Gabriella Imperatori
Anarchica, agnostica, amletica
Romanzo
Tutte insieme i ragazzi ci
chiamano, non senza un filo d'ironia, le Tre Grazie, o anche le fanciulle in
fiore (sottinteso: alla cui ombra è dolce sostare), perché quest'anno tutti
leggono Proust. Da parte nostra facciamo finta di irritarci. Federica, che ha
gli occhi neri e lucidi come un'africana, li alza al cielo e borbotta grugniti
presi a prestito dai fumetti che divora, disinvoltamente alternandoli ai
classici della sua terra d'origine o a poeti contemporanei. Alessandra, con
ostentata modestia a cui nessuno crede, dice uffa!, piantatela di prendere in
giro. E io penso a quanto sono fortunata a far parte del trio, e pur con le mie
lentiggini e i capelli rossi ad essere
promossa "Grazia", come quelle del Botticelli.
Singolarmente siamo invece
soprannominate Alessandra la Pia, Marina la Rossa, che naturalmente sono io, e
Federica la Longa, detta a volte anche la Pazza, per la mutevolezza dell'umore.
"Già pronte per i libri di storia", commenta con un sorrisetto fatuo
Alessandra, che fa collezione di frasi ad effetto.
Al collegio, tenuto da suore con una cuffia bianca plissettata che
restringe il viso sotto il velo nero, ci dividiamo una stanza grande, con il
soffitto a bótte intonacato di biancocalce, con tre lettini di ferro laccato in
un lucido rosso mattone e i copriletti di cretonne a fiori - stessi fiori,
diversi colori. Anche le tre scrivanie sono identiche, con l'abat-jour di
pergamena giallina che illumina appena un grande armadio a muro rivestito di
cretonne come i copriletti. Niente televisore, ce n'è solo uno nella sala di
soggiorno a pianterrreno, che viene acceso verso sera, chissà se le suore ce
l'hanno nelle loro celle. E chissà che programmi guardano. Cosa pensano, cosa
sognano se sognano, dimenticandosi per qualche attimo di pregare. Se si
dimenticano.
Un tramezzo in muratura
isola la zona bagno, senza bidé per scoraggiare gli atti impuri, e un
terrazzino polveroso s'affaccia sul cortile dominato da una torretta a merli
guelfi. Tutto è un po' anonimo, ma ciascuna di noi ha personalizzato i propri spazi. Federica con un grande ritratto
di Tolstoj a cavallo, una balalaika appesa al muro e una matrioska sul
comodino. Io con una decrepita bambola di pezza, fatta da mia nonna prima che
partissimo per l'Italia, e una collezione di conchiglie, raccolte l'estate
scorsa sulla sabbia umida davanti al Des Bains, prima che facesse sera.
Alessandra con piccoli, preziosi oggetti scovati nei suoi viaggi, o in quelli
dei genitori. Oggetti di gusto raffinato ma anche religiosi, un rosario d'ambra
polacca appeso artisticamente alla parete, un'immagine dell'Annunciazione del Beato Angelico, un
crocifisso messicano di legno smaltato a
vari colori. Del resto tutto è cattolico, di un cattolicesimo più nordico che
papalino, in questa città che sembra diffondere odore d'incenso.
Le luci della stanza sono
fioche, per risparmiare corrente e insegnarci a risparmiarla (le signorine di
buona famiglia devono coltivare il rispetto del denaro), ma la sera di nascosto
noi sostituiamo le lampadine per studiare o per leggere a letto o per spremerci
i punti neri sul naso e poi stendere sul viso prodigiose, a sentire Alessandra,
maschere di bellezza a base di frutta spiaccicata. Alessandra, che sfoggia
impalpabili camicie di batista ornate di pizzi valenciennes, pilucca nel frattempo saggi di pittura o riviste di moda. Dei
quotidiani legge soprattutto i titoli e sottolinea in biro rossa quel che le può servire agli esami o nelle
conversazioni. Poi ricopia diligente in un quadernetto le frasi più brillanti o
più profonde. Io, che indosso ridicoli pigiamini infantili a ochette o
elefantini in colori pastello, perché la mamma mi considera sempre una bambina,
divoro romanzi ottocenteschi saltando a piè pari le parti noiose e
riallacciandomi in velocità alle storie di passione e di morte. Mentre
Federica, in camicioni di grosso cotone rigorosamente bianco che sembrano
usciti dal baule della bisnonna, sogna a occhi aperti sulle poesie di Neruda o
Prévert. Oppure, coi palmi intrecciati dietro la testa appoggiata al cuscino e
un'espressione da sfinge, ci guarda mentre leggiamo, e chissà cosa pensa di
noi. Qualche suora dev'essersene accorta, del cambio di lampadine intendo, ma
chiudono un occhio, perché le studentesse sono un buon affare per l'ex-convento
che prima campava solo della scuoletta materna e delle magre offerte delle
signore ingioiellate dei gruppi di beneficenza. Da maestre d'asilo le monache
si sono riconvertite in albergatrici che gestiscono un hotel rassicurante, dove
i maschi sono ammessi solo nel grande salone di soggiorno o in biblioteca, e in
ogni caso devono qualificarsi come padri, fratelli, fidanzati o perlomeno
compagni di studio. Non che queste suore siano particolarmente bacchettone: chi
vuole, può perfino studiare con un compagno di facoltà, in qualche angolo della
sala dove è sempre assicurato un continuo viavai di ragazze e lo svolazzare dei
veli delle locandiere che tranquillizza i genitori.
A parte gli ospiti di
passaggio, tollerati o addirittura incoraggiati perché le suore vogliono dare
di sé un'impressione secolare e quasi
internazionale, il collegio è un gineceo diviso in due metà, due mondi che
regolarmente s'incontrano anche se non comunicano mai davvero. Come coinquilini
indifferenti di un moderno condominio. La metà riservata alle monache ha un esuberante
giardino interno, preceduto da un minuscolo chiostro di pietre ruvide color
ocra, che s'infuoca al sole del tramonto estivo, riverberando la fiamma sugli
archetti gotici e le colonnine tortili e accendendo i frammenti di affreschi
dai colori sbiaditi. Dall'altra parte del giardino, si eleva un edificio un po' staccato che è un altro
collegio, ma con le sue ospiti noi non abbiamo mai a che fare: un collegio per
ragazze povere, orfanotrofio o brefotrofio, o casa di rieducazione attraverso
il lavoro. Non lo so. Se ne dicono tante. Però le ragazze che ci abitano non le
vediamo se non quando escono tutte in fila, suora in testa, per andare a
cantare ai funerali. Anche le suore addette a governare la loro vita quotidiana
non sono le stesse: le chiamano Sorelle, non Madri come chiamiamo le nostre che
sono diplomate o laureate. Ogni contatto è impossibile.
L'ala delle studentesse
guarda invece sul cortiletto esterno che si apre sulla stradina acciottolata,
nata per carretti e cavalli e rimasta così come ai tempi in cui tutta la città
era dimora di religiosi e commercianti. E nelle vie centrali pascolavano, come
mostrano le stampe d'epoca affisse in biblioteca, perfino greggi di maiali,
mentre nelle piazze del mercato punivano con colpi di corda i mercanti troppo
imbroglioni.
Le suore le conosciamo
appena. Forse non vogliono farsi conoscere. La madre superiora è alta, ha un
profilo aristocratico e una leggera peluria scura le ombreggia il labbro superiore.
