credevo che t'importasse, ma da allora mi sta sempre vicino, mi porge la mano per attraversare i torrenti e i crepacci, e nelle soste mi appoggia leggermente - molto leggermente - il braccio sulla spalla, in segno di protezione più che di possesso (come invece farebbe Salvio). Gli altri ci guardano compiaciuti come si guarda a un innamoramento nascente. Ma io, solo io, so che non è così. Che vorrei, davvero vorrei essere come loro e non sempre divisa fra ciò che ho e ciò che mi piacerebbe avere: proprio come Stefano, sì, siamo fatti della stessa pasta, forse per questo ci cerchiamo ma non ci troviamo mai. In corsa l'uno davanti all'altra senza possibilità d’incontro. Intanto però mi dichiaro impegnata per la sera del mio compleanno, perché "era un impegno preso già prima di conoscervi" e dunque non posso mancare. Giorgio sa che non è vero ma non mi smentisce. Sta sempre dalla mia parte, lui. "Il giorno dopo comunque si va tutti in Marmolada", dice perentorio e io annuisco, tanto lo so che loro ci andranno comunque e che Stefano comunque sparirà dopo la sera della festa.


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Compio finalmente diciannove anni, fra poco non sarò più matricola e già mi sento vecchia. La mamma mi regala, anche a nome del papà che non sa mai prendere l'iniziativa da solo, una bellissima gonna (scozzese!, però diversa dalle altre, in vari toni di azzurro e verde) e una giacchetta di daino tinto di blu, un regalo che lui aveva fatto a lei e lei con tenerezza ha girato a me. Stasera li indosserò, insieme a una maglietta turchese. Senza i Lupi posso permettermi di essere elegante e "cittadina". Con loro mi censuro. Un poco però li rimpiango, rimpiango soprattutto Giorgio che la sera  studia le stelle e me ne racconta le storie, mentre temo l'ambiguità di Stefano. A sera, al "Rododendro", sono in dieci ad aspettarmi, fra ragazzi e ragazze. Non conosco tutti, Stefano fa l'anfitrione e pare proprio, agli estranei almeno deve sembrare così, che sia il mio ragazzo. Mi adatto al gioco con una felicità che non provavo da tanto. Balliamo stretti (relativamente) al suono dei Platters, quasi sempre noi due, finché arriva l'ora della torta dove sta scritto in caratteri corsivi e con svolazzi vari "W Marina", e tutti battono le mani e intonano i canti di rito, compreso il "Perché è una brava ragazza, / nessuno lo può negar", proprio a me che sono arcistufa di esserlo ma sorrido lo stesso, sorrido a tutti di quel sorriso "senza perché" tipico delle donne. Sorrido perché so che mi fa più bella, perché fingo di essere allegra e che tutto mi sorrida, perché tutti rifuggono da chi è triste tranne pochissimi come Milena e Federica, e perché Stefano è qui con me. Anche se poi non riesce a trattenersi ed esclama: "W Marina e tutte le ragazze che compiono diciannove anni in questi giorni!". Oddio, come avevo fatto a dimenticarlo? Festeggiando me, per procura festeggia Alessandra. Come al solito irraggiungibile mentre io, come al solito, sono una piccola, insignificante vicaria.


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Arrivano tre lettere in contemporanea, troppa grazia Sant'Antonio, forse qui nelle valli la Posta aspetta di far numero per mobilitare i postini. Da Salvio, da Milena, da Alessandra. Niente da Federica, a cui pure ho spedito il numero telefonico di questa casa di villeggiatura, ma chissà se la mia lettera sarà riuscita a raggiungerla. Ne dubito molto. Leggo per prima la lettera di Alessandra che mi fa gli auguri e descrive la sua estate in termini come sempre cromatici e addobbati come un albero di Natale. E' al mare di Ponza (azzurrissimo, traslucido, metafisico) per riposarsi da un lungo viaggio (stimolante) di cui descrive dettagli, persone e cose. Poi mi coinvolge in squarci visivi della Parigi degli artisti dove ha passato un altro mese, dei castelli (magici) della Loira e delle scogliere (drammatiche) della Normandia. Accenna appena alle mie, di vacanze, e alla possibilità che io abbia incontrato Stefano ("che è lì anche lui, no?"), così facendomi capire che si scrivono, o per lo meno che lui le ha scritto. Di Federica neppure una parola, come non l'avesse mai conosciuta. Passo alla lettera di Salvio e quasi mi viene da piangere, perché è ingiusto che io non riesca a volergli bene nel modo in cui lui ne vuole a me, così com'è ingiusto che Stefano non ne voglia a me ma ad Alessandra la quale altamente di lui se ne infischia. Non so come gli risponderò, penso prima ancora di aprire la busta, il suo amore m’intenerisce ma non lo voglio illudere, eppure mi sento sempre riscaldata dalle sue parole dirette, non ambivalenti e contorte, così come mi sento riscaldata, ma non mi basta, dalla timida dolcezza di Giorgio Lungo che di lungo ha anche i denti, da buon lupo come si deve, ma non osa baciarmi. Dev'essere perché "i nostri cuori rispondono a stelle / che non vogliono saperne di noi", come scrive Neruda nel libro di versi che sto leggendo la sera. La lettera di Salvio in realtà non è una lettera, ma una cartolina inserita in una busta, che riproduce gli innamorati di Peynet. In basso, solo un "A presto", e la firma. Sono delusa e sollevata insieme.
La lettera di Milena l'ho tenuta per ultima, come faccio con i cioccolatini migliori. La busta è pesante e infatti contiene molti fogli di quaderno a quadretti, fitti fitti di cose e soprattutto di sentimenti e di idee, di cui è invece desolatamente vuota la lettera di Alessandra.
Milena passa le vacanze nella sua casa di campagna dove legge, studia e ascolta dischi, e continua a cercare notizie di Fede. Ha di nuovo parlato con suo padre, che le ha sbattuto giù la cornetta. E meno male che per telefono non si può picchiare né violentare né controllare la verginità con le dita. Una volta però si è imbattuta nella sorella ed è quasi riuscita a strapparle un appuntamento. Si vedranno, se tutto va bene, fra una quindicina di giorni, poi mi farà sapere. Più oltre parla anche di Dio, ormai non crede proprio più che esista, ma è importante lo stesso fare il bene. Le religioni nascono per questo, dice, per consolare gli uomini e per dargli una legge morale, con la promessa del premio e lo spauracchio del castigo eterno, ma una persona pensante sa cos'è il bene, lo sa nella sua coscienza, che ha il primato su ogni legge religiosa, morale e sociale, come dimostra l'"Antigone" di Sofocle che lei sta leggendo e che mi presterà perché la devo leggere subito, appena ritorno. Parla a lungo anche di me, di quanto sente la mia mancanza e di come aspetta con ansia di rivedermi, "per ripassare insieme Storia Romana", dove, è certo, stavolta prenderò almeno un ventisette. Il caldo non la spossa, non ha bisogno, lei, di evadere verso panorami drammatici o bucolici, ama la sua campagna piatta e afosa coi filari di vigneti e pioppi strepitanti e i colli svaporanti  all'orizzonte, e ama perfino le galline, brutte e un po' sciocche ma rassicuranti, che zampettano sull'aia cercando di farsi notare dal gallo, mentre Milena sulla sdraio vive la sua vita parallela. Una vita dove anche lei è bella e amata (da me?) e dove può essere utile a chi ha bisogno di lei. Nella vita vera non le riesce tanto bene, aggiunge. Invece le riesce benissimo, come adesso che mi ha fatto sentire tutta racconsolata e protetta. E chi se ne frega se è lesbica, peccato solo che io non possa rispondere alla sua domanda d'amore. Quasi quasi me ne pento. O meglio, me ne vergogno. Sto per ripiegare i fogli e riporli nella busta quando mi accorgo di un cartoncino rettangolare rimasto nell'involucro. E' quasi come un post scriptum che sembri sperare di non essere notato e letto. "Non tornerò in collegio, il prossimo anno. Suor Benedetta ha trovato nel cassettino della mia scrivania delle pagine di diario che  volevo buttare e poi ho dimenticato. Quando si dice l'inconscio! C'era scritto di Federica e suo padre, e molto di te. Tutto è stato ritenuto sconveniente, immorale, turpe. Solo Suor Margaret mi ha difesa, come mi ha scritto poi, ma non è servito a niente, anzi forse ha peggiorato le cose. In breve mi hanno scacciata, dovrò trovarmi un altro alloggio. Ma ci vedremo comunque, se lo vorrai, se non ti darà fastidio la mia amicizia che, credimi, tutto ti dà e  nulla pretende da te".