Le suore non si fanno la ceretta. Parla con accento piemontese, è colta, fredda
e gentile. Dicono che suo padre si sia suicidato, e che lei per questo abbia
preso il velo. Al primo colloquio illustra, con un sorriso che le stira le
labbra sottili ma non le illumina lo sguardo, le norme a cui dobbiamo
attenerci, pena l'espulsione ("ma per carità non spaventatevi, questo è il
regolamento, sono certa che non ci sarà mai bisogno di applicarlo!"). Sono
regole ovvie, riguardano il comportamento che dev'essere modesto, il linguaggio
che dev'essere forbito, il rispetto degli orari che dev'essere assoluto, ma
anche la collaborazione "per formare insieme una grande famiglia".
Qui non si fanno inchini né baciamani, come nella scuola privata dove si allevano da tempi
immemorabili le ragaqzze perbene. Ma Alessandra, che ne è appena uscita, ogni
tanto si diverte a mostrarci come si fa:
un due tre, un due tre, sei tempi in tutto, ma sembra una danza.
Quella che mi piace di più è
una suorina indiana giovane giovane, forse più ancora di noi, nera di pelle,
occhi e capelli, e sempre allegra, che ha appena preso i voti e canta con voce
purissima e un buffo accento straniero alle funzioni nella cappella dove lei fa
gli assolo e noi il coro. La più inquietante è suor Margaret, una bella donna
(straniera anche lei, come il suo nome?) sui quarant'anni, dal viso sofferente,
che ci scruta con un interesse come affamato o affannato, e quando si crede fuori controllo ci fa molte domande,
specie sui nostri compagni di studio. Ma la superiora la tiene d’occhio sempre
e la fa sempre richiamare altrove. Noi l'abbiamo soprannominata, senza voli di
fantasia, "la monaca di Monza". Le studentesse anziane parlano di una
monacazione frutto, ed espiazione, di uno scandalo giovanile. E qualcuna
sostiene che non sono gli uomini a interessarla, come sembrerebbe dai suoi
interrogatori. Sono le donne, lo si vede da come ci guarda, e dalle rughe
verticali che le si formano tra naso e bocca conferendole un aspetto
tormentato. Viene e va, più va che viene, anche se si capisce che vorrebbe
restare.
Per entrare o uscire dal
pensionato bisogna passare per il controllo della suora portinaia, grassa,
occhiuta, occhialuta, comunque non si può rientrare dopo le dieci di sera,
salvo in occasioni straordinarie per cui l'orario del rientro si contratta di
volta in volta.
Non sono molto contenta
della sistemazione. Avrei preferito alloggiare alla Casa della Studentessa,
senza monache fra i piedi, ma i posti erano esauriti e in fondo si tratta solo
di un anno, il mio primo anno d'università, perché fra poco i miei si
trasferiranno in questa stessa città e così tornerò in famiglia.
Anche le mie compagne di
stanza sono qui di passaggio. Forse per questo ci hanno messe insieme. Federica
l'anno prossimo farà la pendolare con la corriera, e Alessandra resterà qui
solo finché suo padre, un ingegnere progettista di ponti e strade, all'estero
con la moglie per un soggiorno di lavoro, non rientrerà in Italia. I fratelli
sono affidati ai nonni, ma lei, la più grande, già matricola di Lettere, han
deciso che starà meglio in collegio. Più libera e più controllata insieme.
Alessandra Vendramin è
davvero bellissima. Oltre che "la Pia", perché esibisce grande devozione e, perfino alle feste da
ballo, si preoccupa sempre di testimoniare la sua fede, la chiamano anche la
principessa Grace, e difatti come lei è alta e algida, bionda, elegante di
un'eleganza sobria e raffinata che non è soltanto di abiti (quasi sempre in una
sfumatura di blu o di azzurro o di pervinca per richiamare il colore degli
occhi), ma di modi misurati e signorili, che solo ogni tanto si contraddicono a
sorpresa in risate incontrollabili che le arrossano la pelle di pesca. Allora
si trasforma, da divina-mondana ridiventa una ragazzetta come noi.
Alessandra ha fatto le
elementari, le medie e il liceo classico come esterna al collegio femminile più
chic della città, e in tredici anni di scuola privata, religiosa e frequentata
da rampolle altoborghesi o aristocratiche o pescecagne,
come dice talvolta imitando il linguaggio di sua madre, ha contratto quella
disinvolta compostezza che la fa sempre
percepire come perfettamente al suo posto, senza ostentazioni e senza
timidezza. L'estate scorsa è stata a Lourdes ad accompagnare un treno azzurro
di ammalati, ha spinto carrozzine, si è immersa fideisticamente nelle piscine
di acqua benedetta ("coi malati? non avevi paura del contagio?" le ha
chiesto dubitosa Federica) e ha partecipato alla grande fiaccolata della
processione notturna rivolgendo senza dubbio, e con fervore, infuocati
complimenti alla Vergine Maria. Al ritorno però si è fatta sostituire da un'altra hostess e - dopo il dovere il meritato piacere - è
ritornata in Italia in pullman, con un
gruppetto di turisti o pellegrini sani di corpo e di mente, con cui ha visitato
il sud della Francia. Così quando son passati per il principato di Monaco
tutti, ma proprio tutti, le han detto che sembrava Grace Kelly fatta e sputata,
e lei ha sorriso con malcelata soddisfazione, replicando con un umile
"magari!".
Ogni tanto, di notte, prima
di dormire, Alessandra ci racconta qualche episodio marginale della sua vita,
difficilmente però ci confida sentimenti o progetti, e soprattutto non esterna
mai eccessive emozioni, tantomeno se
negative. Al contrario di me e Federica, che siamo spesso scompostamente
"in crisi”, oppure in preda a
euforie irrefrenabil, e ci raccontiamo
speranze e patemi, non senza qualche estemporanea esplosione di pianto. Ma
Federica ha anche lei le sue difese, lo scopro un po' per giorno, io invece sono
come una lumachina che è caduta da un ramo e le si è spaccata la conchiglia,
lasciandola indifesa. "Devi corazzarti", consiglia saggia Alessandra,
"altrimenti qualsiasi parola potrebbe ferirti a sangue". Le parole,
lo so già, sono lame.
*****
Quando sono arrivata al
collegio con la mia vecchia valigetta di cuoio morbido color marrone - l'altra valigia, più grande, era
stata spedita in precedenza - e ho premuto il pulsante che rimanda un suono
antico come di campanella col batocchio, proprio da convento, mi sono imbattuta
in Federica, che usciva giusto allora in cortile con un libro in mano. Poco
dopo è rientrata in camera, credo apposta per conoscermi, sapeva che stava per
arrivare una nuova, e benché, o proprio perché, siamo timide entrambe, abbiamo
avvertito subito una corrente di attrazione reciproca. Lei vien giù da un
paesino sui colli, dove suo padre è medico condotto e la sorella maggiore fa
supplenze di matematica, in attesa dei concorsi. Federica è nata troppo presto
per essere alla moda, e non ha la vocazione a fare la mannequin. E' alta un
metro e settantacinque, porta scarpe numero quarantuno e ha lunghi capelli neri
e diritti da squaw, tirati indietro da un cerchietto di tartaruga. Il viso è
rotondo e infantile, se ride sembra una bambina, ma quando è pensierosa, e lo è
spesso, il volto pare invecchiarsi di colpo e prende un'espressione sofferente:
come se in lei coesistessero due persone
diverse e contrapposte, due anime in lotta che alternativamente
prevalgono. Ha un cognome slavo, Kvas ("sì, proprio come quella bevanda di pane fermentato che si beve
in Russia"). Forse è per quel cognome, anche se i suoi vivono in Italia da
tempo immemorabile, che la sento subito sorella, o, diciamo, cugina. Perché io,
che ho il cognome italianissimo di Altieri, il cognome di mia madre, sono nata
in Istria che adesso è terra slava. E un
po' slava mi sono sempre sentita, a differenza della mamma che si sente
italiana anche se ha lasciato laggiù il suo primo amore serbocroato (più serbo
che croato, a dire il vero), che è poi mio padre, seguendo il futuro marito
sulla nave che ci ha riportate "in patria".