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Agosto srotola nei cieli alpini una gonfia trapunta di nuvoloni grigi che rovesciano su prati, boschi, rocce e tetti cascate d'acqua traforate da fulmini e vento. E' un invito a starmene in casa, a riprendere gli studi, a contemplare dalla mia tana le gocce di pioggia che disperatamente si aggrappano agli aghi di pino. Ogni tanto faccio due passi e sotto i piedi mi sembra che tutto il terreno stia smottando, come la mia vita. Anche i Lupi diradano i loro vagabondaggi. Stefano, dopo aver progettato una gita sul monte Civetta, si è di nuovo imboscato. Giorgio Lungo viene a prendermi verso sera per andare con gli altri in qualche baita vicina al paese a "fare una canta". I ragazzi fanno da contrappunto, con le voci basse e roche per il raffreddore, agli assolo di qualche ragazza, come Angela che cantando si trasfigura tutta e  nonostante il naso rosso sembra, in quei momenti, un essere soprannaturale. Giorgio mi guarda fisso quando canto, o mi stringe la mano clandestinamente, e io mi sento più forte  anche se per lui provo solo una tenera amicizia, più tenera che per Salvio, verso il quale la dolcezza si stempera  spesso nella polemica.     
Ma una sera che le nuvole sono in provvisoria ritirata e sono spuntate le stelle, Giorgio me le indica, mentre gli altri cantano, e me le racconta perché sa tutto di loro. Sa che Marte è gelido, senz'acqua ma non senza ghiaccio, e dunque un tempo ci stavano esseri forse simili a noi. E sa che in Venere fa invece un caldo soffocante con effetto serra. E sa che lontano lontano nell'universo, lontano come nelle fiabe, ci sono altre stelle dove forse c'è vita, ma ci metterebbero cent'anni mille anni, i loro abitanti, per mandarci qualche comunicazione, e noi altri cento mille a rispondere. Forse allora è meglio immaginare che i morti, nel loro misterioso pellegrinaggio, riescano in qualche modo ad arrivare lassù, e che il tremolio luminoso degli astri sia il messaggio che ci mandano. Per dirci che si ricordano di noi.
        

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Un bel giorno, comunque, le nuvole si sfoltiscono davvero e Stefano viene a trovarmi, fresco e improvviso come il vento di marzo. Un solicello anemico è spuntato e lui mi propone un giro in bicicletta, per salutarci, annuncia, perché l'indomani deve partire. Sono divisa fra l'emozione per la proposta e la disillusione per l'imprevista partenza, ma decido, in barba alla sentenza cara alla nonna che in amor vince chi fugge, di accettare. Così perdo un'ora a prepararmi,  a scegliere il vestito più bello -  verde acqua come i miei occhi -, ad acconciarmi questi capelli ricci  che, causa l'umidità, proprio non vogliono in nessun modo farsi sistemare. Ho perfino un brufolo giallo sul naso, colpa del salame che consumo coi Lupi in razioni industriali, e cerco di nasconderlo con il resto di fondotinta che mi aveva regalato Alex.
L'appuntamento è per le due e mentre arrivo alla fontana della piazza il cuore fa il salto in lungo. Lui mi appare, come sempre, bellissimo, anche se forse non lo è se non ai miei occhi innamorati. Ma purtroppo non è solo, bensì con due ragazzi che conosco poco e una ragazza sconosciuta che sembra la brutta copia, e pure in formato ridotto, di Alessandra. Presentazioni, lui è cerimonioso, lei si chiama Erika con la  k ed è una studentessa di quassù dove la k abbonda. Fa le magistrali. Lui, in gran forma anche dialettica, sciorina battute rivolto soprattutto a questa Erika che nemmeno mi sforzo di ammettere che esista. Non sopporto più niente, in questo momento, men che meno Stefano più Erika. Ci avviamo per una stradina pianeggiante che dopo due chilometri s'impenna in una brusca salita, poi ritorna piana per precipitare, alla fine, cioè al bordo di un boschetto, in una discesa da montagne russe. A piedi è niente, in bici non mi trattengo più, mi lascio andare in una corsa sfrenata, in senso letterale e cioè senza freni, per sfogare tutta la mia rabbia, la gelosia, il rancore. Qualcuno (Milena? O forse qualche psicologo che per queste banalità si ritiene un talento) dice che bisogna lasciar emergere i sentimenti negativi. Ecco, ci provo. Provo subito un senso di liberazione, infatti: la discesa è inebriante e io ho bisogno di ebbrezza, la strada è sassosa ma la bici avrebbe freni buoni, se li usassi, solo che non li uso, accidenti, e a una piccola curva che appare improvvisa, schizzo fuori strada battendo di brutto la bocca contro una pietra. Sento il sangue colare dolce dal labbro ferito, ma non m'importa. Forse lui si accorgerà di me, finalmente, difatti arriva al galoppo con gli altri, ma nel frattempo la lingua, cercando di asciugare il sangue, s'imbatte in un dente insolitamente ruvido: partito un pezzo di incisivo, lo capisco al volo. Così la mia faccia non sarà più la stessa, il mio sorriso, la cosa migliore che ho, avrà un buco nero, non ci saranno più neppure palliativi amorosi per i miei diciannove anni. Il peggio è che mi sento ridicola, goffa, incapace perfino di andare in bicicletta. Davvero, anche stavolta, la peggiore di tutte. Qualunque disgrazia mi capiti, me la merito.