*****
Dell'Istria ho ricordi
confusi, avevo pochissimi anni quando ci siamo imbarcate sul vapore pieno di
profughi - uno degli ultimi in partenza nel dopoguerra - che ci ha traghettate a Venezia, dove abbiamo
preso in affitto una piccola casa alla Giudecca perché il canone era basso e
perché ci ricordava quella lasciata in Istria. Una villetta del primo
Novecento, a due piani di mattoni rossi con decorazioni liberty, circondata da
un orto pieno di frutta sugosa e da un vecchio giardino ad aiuole delimitate da
ciuffi di erba pendula, verde scuro. Le finestre del salotto sono a disegni
colorati, come vetrate di una chiesa. Bellissime. Sembra di essere in un
castello, ma bisogna aprirle per far passare la luce. E'
divisa fra due famiglie, noi abitiamo al
piano di sotto con la nonna di origine toscana che ci ha seguito anche in
Italia "perché, diceva, la mi' bimba ha bisogno di me". La mamma non
ce l'avrebbe fatta, sola con la sua pena e un uomo estraneo più di uno straniero.
C'era anche il nonno, quando siamo arrivati. Dopo pochi mesi non c'era più. Lo
aveva ucciso l’umiliazione del trasloco.
Mi ricordo, del mio paese
natale, soprattutto il mare freddo, punteggiato di isolette rocciose che sembravano sassolini
scagliati lontano da un dio bambino. Un mare-lago dove facevo il bagno
nuda, come tutti i bambini e molti
adulti, perché gli slavi non conoscono il pudore del corpo, solo quello dei
sentimenti. Ma anche la mamma si tuffava nuda dalle rocce, descrivendo un arco
con il suo corpo teso, sodo e sottile, librato contro il cielo, mentre al Lido
di Venezia neanche la nudità dei bambini era ritenuta decorosa, e allora mi
facevano indossare un costumino azzurro, lavorato a maglia a punto riso, che
s'imbeveva subito di acqua e non mi lasciava godere del contatto scivoloso
delle onde sulla pelle, e poi non si asciugava mai e diventava pesantissimo, e
allora bisognava cambiarlo, mettere il prendisole di piquet con i pantaloncini
a sbuffo e i bottoncini sulle bretelle.
Mi è rimasta impressa in
qualcuno dei sensi (forse l'odorato, più ancora che il tatto) la raccolta delle
cozze avvinghiate agli scogli e dei ricci che mangiavamo crudi sul posto,
spremendoci sopra succo di limone, mentre il corpo salato si asciugava al sole.
E negli occhi l'immagine di mia madre
che cambiava umore e colore ogni volta che mio padre passava da noi, altissimo
e atletico, coi capelli biondo-rame e i miei stessi occhi verdi, e mi sollevava
in alto facendomi "fare il grattacielo", e fra le sue braccia
guardavo superba il mondo di sotto, sentendomi potente come mai più mi son
sentita dopo. Lui mi chiamava "mostro", ma dal tono carezzevole della
sua voce era come se dicesse
"angelo".
Mio padre ci voleva bene, me
lo ripete ancora adesso la mamma, ma ci ha lasciate, o meglio non ci ha
seguite. "Per motivi politici", mi è stato detto: perché lui era
slavo e voleva restare nella sua terra finalmente liberata. Perché era
comunista e noi, nel pregiudizio dei suoi compaesani, si apparteneva alla mala
genìa dei fascisti. Ma ormai era un po' di tempo che non veniva più a trovarci,
nella casetta di mattoni diventata una casa di donne perché il nonno negli
ultimi tempi se ne stava rintanato nel suo studiolo sotto il tetto, e se anche
ne usciva non parlava quasi più. Casa di donne di tre generazioni diverse, e
che tale rimase finché un bel giorno non arrivò quell'altro uomo. Un signore
asciutto e silenzioso, di media statura, con i capelli già un po' grigi attorno
al viso abbronzato di ex marinaio. Si era innamorato subito della mamma, che
era colta e bella e malinconica, e le aveva chiesto di sposarlo e di tornare
con lui in Italia, lei non voleva proprio saperne ma la nonna le ripeté per
mesi che doveva farlo "per la bambina", che altrimenti sarebbe
cresciuta come una nemica dei nuovi padroni, ostaggio in un paese che davvero
considerava nemici tutti gli italiani, anche noi che fasciste non eravamo state
mai, solo mia madre aveva avuto la tessera ma perché faceva la maestra finché
non era stata sollevata dall'incarico. Così lei si lasciò convincere, dopo mesi
che mio padre era sparito, a salpare verso un'altra costa, lasciando in Istria
la metà viva di se stessa.
*****
Il battello era una grande carretta
di mare che aveva conosciuto tempi migliori, con una scritta arrugginita sulla
chiglia risalente a quando portava i crocieristi, e non i rifugiati politici,
in giro per il Mediterraneo. Anni Trenta, forse addirittura Venti. Era un
piroscafo grigio - o pareva di questa
tinta cinerea perché era livida la giornata della partenza, di uno sbiadito
colore autunnale che dal cielo si specchiava nel mare - e tutta la gente si
affrettava sul piccolo molo con pesanti valigie in mano. Le donne portavano il
cappello di feltro e il cappotto buono,e,
siccome c'erano i fotografi, alcune
avevano un sorriso tirato sulle labbra color ciclamino, come mia madre che
sopra il tailleur blu oltremare aveva indossato un impermeabile di nylon regalatole
dal futuro sposo (un acquisto fatto a Trieste, roba di lusso, roba americana) e
mi stringeva a sé con nervosa forza,
premendomi le mani sul mefisto di lana verde smeraldo, da cui schizzavano fuori
i miei riccioli rossi. I quali, insieme con il berretto e il cappottino bianco,
richiamavano volutamente il tricolore. Un'idea patriottica della nonna,
naturalmente. In realtà dovevo sembrare un semaforo. Capivo, dalla sua faccia,
che bisognava far finta di essere contenta e sorridere, o la mamma si sarebbe
messa a singhiozzare, e forse avrebbe cercato di tornare indietro di corsa. La
mamma ha sempre avuto un cuore di bambina.
Invece ormai indietro non si
doveva più tornare, perché tutto era stato deciso, e d'altronde mio padre non
era nemmeno venuto a salutarci e non aveva risposto alla lunghissima lettera
che la mamma gli aveva scritto a rate in più giorni (per dirgli che
partiva, nella speranza che lui la
trattenesse). L'avevo imbucata io, con inutile trepidazione. Forse si era
trasferito, Tito favoriva i continui spostamenti interni fra etnie, o aveva già
un'altra donna non italiana, perciò non "fascista", non nemica e
imbarazzante come la mamma e me.
Altro più non ricordo o
forse non voglio ricordare. Il resto sono come echi mentali dei racconti che ho
sentito ripetersi negli anni veneziani con variazioni di particolari, come
leggende di un ciclo epico salvate da mia madre e dalla nonna per non farle
morire, e per non morire. Ormai non
riesco più a distinguere le memorie reali da quelle nate dalle fantasie innescate
da quelle storie.
I nonni cercavano di
distrarmi, di farmi interessare alla nuova casa, sull'altra sponda dello stesso
mare, dicevano, e mi parlavano dell'asilo dove avrei frequentato la
"primetta" e dove nessuno mi avrebbe fatto sentire - così almeno
credevano - una scomoda e poco amata straniera.
La mamma si sposò pochi mesi
dopo nella chiesa della Salute con la facciata bianca tutta a riccioli e
volute, e a me era sembrato quel giorno
di perdere tutto per la seconda volta. Forse è per questo che mi sento sempre
perdente, come la lumachina che ha
perduto il suo guscio.
*****
Le immagini sfocate si
accavallano nel mio schermo mentale come in un film mentre racconto a Federica
che vengo da Venezia ma sono un'esule, e che mio padre era slavo proprio come i
suoi antenati. Non dico altro e altro
non mi chiede, non è una di quelle che fanno il terzo grado: ma sembra capire
al volo anche quello che non dico.
"Vieni, scendiamo a
farci un tè in cucina, c'è il bollitore sempre pronto" mi dice. Cerchiamo
goffamente di far conversazione: "A sproposito - chiede in tono
volutamente frivolo -, che facoltà hai
scelto?".
"Filosofia, ma poi
vorrei specializzarmi in psicologia. E tu?".
"Lettere, come
Alessandra, che conoscerai stasera. Insomma, siamo tutte e tre alla stessa facoltà
e tutt'e tre matricole: è il massimo, ne avremo di cose da spartire!".
Versa il tè, nella grande
cucina, in due tazzoni di ceramica blu, e il liquido scende a riscaldarmi
insieme stomaco e anima. Si cambia, finalmente. Vita, città, amicizie, studi. E
pazienza se per un anno vivremo in collegio.
*****
"Diciotto", dice
Alessandra quando le chiedo l'età, e subito dopo scopriamo, che coincidenza!,
di essere nate nello stesso mese, in due giorni vicinissimi. Stesso oroscopo,
dunque: eppure, più diverse di così! Lei così sicura e già così signorina, io
con i capelli indisciplinati e "di quel colore tristo" - dice il mio patrigno, che ho imparato con un po' di fatica a chiamare papà - "che
un solo buono ebbe nel mondo:
Cristo". Lo dice scherzando, ma riesce a farmi sentire comunque diversa. E
forse intimamente malvagia. Decisamente sono di temperamento tragico, il mio
senso dell'umorismo scarseggia o latita.
"Diciannove", dice
Federica che in verità, se non fosse tanto alta, sembrerebbe la più giovane di
tutte. Una cucciola con braccia e gambe troppo lunghe, che a volte sembrano
svitate, con il seno quasi piatto, sempre accartocciata su se stessa per
sembrare un po' più piccola, sempre a camminare sul bordo esterno del
marciapiede. Specie se vicino a lei camminano, e succede spesso, dei maschi
piccoletti, come la maggior parte di quelli nati in epoca di scarse vitamine.
Porta scarpe rasoterra, ballerine o mocassini che le fanno i piedi ancora più
lunghi, ma lei sostiene che sono gli angeli ad avere i piedi lunghi, mentre
Alessandra volteggia aerea come un'indossatrice sulle sue decolletées di
capretto coi tacchi di sette centimetri, e io mi trascino con i miei pesanti
scarponcini carroarmato, destinati a durare il più possibile e a far fronte anche
all'acqua alta, riservando alle feste le uniche scarpe con il mezzotacco a
rocchetto che possiedo, adorne di un piccolo fiocco.
*****
A lezione ci dividiamo. Io
seguo Storia della Filosofia e Filosofia Antica, Alessandra, che è portata a
tutto ciò che è bello e armonioso, Storia dell'Arte Moderna e Contemporanea,
perciò nel tempo libero è sempre in giro a visitare mostre e musei. Federica
invece ha scelto Letteratura Inglese ed Esercitazioni di Lingua, perché, dice,
non si fermerà per sempre in questa provincia addormentata, dove si sente una
prigioniera in gabbia. L'appuntamento è per le cinque.
M’infilo nella grande aula
dove convengono i pochi studenti di Filosofia e quelli di Lettere che seguono
il corso monografico. Mi accorgo subito che c'è un gruppetto di caporioni: son
loro che interloquiscono più spesso, si mettono in evidenza, sparano battute
che credono di spirito, sbandierano sapere filosofico e letterario facendomi
sentire un vermetto che non ha letto niente oltre i romanzi-fiume e i libri di
scuola. Del resto le ragazze sono quasi
tutte timide, la testa, anche se ce l'hanno, non la mettono in mostra: solo la
bellezza può essere misuratamente ostentata. I nomi che sento ricorrere più
spesso sono quelli di Nietzsche, Heidegger, Marcuse, e altri che non avevo mai
sentito neppure pronunciare, perché il prof del liceo si fermava a Hegel. La
contemporaneità non si può giudicare, affermava perentorio, sarà per questo che
non aveva mai accennato né ai lager né alle foibe. C'è un moretto piccolo e vispo, con una bella
faccia aperta ancorché brufolosa, e gli occhialini rotondi. Mi guarda di
continuo e sorride incoraggiante, quasi un invito a intervenire, ma io in
pubblico mi comporto come se fossi sordomuta, credo che parlerei solo con un
bazooka puntato alla schiena. Ecco perché certe volte, invece che "La
Rossa", qualcuno mi chiama "La Muta".
Mi accorgo che nelle ultime
file ci sono degli infiltrati di altre facoltà. Chiacchierano con le ragazze,
le guardano, ridacchiano, vanno fuori a fumare e poi rientrano: finché il
professore, con un gran parruccone di capelli candidi, esplode: "Si
pregano gli studenti di Ingegneria,
Medicina e Legge di andar fuori ad aspettare le studentesse, invece di
disturbare la lezione!".
"Io faccio Agraria,
dunque ho la dispensa", sogghigna sottovoce un magrolino ricciuto in
penultima fila. Ma restano in aula anche gli altri. Le studentesse indossano
golfini gemelli di angoretta e gonne a pieghe, scozzesi o fumo di Londra,
alcune hanno i capelli cotonati come Brigitte Bardot o Claudia Cardinale in
"Otto e 1/2", e sono soddisfattissime dell'invasione degli
extrafacoltà che qui sembrano extraterrestri, perché quanto a maschi la facoltà
di Lettere, lo ammette anche Alessandra, fa un po' schifo: un paio di preti,
belli, niente da dire, ma pur sempre preti, alcuni similpreti malvestiti e
insicuri che vengono dalle campagne o dal sud, e i tre o quattro genialoidi, o
presunti tali, che non bastano certo per tutte, ammesso poi che, al di là
della genialità vera o fasulla, nutrano
sincero interesse, oltre che per se stessi, per le ragazze in ammirazione di
cui si circondano. Alle cinque il professore smette di far lezione ed è subito
circondato dai big. "Scusi, professore, una domanda...". Quello si
aggiusta gli occhiali e risponde incerto: "Ma è peloso lei?". Un
barlume di imbarazzo traspare dalla faccia dell'ipersicuro che mi aveva sorriso
durante la lezione e ora stenta a reprimere una risata. "Beh... non
saprei, normalmente, credo..." L'assistente capisce al volo e sputa in fretta: "No, professore,
Peloso è già uscito".