                                              
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Il dente è stato incapsulato, dopo appena due o tre giorni. Stefano quella sera mi ha accompagnato a casa, piantando in asso la Erika bruttacopia, poi però è partito lo stesso ed è stato Giorgio che mi ha fatto compagnia, che mi ha portato in moto (sì, ha preso a nolo una moto) dal dentista ad Agordo, lui che viene qui tutti i giorni perché mi è salita la febbre e non accenna a scendere. Mia madre e mio padre fanno budini di ogni colore e sapore, guarniti di panna e frutti di bosco. Anche i Lupi mi portano cestini di fragole e mirtilli. Ma l'estate sta finendo. Ingloriosamente.


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Adesso è davvero finita, e anche se il sole è ancora tiepido si sentono già i brividi dell'autunno in arrivo. "Passa la morte e se ne va", dice la nonna quando sono scossa da brividi. E ora sono proprio sicura che qualcosa  sta morendo. Ho il permesso di tornare in collegio finché avrò dato l'esame, evitandomi così il trasloco che odio anche come concetto. Tanto mi piace fuggire viaggiando, ma sapendo di poter tornare, altrettanto detesto traslocare, lasciando per sempre i luoghi dove ho vissuto, infelice e scontenta. Mi dà la nausea controllare le carte, eliminare le cose scadute perché mi dà la nausea che le cose scadano, mi spaventa scavare in cassetti, bauli e armadi riportandone alla luce pezzetti di vita, o piuttosto cadaverini per anni sepolti lì e dimenticati. Meglio lasciar fare agli altri, o trasferire tutto insieme senza controlli fino a quando verrà il momento di dare ogni cosa alle fiamme o di gettarla nella spazzatura. Meno male che al collegio ho ben poco, giusto qualche capo di abbigliamento e alcuni libri dispersi in questa stanzona ormai troppo vuota. Senza Federica, senza Alessandra, senza nemmeno Milena in visita serale. Studio dalla mattina alla sera, come un automa. Prendo trenta e lode. Però l'oltraggioso "Ritiro" resterà lì per sempre, visibile a tutti. Come la lettera scarlatta.



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La lettera di Federica arriva due giorni dopo, appena in tempo prima che lasci il collegio per l'appartamento ancora umido di pittura nel grande condominio rosa lungo il canale. Tutte le case dovrebbero avere davanti un fiume, o il mare, o almeno una roggia, un canaletto. Acqua che si muove, acqua che sospira o scroscia o geme o urla, che porta qui e porta via. Questa non scroscia e non urla, ma lentamente scorre ed è pur sempre meglio che niente. Aprendo la busta mi sento diventare rossa e bollente come il fuoco, neanche fosse un messaggio d'amore. E' una letterina breve. "Non ti ho dimenticato, Marina, non ti dimenticherò  mai. So che mi avevi cercata ma non potevo farmi viva. Troppo rischioso. Sono fuggita dal luogo dove mi trovavo. Ti spiegherò a voce appena possibile. Ora sono a Milano, ma una cugina mi metterà presto a disposizione due piccole stanze nel centro della nostra vecchia città. Milano sembra ancora asburgica, ha viali larghi e palazzi arcigni, spesso rimpiango le nostre viuzze buie e strette che, tu dicevi, sembrano navate di chiesa dove si annidano confessionali pronti a farci espiare i peccati. Io ne ho tanti, di peccati. Ora più che mai. Ma quando penso a te, a Milena, perfino ad Alessandra, riesco ancora a sentirmi come quand'ero bambina. Vedi ancora i "Bellissimi"? Già, come potresti non vederli, tu che vivi là. A me sembrano ormai una leggenda, o personaggi senza volto come quelli dei sogni. Qui sono sola, o quasi sola, ma sarà per poco, e appena sarà possibile mi farò viva, staremo ancora insieme a parlare dei fondamentali, e a rimpinzarci di cioccolata come l'anno scorso. Non cercarmi a Milano, è inutile. La tua anarchica, agnostica, amletica (scherzo, lo sai) e stupida (sul serio!) Federica".