Esco dall'aula col notes
zeppo di appunti e i pensieri zigzaganti in tutt'altra direzione. Il moretto
normalmente peloso mi lancia ancora un'occhiata, ma io scappo via. E
nell'atrio, sotto i piedi giganti della statua di Tito Livio, che è nato da
queste parti, scorgo subito Alessandra e Federica che mi stanno aspettando.
"Abbiamo davanti almeno
due ore prima della cena" fa Alessandra dopo aver consultato il suo
piccolo Omega d'oro, "che ne direste di passare in chiesa e poi al
circolo? Oggi c'è la messa dell'universitario, se ci sbrighiamo è ancora
valida". Non ne ho proprio nessuna voglia e, ne son certa, non ne ha
voglia neppure Federica, però Alessandra sa essere convincente con la sua
sicurezza, e dunque la seguiamo abbastanza docilmente. Gratta la donna, trovi
la schiava, direbbe il mio patrigno.
La chiesetta è illuminata
soltanto dallo sfavillio tremolante delle candele, ed è già piena. Stavolta ci
sono anche parecchi maschi. Ci dividiamo trovando posto in banchi diversi e
m'incanto immediatamente a osservare le movenze di Alessandra, davanti a me,
che recita le preghiere a voce alta, s'inchina e si rialza con aria ispirata ma
a ritmo perfetto, si è coperta il capo con un velo di pizzo bianco estratto
dalla borsa, un velo che le dà un'aria regale, proprio da principessa Grace.
Dio, come son belle le venete che pregano!
Al momento giusto si alza,
va a fare la comunione, torna al suo posto compunta, congiunge le mani,
s'inginocchia e, con il volto fra i palmi tesi, resta a lungo in preghiera.
Provo a imitarla, anche se non faccio la comunione perché non mi piace
confessarmi e poi anche dopo
l'assoluzione mi sento sempre colpevole di qualcosa, m'inginocchio e a mia
volta copro la faccia con le mani, cercando concentrazione. Ma mi vengono in
mente solo i ragazzi delle altre facoltà che ho intravisto a lezione, i
genietti di Filosofia e le ragazze dai gemelli color turchese o geranio. Riapro
gli occhi, mi accorgo che finalmente Alessandra si è rialzata, ma quando risuona
l'"Ite, missa est" e tutti cominciano a muoversi, lei a sorpresa e di
colpo ripiomba in ginocchio, riabbassa il capo fra le mani e resta altri cinque
minuti buoni in meditazione (non è che penserà anche lei ai maschietti?),
finché tutti, nessuno escluso, han potuto notare la sua devozione. Poi
finalmente si solleva e - siamo già sulla scalinata esterna - regalmente appare
sulla porta distribuendo sorrisi e strette di mano, poi si avvia alla vicina
sede del circolo universitario dove ingaggia con destrezza una partita di
ping-pong e progetta con altri una "festa dell'amicizia". Al circolo
convivono, con qualche conflittualità, tre gruppi di studenti: quello delle
associazioni goliardiche a caccia di matricole, quelli laici e, a dir loro,
progressisti, e i cattolici praticanti.
L'amicizia di cui parla Alessandra si riferisce soprattutto a
quest'ultimi - che di fatto la chiamano "amicizia cristiana", o se sono della Fuci "fucina" -,
anche se le occhiate e i sorrisi che elargisce sono rivolti soprattutto ai
primi due gruppi.
"Ma l'amicizia non
dovrebbe essere una cosa spontanea, che nasce per caso o per affinità elettiva?" chiedo poco
convinta.
"Ma no" mi spiega
paziente Alessandra sulla strada del ritorno, "ti sei guardata in giro?
Non hai visto che ci sono anche persone bruttine, o imbranate, alle quali si
può regalare cordialità e affetto, farle sentire inserite in una comunità e non
escluse o emarginate?". Mi era sembrato che lei discutesse, e giocasse a
ping-pong, e soprattutto dispensasse sorrisi ai più muscolosi o ai più
brillanti, forse non avevo visto bene.
"E poi - aggiunge - a
volte dalle amicizie possono nascere amori. Hai visto quelle due coppie,
Francesco e Luisa, e Michele e Giorgia? Sono coppie inossidabili, eppure ognuno
è sempre disponibile per gli altri e dà l'esempio di come dev'essere una coppia
cristiana, per testimoniare". E dagli con la testimonianza, penso ma non
dico, è uno dei suoi vocaboli preferiti. Ma Alessandra mi legge nel pensiero.
"Non hai idea di come si comportino certe ragazze, anche fidanzate, quando
non si sentono sotto controllo. Quest'estate sono stata un mese nell'Alta
Savoia a perfezionare il mio francese, e c'erano molte italiane che si
toglievano l'anello di fidanzamento reinfilandolo solo al momento di
ripartire".
"E senza anello cosa
facevano?" s'informa Federica con aria ingenua. Alessandra sembra incerta
se proseguire o no, lei ci tiene ad essere una ragazza di classe, aspira già da
ora a diventare "una vera signora". Poi però si butta, decisa:
"Le più carine erano le più
porcelline" butta là con un linguaggio volgare che mi tramortisce. Poi
cambia argomento, e intanto arriviamo al collegio mentre si fa sera e le prime
nebbioline sfuocano i contorni delle case e delle cose.
*****
Alessandra riceve moltissime
telefonate. Il telefono è giù nel salone e si può essere chiamate fino alle
dieci. Poi non più. A volte, dopocena, siamo ancora sedute sui divanetti di
finta pelle color malva a guardare la tivù o ascoltare musica, o certe sere
siamo già in camera, e arriva un po' affannata la suora di guardia ad
avvertirla che c'è una chiamata per lei. Sono i genitori dall'estero, dice lei
con un sorriso; ma spesso si tratta di qualcuno dei tanti ragazzi che le
ronzano intorno. Oltre a quelli che sembra considerare come colleghi o oggetti
di volontariato spirituale piuttosto che come corteggiatori appetibili, ci sono
gli studenti del grande collegio universitario
che è un serbatoio di possibili
fidanzati, dove interni ed esterni si ritrovano insieme per discussioni
filosofiche e religiose, per partite di rugby, e soprattutto per parlare di
ragazze. E' qui che nascono i progetti di festine da ballo (prima si chiamavano
festini, poi, dopo che questi hanno preso il significato di orge, di balletti
rosa o verdi, hanno cambiato genere) ed è qui, ce lo ha raccontato un certo
Giancarlo sempliciotto e chiacchierone, è qui che le ragazze vengono
"schedate" in base alle loro qualità, matrimoniali oppure
d'intrattenimento senza impegno. Le voci della schedatura vedono al primo posto la bellezza, intesa
come armonia del viso, proporzioni e morbidezza del corpo (il modello, per i
più raffinati, è la Venere di Milo; le tette e gli altri attributi della Loren
per i più sinceri). Per questa voce Alessandra è sempre al top della
classifica. Al secondo posto viene la "serietà". L'ideale sembra sia
promettere molto e concedere poco, se no ci si squalifica: insomma funzionare
come ragazze-accendino ma restare in grado di spegnere la fiammella. Per chi si è già acceso come un
falò funzionano le ragazze-portacenere. Magari meno belle, certamente meno
serie, forse più interessanti, ma che si possono usare senza scandalo. Conta
anche la famiglia, naturalmente. Che nel caso delle ragazze-accendino
dev'essere "buona" e ricca, perché è fra quelle che si sceglieranno
le mogli. Mentre per le ragazze-portacenere è meglio che non sia in vista, va
bene anche se appartiene al proletariato o alla piccolissima borghesia, va
meglio ancora se è "di fuori": come la mia, o quella di Federica. Con
la famiglia di Alessandra c'è poco da scherzare, anche se, pare, è meno
prestigiosa di quel che lei vuol far credere.
Seguono nell'ordine
creatività in cucina (chi fa meglio le torte e le tartine per le feste),
abilità nei lavori a maglia (chi fa i più bei maglioni ai ferri), eleganza
(apprezzatissima, anche in questo caso, quella sobria e insieme sexy di Alessandra), e naturalmente
verginità, di cui non si parla mai perché la si dà assolutamente per scontata,
ma sono ben considerate anche le doti sportive e la passione per il ballo,
occasione in cui, quando si spengono le luci (mai più di otto-nove minuti per
volta) è considerato lecito farsi stringere (non troppo), ballare guancia a
guancia il ballo della mattonella, far capire insomma che non si è proprio di
ghiaccio ma che ci si sa ritirare al momento giusto.
"E qual è il momento
giusto?" sbotto io che sono sempre un po' indietro di cottura, come dice
Alessandra. Lei e Federica infatti ridacchiano, poi Alessandra, senza
rispondere alla domanda, spiega che ci sono molti sistemi per ritirarsi senza
essere offensive. "C'è per esempio una piccola astuzia facilissima da
mettere in pratica - il suo tono è come sempre fra il didascalico e lo
scherzoso -: basta ricordarsi
all'improvviso che si deve fare una telefonata e assicurare che si torna
subito".
"Poi c'è la
conversazione", aggiunge, "devi distrarli, i ragazzi, parlare di un
film, di un libro appena letto, o dell'ultima partita di rugby".
"Così si
disarrapano", commenta concisa Federica, non capisco bene se con
approvazione o biasimo.
"Comunque è importante
partecipare - riprende Alessandra, ignorando l'inopportuna
interruzione -, per dare l'esempio di come ci si
può comportare da ragazze perbene e di buona famiglia perfino ballando il tango
argentino in una festa". Dove lei spopola, ne avrò presto conferma, non
perde un ballo e dissemina cuori infranti.
Federica fatica un po' a
trovare ballerini della sua altezza, i bassotti sono la maggioranza, ma quando
ne trova uno, di solito lui non la molla più. Io vengo scelta per i balli
veloci perché sono leggera e agile, ma con le mie lentiggini e la gonna
scozzese non credo proprio di essere considerata sexy. Anche se, bontà sua,
Alex ci aiuta a pettinarci e a truccarci, un po' di ombretto e il fondo tinta,
al massimo un velo di rossetto, e ci consiglia sui vestiti da scegliere.
Prepararci è ancora più divertente delle feste, almeno per me. Oppure
commentarle a serata finita. Il presente sfugge via, si anticipa o ritorna solo
nelle rappresentazioni mentali, è fatto di timidezza e imbarazzo e delusione e
sforzo per essere accettate, magari da persone insignificanti, senza luce
interiore né esteriore.
Comunque io e Federica siamo
abbastanza ricercate ma sappiamo anche cosa vuol dire, per qualche giro di
danza, "far tappezzeria" (io allora cerco di consolarmi pensando di
essere Natascia al primo ballo, quando non ha ancora incontrato il principe
Andrej), mentre Alessandra sembra non aver mai provato quella sottile
umiliazione, e così si può anche permettere di rifiutare un invito ("Più
tardi, sorride, adesso sono stanca"), sicura che il cavaliere messo in
lista d'attesa le siederà a fianco senza lasciarla un attimo sola. Federica
invece s'imbosca, certe volte. Si dilegua e poi ricompare, così come altre
volte sparisce dalla nostra stanza del collegio e rispunta molto più tardi,
dribblando non si sa come i controlli delle suore. Qualche sera torna perfino a
mezzanotte e oltre, e non dalla finestra. Ma come farà?
Alessandra, se è ancora
sveglia, sospira nel buio, probabilmente alzando le sopracciglia come fa quando
disapprova qualcosa, o butta là un: "Sta' attenta, Federica. A parte il
regolamento, e sai bene che potresti essere espulsa, pensa a te, non giocarti
la vita. E poi devi dormire, non lo vedi quanto sei sciupata?".
Federica di solito tace, forse
arrossisce nel buio (arrossisce spesso, come me) e fila dritta a letto senza
accendere la lucetta rosa impiantata dietro il comodino, di quelle per
scongiurare le paure infantili del buio.
Solo una volta ha risposto,
sibillina: "C'è l'inverno per dormire".
*****
Oggi mi hanno presentato un
tipo che si chiama Stefano, nell'atrio
dell'università. Non c'era Alessandra, che era andata dalla sarta a provare un
cappotto blu e poi a farsi stirare i capelli dal parrucchiere. Sono il suo
unico punto debole, i capelli crespi, ma lei se li fa stirare e il crespo non
si vede più, appena appena quando piove. Qualcuno dice anche il naso, piccolo
ma un pelo aquilino, che però le conferisce regalità. E poi dipende dai giorni,
certe volte sembra un po' a patatina, altre volte diritto, e in fin dei conti,
da Cleopatra a Sophia Loren, un naso imperfetto non ha mai tolto fascino a
nessuna. Certo Federica ha un bellissimo, perfetto nasino all'insù, una virgola,
ma lei non si sa valorizzare, deplora Alessandra. "Potresti essere un tipo
indimenticabile, e invece non fai che accorciarti le ossa e nasconderti negli
angoli".
Anche Federica oggi non si
vede, è uno dei suoi giorni di sparizione. Così Stefano e io abbiamo modo di
conoscerci e parlare da soli, quasi due ore, fitto fitto. Stefano è uno alto,
con i capelli dritti spioventi sulla fronte, e porta una giacca di tweed con le
toppe di camoscio ai gomiti. Mi piace subito, come nessuno mi era piaciuto
finora. E' piuttosto timido, come me, non sempre ti guarda negli occhi, spesso
lo fa di sguincio, quando non si crede osservato, ma se si lascia andare a un
argomento coinvolgente non smetterebbe più di parlare. E' uno di quei timidi
che hanno dentro un vulcano, basta aspettare che esca la lava, cosa che ai
vulcani non capita spesso. Purtroppo l'argomento coinvolgente di stasera è
Alessandra. Sempre lei, accidenti: capisco subito che la conosce e chissà,
forse era venuto qui per incontrarla, ma fa buon viso anche a me che però non
riesco a non sentirmi un surrogato. Studia Legge e vuol diventare giudice,
dice, o magari avvocato dello Stato. Ha vent'anni e mi sembra: primo, bellissimo,
secondo superintelligente, terzo molto fascinoso: insomma non saprei definirlo
senza superlativi.
Anche stanotte, mentre il
sonno stenta ad arrivare, ripenso a lui, e vorrei incontrarlo di nuovo: mi ha detto il suo cognome ma è un cognome
comune, nell'elenco ce ne saranno almeno trenta, mica è facile rintracciarlo.
Rivolgersi ad Alessandra è rischioso, ha le antenne per queste cose, e chissà
mai come potrebbe reagire. E Fede non conosce quasi nessuno, qui in città.
Invece scopro che lo
conosce, mi dice che è venuto più volte ad accompagnare Alex in collegio, che
l'ha chiamata anche al telefono, ma lei non sembra prenderlo in considerazione.