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Tre giorni dopo, squilla il telefono per me, è sera ed è la sua voce. "Dove sei?" balbetto afona. "Su un marciapiede", la voce ride (o stride). "Vuoi dire in una cabina?". Lei ride ancora ma glissa via, "Ti devo dire che..." poi cade la linea, ma nessuno richiama più.
Milena, di Milano, aveva saputo qualcosa dalla sorella di Fede, ma anche lei sorvola. Alessandra invece mi chiama, per sapere come ho passato l'estate. E' frettolosa, dice ogni momento "scusami un momento", poi torna al telefono, annuncia parenti in arrivo, alla fine mi comunica che sta uscendo per andare dal medico. "Ci vedremo in facoltà, comunque, per gli ultimi esami d'autunno. Ma intanto ti anticipo una novità, se no scoppio: mi sposo, no, no, non scherzo: molto presto. No, non chiedermi niente, voglio raccontarti tutto di persona alla prima occasione. Adesso scusami ancora, ho davvero fretta...". E mi lascia così, con un palmo di naso, a domandarmi con chi mai si sposerà, escluso Stefano che certo non può sposarla, a meno che sia incinta (ma Alex non è tanto tonta da farsi mettere incinta da Stefano, che da parte sua non è sicuramente tanto audace!), esclusi di sicuro anche i "fucini", che di fronte a una donna nuda si rotolano per terra gemendo di desiderio, ma non la toccano. Forse qualche "Bellissimo"? Milena non ne sa niente, solo la Paoletta, che è onnisciente come l'Altissimo, ha sentito parlare di un industriale quarantenne (non bello, macché, sembra un uovo!) che vive in un'altra città. Ricco, sì, molto, lei sfoggia un solitario grosso come una nocciola.
La vita ha fatto le gare di corsa, quest'estate. Per Federica, per Alessandra, in un certo senso perfino per Milena. Io sola continuo a fare la teen-ager divisa fra sogni impossibili e un quotidiano sempre uguale dove non so quale sia il mio posto, così come non l'ho mai saputo finora.



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Novembre, il mese più triste e opprimente per me che sono nata di luglio. La nebbia trasforma le case e le strade in un gioco di finzioni, la città diventa invisibile e perciò più infingarda. A volte mi spingo, nella vana speranza di incontrare per caso Stefano, fino alle Piazze, dove i fuochi delle caldarroste rischiarano il cielo ma non riscaldano il cuore, o fino al "Prato" dove percorro i sentierini attorno all'isolotto vegliato dalle 36 statue candide come fantasmi. E lo sono, sono i fantasmi di uomini illustri al loro tempo e oggi sconosciuti ai più, ma fissati nello spazio e nel tempo e dunque eterni di una delle poche eternità possibili. Una volta mi sembra di scorgere Stefano, abbracciato a una ragazza. Ma quando si avvicina mi accorgo che non è lui: Stefano è un fantasma dispettoso, non vuole farsi intrappolare da me.
La mia casa è bella e ben riscaldata, e come piace a me è in riva all'acqua dove approdano i barconi che poi ripartono per il breve tragitto fino al mare. E' grande abbastanza e  seppure non ha il giardino, come quelle di Venezia e dell'Istria, permette di intravedere uno squarcio verde del parco pubblico. Ci sono  una ventina di appartamenti e mi sono già fatta qualche amica. All'ultimo piano abita una famiglia comunista che, racconta la portinaia, all'epoca del referendum è esplosa in un trepestio di gioia alla proclamazione della Repubblica. (La nonna tace, ormai rassegnata, anzi mi pare che un po' ci si stia appassionando, alla Repubblica). Al pianterreno abita uno studente che canta tutto il giorno pezzi d'opera e perciò è simpatico al papà che è un melomane, mentre al piano sotto il nostro una coppia litiga ogni sera ma al mattino dopo esce a braccetto per far colazione al bar, brioche e cappuccino. Mi guardo intorno senza grande interesse, la maggior parte del tempo la passo studiando e accumulando  trenta, con perfino un paio di lodi. Quattro esami in due mesi, un record. Mamma  e nonna sferruzzano per me golfini di angora e di shetland, il papà mi dà impazienti lezioni di guida ma il mese prossimo, dice, forse sarò pronta per la patente. In facoltà frequento solo i corsi fondamentali e la sera, spesso, finisco al cinema, mentre la domenica pomeriggio vado ancora a qualche festina dei Bellissimi. Presto, ho sentito dire, Salvio tornerà su dalla Calabria per laurearsi. Non so se ho voglia di rivederlo. Giorgio Lungo mi manda cartoline e foto di stelle comete, che diradano col diradare delle mie risposte. Alessandra riprenderà gli studi dopo il matrimonio, che verrà celebrato in gennaio. Lui è un noto medico, anche se abita in provincia. Intanto lei è occupatissima con il corredo che ricamano le ragazze del collegio povero, e con l'architetto per l'arredamento della villa dove andrà ad abitare, perciò non la vedo mai. Milena ha trovato una stanza alla Casa delle Studentessa, un collegio laico dove vado a trovarla qualche volta. Oppure ci vediamo all'università, ma è come se un'ombra persistente si fosse insinuata fra di noi. Comunichiamo poco, io comunico poco.  Divoro sempre romanzi russi, la sera, saltando come lo scorso anno le descrizioni e voracemente percorrendo la trama in attesa del finale, come se potesse illuminarmi sul mio futuro. Fatico ad addormentarmi, la piccola luce sul comodino che ho dipinto di rosso-lacca resta a lungo accesa. Ascolto lo stridio dei freni delle auto in curva, sotto la mia finestra, e ricordo con nostalgia il silenzio delle mie due patrie sul mare. Pian piano mi addormento, in attesa di un giorno che sarà uguale a oggi, a ieri, a dopodomani. Come se fossi già vecchia e senza attese.
Invece no.

                  
                                              
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Invece arriva un giorno, anzi una notte, diversa. Una notte tremante. Una notte lucente. Una notte assordante. Mi risveglia un crepitio che somiglia all'infrangersi di piatti scagliati a terra, tanti piatti di porcellana, da una mano irosa. Socchiudo gli occhi, penso sia già mattina, forse qualcuno sta facendo il secchiaio, nello sbrattacucina. Sento voci, sempre più numerose e forti, voci gridate, voci stonate, e poi sirene dei pompieri e ambulanze. Mi affaccio alla finestra e vedo una colonna di fumo alzarsi da una stradina interna dove non mi ero mai addentrata. Un vicolo di casette non troppo alte, due piani al massimo, schiacciate da condomìni recenti come il mio, che si affacciano dominatori sul quartiere. Il fumo si fa sempre più denso e acre e fuoriesce dal vicolo per immettersi nella strada principale. Forse tira vento. Resto alla finestra, ipnotizzata, dimentica del freddo nel mio pigiamino di cotone a piccoli elefanti verdi, quello che portavo anche lo scorso anno, in collegio. Finché vedo uscire da un portoncino una barella con una forma umana che sembra spezzata in più punti, o snodata, come un burattino. E' un attimo, l'ambulanza riparte al volo e restano solo i pompieri a ultimare il lavoro. La notte è violata.  Ascoltando le voci che lentamente si spengono resto a lungo supina, nel letto, con gli occhi incapaci di richiudersi. Dal lato opposto dell'appartamento, dove dormono i genitori e la nonna, nessuno ha sentito niente, e io non chiamo nessuno.


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A casa nostra, il giornale locale arriva all'una, insieme col papà. Ma già alle dieci, quando esco per andare all'università, m'imbatto in capannelli di gente eccitata che confabula sui marciapiedi.
"Di sicuro è morta soffocata e in parte carbonizzata".
"Ma chi era?".
Nessuno lo sa, nessuno la conosceva. Chi l'ha vista, chi ha visto quella povera forma già così poco umana uscire in barella dalla casetta rossa a due piani, dice che sembrava giovanissima, una ragazza, prima che qualcuno la ricoprisse con un lenzuolo. Una ragazza alta con i piedi che sporgevano dal lettino. Pare che fosse appena arrivata, che venisse da fuori. I vicini di pianerottolo che l'avevano incrociata un paio di volte la ricordano gentile ma con un'aria svagata, poco comunicativa.
"E' stata di sicuro una sigaretta a provocare l'incendio. Forse si è addormentata senza spegnerla". All'improvviso l'ascolto si fa ricordo. Della sigaretta, o meglio "dell'ultima sigaretta", una Giubek, che Federica si fumava a letto ogni sera prima di addormentarsi, e Alessandra si dava poi un gran daffare ad aprire e chiudere le finestre della nostra stanza.
"Ci fai intossicare tutte, e se poi le suore se n'accorgono ci buttano fuori...".
"Se se n'accorgono dirò che è una sigaretta contro l'asma", ridacchiava Fede, che aveva appreso dal padre l'esistenza delle sigarette antiasmatiche. "Certo le suore non sanno distinguere il loro odore, che è pestilenziale, da quello delle normali sigarette di tabacco".