Su chi punta? O su che cosa?
Stavolta, però, Stefano ha
accompagnato me, e mi ha anche detto che sono carina (io carina? da quando in
qua?), poi si è corretto "anzi bella": sembro un'irlandese, ha detto.
Dal che debbo dedurre che tutte le
irlandesi sono belle. E quando ha saputo che avevo come compagne di camera Alex
e Fede ha aggiunto pronto: "Haec porta Domini: iuxti intrabunt in
eam!". Stefano è così, sorride, allude, poi però si ritira. Un po' come
Alessandra. Forse più sincero. Quando siamo al cancello mi bacia la mano, anche
se io, se non ne avessi paura, se non fosse troppo presto, se non ci fosse di
mezzo Alessandra, preferirei un altro bacio.
*****
Quando non ci sono
Alessandra e Federica, mi guardo intorno e scopro le altre compagne di
collegio. Sara è una solitaria che scrive sempre, ha scritto sempre, scriverà
sempre. E' scrittrice per vocazione, dice con una sorta di solitario orgoglio,
anche se sa che dovrà insegnare perché è povera e cosciente che la scrittura
non le basterà per vivere. Così studia moltissimo, ha già fatto gli esami del
terzo anno e chiesto la tesi, e ai ragazzi non ha tempo né voglia di pensare.
E' qui al collegio con una borsa di studio e non può permettersi di perderla.
E' un'intellettuale con una sola passione, per il resto sembra un ghiacciolo.
Milena invece non studia quasi mai, o forse, chissà, studia di notte, ma
frequenta con convinzione l'istituto di Italiano. Ha un volto un po' rozzo e
squadrato, da contadina come sono i suoi, guance vermiglie e sguardo attento, e
anche il corpo è solido e robusto. Le piace mangiare, è golosissima,
specialmente di dolci. I pochi soldi che ha li spende in pasticceria, oppure al
cinema dove va spesso, e mi chiede di andarci con lei. Quando accetto è tutta
contenta, e dopo il film - se possibile, scegliamo Bergman o Dreyer - ne
discutiamo a lungo. Il suo viso, allora, s'illumina come una lampadina, diventa
bella. Con lei riesco a parlare facilmente della mia infanzia in Istria, di mia
madre, di mio padre e del mio patrigno, lei mi ascolta e mi guarda incantata,
come se le raccontassi una fiaba. E' bello sentirsi ascoltata e non temere di
essere giudicata.
Milena non è credente, dice
che ha perso la fede ma è ancora molto interessata alle religioni, e alle lotte
di religione. Con Federica, che neppure lei è credente ma quando c'è Alessandra
fa finta di esserlo per farla parlare, discutiamo dell'esistenza di Dio. Noi
tre. Pare che l'esistenza di Dio dipenda dal nostro tribunale. Alessandra invece si ritiene sempre in
obbligo di fare proseliti, dispone di argomentazioni razionali e inappellabili
e di libri edificanti da citare e da prestare. Oppure consiglia un padre
spirituale che, assicura, saprà dissipare tutti i dubbi.
"Ma io non so vivere
senza dubbi" ribatte Fede in assenza di Alex. "Detesto gli obblighi,
i dogmi, tutte le certezze assolute che portano al fanatismo". Scuote i
capelli corvini e aggiunge: "Ci pensavo l'altra notte, quando non riuscivo
a dormire, che per autodefinirmi potrei usare tre aggettivi che cominciano per
A: anarchica, agnostica, amletica. Ecco cosa sono". Ride. La guardo con
ammirazione per la battuta, a me non vengono mai così a proposito. Anche Milena
ride contenta, quando è con noi si sente protetta contro la sicumera bigotta
e crudele dei suoi compaesani. Però
anche lei è sensibile alla grazia di Alessandra. I ragazzi, a quel che pare,
non le interessano molto, e fra le ragazze sembra calamitata da noi tre. Sara
invece è autosufficiente, vive in un suo mondo scarnificato fatto solo di
parole ed è certa che diventerà una grande narratrice, anche se per questo
dovesse rinunciare a farsi una famiglia. I libri son meglio dei figli. Dice che
la pensano così anche Moravia e Pasolini.
Noi tre invece (di questo
Milena non parla) vogliamo sposarci, e prima innamorarci, e prima ancora
guardarci intorno, scegliere ed essere scelte: cosa non facile, perché di
solito succede che chi ti sceglie non ti piace e chi ti piace non ti sceglie,
il che è all'origine di infinite confidenze, qui al collegio, su catene di
amori unilaterali e lacrimevoli, su speranze, oroscopi e perfino
"fioretti" e preghiere.
*****
Ho l'impressione di essere
attratta da Stefano ogni giorno di più, non faccio che pensarci, ma lui non si
sbilancia, anzi sembra sempre orientato a favore di Alessandra, che invece lo
considera con schizzinosa indifferenza. Federica mi scruta con preoccupazione:
di Alex non si fida del tutto. All'ultima festina, alla cui riuscita abbiamo
collaborato con vassoi di tartine multicolori e crostate confezionate nella
cucina delle suore, c'erano quasi tutti: i genietti di facoltà e i
"Bellissimi" (è Federica che ironicamente li ha battezzati così) del
collegio universitario. E io, sapendo che sarebbe venuto Stefano, ero tesa e
intimorita, nonostante che per una volta avessi abbandonato la divisa scozzese
a pieghe a favore di un nuovo maglioncino aderente e una gonna a ruota di
pannolenci orlata di frange. Niente a che vedere col vestito di Alessandra di
rasatello blu, peraltro. La sua era una mise da principessa. La festa era in
una casa privata, un vecchio appartamento nobile un po' fané. Vi si accedeva da
un centinaio di scalini di marmo sbrecciato e si apriva, sul tetto, in una gran
terrazza con vista sulla Basilica. C'era nebbia e freddo, quella sera, un
freddo bagnato e cattivo e senza vento, da novembre padano, ma il terrazzo, con
poche piante intirizzite o già spoglie, era ugualmente frequentato da coppiette
che s'imboscavano a turno per "rinfrescarsi", fumare qualche Giubek e
ascoltare la musica che arrivava ovattata dal piano di sotto, canzoni galeotte
come "Diana", "True love" o "Il cielo in una
stanza".
Stefano non ballava molto,
si alternava solo tra me e Alessandra, se ballava con me parlava di lei e il mio cuore si metteva a sanguinare come
quello trafitto di San Sebastiano, ma
se ballava con Alex c'era subito qualcuno che con un colpetto sul braccio gli
portava via la dama. E lui tornava da me.
"Non è il mio
tipo", a domanda (nostra) risponde Alessandra, pur compiaciuta del
corteggiamento. Un altro trofeo da appendere al muro. E io, allora, estrema
furbizia, invito Stefano a dichiararsi, contando sulla previsione che lei gli
dirà di no e dunque l'infatuazione gli passerà e forse potrò subentrare, anche
se il verbo mi mette malinconia, all'icona di perfezione di Alex. Ma Stefano
esita, preferisce aspettare. Una volta che Federica non c'è, Alessandra mi
racconta con un filo di maligna soddisfazione di aver ricevuto una lettera da
lui, e di non avergli nemmeno risposto. "Qualche giorno fa l'ho visto
vicino al collegio con Federica, chissà che adesso, credendo di farmi dispetto,
non ci stia provando con lei" insinua, escludendomi perfino dal novero
delle possibili succedanee. (Anche questa è una brutta parola, fa pensare alle
uova di lompo che nella pubblicità è il succedaneo del caviale). Federica? Ma
Federica sa che mi piace Stefano, ne abbiamo parlato per un'intera serata.