"Se è per questo anche le tue non profumano mica di gelsomino...".
Ma perché penso a Federica? La lettera, certo, con l'annuncio del ritorno in città, e poi la telefonata. Però la città è grande, insomma abbastanza grande anche se non certo una metropoli, e sarebbe davvero una ben strana coincidenza  che fosse venuta ad abitare così vicino alla mia nuova casa.  Ci credo poco alle coincidenze, eppure non vedo l'ora di saperne di più. Forse all'università... Ma lì nessuno sa ancora niente, nessuno ha ancora letto i giornali.
Mi distraggo ascoltando la voce chioccia e monotona del professore di latino che si crede all'avanguardia perché ci obbliga a usare la pronuncia classica, come fanno i tedeschi, con la "c" e la "g" sempre dure e i dittonghi come fossero iati, e la "v" come la "u", sicché dobbiamo leggere "Àue Kàessar e "Uàe uìctis" e "Illa dichit male michi praesenti uiro".  Ma questo è niente: pretende che parliamo fra noi in latino improvvisando dialoghetti allucinanti che cominciano per esempio con un "Surghe, Paule, ac dic michi...", perché le lingue, dice, se non parlate sono lingue morte, come se tutti non lo sapessimo che latino e greco sono lingue defunte da un millennio e mezzo e che non saranno certo i nostri goffi tentativi orali a farle resuscitare. E però in Francia, dove mettono l'accento sempre sull'ultima vocale, c'è chi pronuncia addirittura "Tu cocké, Bruté!", forse per attualizzare lingua e  storia.
L'ora successiva passo a greco, dove per tutto l'anno studieremo la distinzione letterario-filosofica fra forma ed evento, che pare sia diversissima da quella fra forma e contenuto, e mentre noi ingenuotti ci arrovelliamo per capirlo, i meno rozzi come Sisto scuotono la testa disgustati sussurrando: "A queste siamo? Ancora a queste?". Già, perché per lui contenuti e anche eventi sono concetti superati, l'arte non ha nulla a che vedere con i significati in senso tradizionale: deve esprimere  concetti o emozioni pure, che possono provenire anche da forme geometriche o da file di punti e virgole che sembrano processioni di formiche, vuoi mettere l'emozione delle file di virgole-formiche? C'è tutto, c'è ironia, provocazione, scansione del tempo e dello spazio... Oppure da pagine scritte e poi cancellate tranne una parola, o da oggetti esumati dalla spazzatura, che senso ha la cosiddetta bellezza reale che tanto è un'illusione? Perché per esempio una cima rocciosa, o un'insenatura marina, dev'essere bella? O un volto umano? Per convenzione. Per abitudine a guardare in un certo modo. Così lui organizza gruppi di studio con proiezioni sperimentali che lasciano tutti di sale, come quando, nel piccolo cineforum, sbotta: "Ecco, il cinema  è il fascio luminoso che vi sovrasta e che va dal proiettore allo schermo, è questo che deve emozionarvi!". Che sciocca, io che guardavo sempre lo schermo! E gli altri devono avere un'aria altrettanto ottusa della mia, se a un certo punto Sisto si secca e urla: "Vandea, Vandea!", chissà perché identificando l'incomprensione artistica con la reazionarietà politico-religiosa, certo piuttosto spiccata in questa città.
Come sempre, una parte di me ascolta, un'altra se ne va per conto suo, ricordando o fantasticando, così alla fine ricordo poco delle lezioni a meno che non m'impegni a prendere appunti per tutta l'ora, e mi perdo invece a osservare le facce dei compagni e la mutevolezza delle loro espressioni. Oggi poi non vedo l'ora di saperne di più sulla ragazza bruciata, ho il torace stretto e la gola ingroppata come per un presentimento, così quando finisce l'ora filo via come un razzo senza salutare nessuno, faccio a ritroso di corsa la via porticata che termina con una torre medioevale, oltrepasso la piazzetta dominata da una grande chiesa con la facciata spoglia, non rivestita di marmi. I signori, qui nel Veneto tranne che a Venezia, dovevano essere piuttosto avari, perché lasciavano innumerevoli chiese incompiute a differenza di quelle toscane che invece hanno quasi sempre bellissime facciate rivestite di marmi policromi. Supero la viuzza dei miserabili che un tempo erano artigiani conciapelli - e difatti si chiama ancora con questo nome -, arrivo a casa con il fiato grosso e prima ancora di gettare il cappotto sulla cassapanca mi precipito sul giornale, già spalmato su un tavolinetto del salotto, arrivo alle pagine di cronaca dov'è descritto "il pauroso incidente", il "rogo accidentale", "ma forse - dice in caratteri più piccoli l'occhiello -, potrebbe anche trattarsi di un suicidio", corro all'età della vittima: vent'anni! Lo sapevo - cerco affannosamente il nome, ci sono due iniziali soltanto, ma sono quelle lì e se la "F" potrebbe appartenere anche a una Francesca, Flavia, Fiorella, la "K" è sua, la "K" non può appartenere che a lei, la K è lei, la K si staglia sul giornale come su una bara.
Dunque così è finita le breve vita mortale di Federica Kvas, dal nome russo e dai piedi lunghi come quelli degli angeli, Federica l'anarchica l'agnostica l'amletica che cercava amore e ha trovato brutto sesso e immonda  violenza. Non vorrei essere suo padre, né sua sorella. Non vorrei che ci fossero suo padre, né sua sorella. Vorrei che ci fosse lei. Vorrei essere lei, la sua innocenza. Non vorrei essere neppure me stessa, perché in questo preciso istante, anche se già tante volte lo avevo preavvertito, sento chiudersi inesorabilmente una parte della mia  vita. Quella in cui tutto sembrava ancora possibile, perfino il miracolo che Stefano si accorgesse di me.
Ora Stefano è solo un'ombra. E' stato un sogno interrotto, d'amore per l'amore. Adesso non sogno più, adesso riesco solo a vedere, ossessivamente, una ragazza bruna e un po' slava come me, che un uomo  maledetto ha offeso e violato e poi punito spingendola su un marciapiede perché l'aveva fatta sentire una puttana e non una figlia. Uno che era responsabile della sua morte. Che si credeva puro, che si credeva giusto, che si credeva padre, che si credeva uomo. Che possa precipitare nell'inferno in cui crede, bruciare nelle fiamme dei dannati, e che non riesca a  liberarsi mai di quello che ha fatto. Anche a me, anche a noi. Aveva tutto il male dentro di sé, dal disonore alla morte, e l'ha sparso su chi aveva a portata di mano: la figlia gli stava più vicina, e ne è stata bruciata, noi stavamo soltanto vicino alla figlia, e siamo state ustionate.
Alessandra si sposa con un riccone già vecchiotto, Federica muore come una strega d'antan, Milena si porta il peso della sua non accettata diversità. Soltanto Sara, che non crede nella vita e nell'amore terreno ma crede nella scrittura, continua e continuerà a lavorare sulle parole. Forse anche su Federica riuscirà a scrivere un racconto, salvandola dalla morte eterna. E tu onore di pianto, Fede, avrai. Così sia.

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  1. vengo dal Canada, sono molto felice di condividere la mia grande e meravigliosa testimonianza con tutti su questa piattaforma ..: Sono stato sposato per 4 anni con mio marito e all'improvviso è entrata in scena un'altra donna che ha iniziato a odiarmi ed era offensivo e tutto perché non gli ho mai dato alla luce un bambino. ma lo amavo ancora con tutto il cuore e lo desideravo a tutti i costi ... Ha chiesto il divorzio e tutta la mia vita stava andando in pezzi e non sapevo cosa fare, si è trasferito da casa e mi ha abbandonato tutto da solo, un giorno un mio caro amico mi ha raccontato di aver provato i mezzi spirituali per riportare indietro mio marito, quindi sono andato online per cercare e ho trovato così tanti incantatori che hanno solo perso tempo e preso molti soldi da me, ma sono tornato da lei e le ho detto che il modo spirituale ha solo preso i miei soldi e non ha prodotto nulla, e lei mi ha fatto conoscere un incantatore chiamato Dr.Wealthy, quindi ho deciso di provarlo. anche se non credevo in tutte quelle cose a causa di quello che ho passato di recente, ho contattato il Dottore e gli ho spiegato tutti i miei problemi e mi ha detto che non avrei dovuto preoccuparmi quando ha lanciato l'incantesimo su di me e sul mio marito che mio marito tornerà da me e che entro 3 settimane rimarrò incinta, quindi ho fatto il piccolo che mi ha chiesto di fare ed ecco che tutto funziona, mio ​​marito è tornato da me e in questo momento abbiamo gemelli ragazzo e ragazza, quindi grazie a Dr.Wealthy sei davvero un grande incantatore, nel caso in cui qualcuno abbia bisogno di aiuto ecco il suo indirizzo email; wealthylovespell@gmail.com o visitare il sito Web: http://wealthyspellhome.over-blog.com I suoi incantesimi sono per una vita migliore O whatsapp ora +2348105150446

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