Comunque mi sento sempre più fuori causa. Adesso gli ostacoli da superare
diventano due e sono proprio le mie due migliori amiche. E Stefano è sempre più
simile a una sfinge.
Di fatto, da qualche
settimana Fede va fuori ogni sera e torna tardi, sempre più tardi, dopo la
mezzanotte. Non oso chiederle nulla, quando la vedo rientrare di soppiatto, con
le scarpe in mano, e farsi strada silenziosissimamente fino al letto con la
piccola torcia elettrica. Chissà come fa a dribblare sempre la suora guardiana.
Mi sento sola, poco amata, poco felice, poco furba. Anche se ho diciotto anni,
l'età mitica.
"Dovresti pregare"
mi suggerisce Alessandra, "la Madonna ascolta le preghiere di chi
soffre". Comincio invece a provare morsi di insofferenza, oltre che di
gelosia, ma mi sembra di non meritare nulla e nessuno. Del resto, se mio padre
mi ha lasciata, oltre ad aver lasciato partire mia madre facendone per sempre
una donna a metà, vuol dire che neanch'io dovevo piacergli granché, come
figlia. Forse per via di questi capelli più rossi dei suoi e delle lentiggini,
che lui non aveva affatto. O perché ero sempre senza parole quando, piccolissima,
lui veniva a trovarci portando qualche dolce, o un piccolo dono per me. Il più
bello era stato un cavallo a dondolo di legno laccato a luccicanti colori. Ci
montavo sopra e sognavo di lanciarmi al galoppo nel mondo in corse sfrenate, e
che poi lui mi arrivasse vicino all'improvviso con un altro cavallo, grande e
bianco: allora ci saremmo messi al trotto e insieme avremmo guardato il
panorama lunare di sassi carsici e luce bianca,
di solitari cipressi ondeggianti e ulivi tremanti, io e lui, e qualche volta
magari anche la mamma.
Chissà, se avessi saputo
incantarlo, essere spiritosa e sbarazzina, parola allora molto di moda, magari
si sarebbe innamorato di me come io lo ero di lui, io che avvampavo tutta
quando mi sollevava per prendermi in braccio, ma non riuscivo a formulare
nessuna di quelle frasi che pure mi preparavo con tanta cura. Lui pareva non
farci caso. Mi caricava sul sellino che aveva montato per me sul manubrio della
pesante bici da lavoro e mi portava in giro per le strade non asfaltate, accecanti
sotto il sole, che si aprivano come
piaghe nella terra carsica, poi si inoltrava nella boscaglia pedalando
di lena per sentieri appena tracciati fino a una baia deserta, e lì si metteva
a pescare in silenzio. Sembrava tranquillo. M'insegnava a nuotare e nuotavamo insieme
e io mi sforzavo di non avere paura quando c'era vento, e le onde mi
cavalcavano sulla testa e mi coprivano il viso e mi mancava il respiro, perché
sapevo che lui ammirava il coraggio. "Ti sei spaventata?" mi aveva
chiesto una volta, vedendomi in difficoltà. "Macché, io sono una bambina
Novecento, non ho paura di morire", avevo risposto tutto d'un fiato con finta
fierezza, impadronendomi lì per lì di
una frase che avevo sentito da un'amichetta più grande di me. Ma lui non era
sembrato impressionato, aveva riso e mi aveva detto che era una frase fascista,
e io avevo capito solo che ancora una volta non ero riuscita a farmi ammirare
dal mio grande amore.
Di solito non parlavamo, al
massimo lui fischiettava, ma io pativo quel silenzio come se ne fossi stata la
causa, perché non sapevo incuriosirlo, stupirlo, neppure intrattenerlo.
Capitava, sì, che mi sforzassi di farlo, di parlargli dei miei immaginari
compagni di gioco a cui avevo dato nomi slavi per compiacerlo. Ma mi accorgevo
da sola di risultare goffa, stonata.
Mio padre era serbo e
naturalmente amava i russi, amava tutti gli slavi, salvo sloveni e croati che
riteneva filotedeschi, ma amava soprattutto Tito e al suo seguito si era
spostato sulla costa. Lo amò più di noi due, italiane e dunque per questo
fasciste.
Ai margini della spiaggetta
c'era un capanno per gli attrezzi costruito in legno e muratura, una specie di
casetta dipinta di un blu acceso, un po' scrostata e piena di fessure, ma io
fantasticavo che diventasse la nostra casa, e che lui un giorno m'invitasse a
restarci per sempre, con la mamma. Una casa azzurra davanti a un mare
altrettanto azzurro e tutto nostro, un mare privato con una spiaggia privata,
di noi tre. Un giorno ho provato a parlargliene, ma lui non mi ha neppure
risposto: probabilmente lo annoiavo. Ho sempre pensato, fin da allora, di
annoiare la gente, e ho sempre attribuito ogni silenzio dei miei interlocutori
a disinteresse nei miei confronti. Anche adesso, con Stefano, dopo quella prima
volta in cui c'eravamo parlati fitto fitto, non so mai cosa dire. Finisce che
per interessarlo gli parlo di Alessandra, anche se in certi momenti mi pare,
miracolosamente, che basterebbe molto poco a spostare l'interesse in mio
favore.
Comunque di Federica devo
sapere. E infatti quando torna, una notte, dalle sue misteriose scorribande, e
io l'ho aspettata sveglia, la invito a scendere nel mezzanino dove ci sono due
poltrone di vimini, e anche se mi costa non resisto a chiederle se era uscita
con Stefano.
"Con chi??? Stai
scherzando! Chi ti ha ficcato questa idea in testa? Non vorrei che fosse quella
gattamorta di Alessandra...".
Annuisco, un po' vergognosa,
e allora lei si arrabbia di brutto. "Eccola qua la santerellina che fa la
predica a tutti, e poi guarda che fantasia
malata!".
Mi sento sollevata,
elettrizzata quasi, la solidarietà di Fede, e la certezza che non mi ha
tradita, mi dà conforto ed euforia.
"Sembrerebbe che la sua
morale fosse solo sessuale..." dico io. Un lampo passa nello sguardo di
Federica, un lampo ambiguo che colgo anche nella penombra. "Mica tanto, se
è per questo. A me non importa proprio niente, ma... Buon per lei, del resto.
Poi, tanto, si va a confessare".
La rivelazione mi scuote ma
non mi scandalizza. Semmai, mi fa sentire l'unica a non avere ancora
esperienze, se si esclude qualche bacio viscido, qualche carezza che non mi
aveva dato nessun piacere, e una notte stellata che avrei preferito
dimenticare. Ma Federica con chi esce, allora?
"Ho un uomo", mi
confida un giorno come captando la muta domanda. E dice proprio "un
uomo", non "un ragazzo". "Uno del mio paese che viene a
trovarmi, che vorrebbe mettersi con me, ma io non me la sento di impegnarmi, e
poi non capisco nemmeno cosa provo per lui".
"Ma ti piace?".
"In un certo senso non
posso farne a meno, ma non è che sia il mio ideale...".
Non può farne a meno! Ma in quale
senso? Mi accorgo di essere circondata di segreti, bugie,
reticenze.Tutti san tutto, e io non so niente. Anche mia madre e mia nonna mi
hanno sempre detto bugie. Mi hanno detto che il secondo marito della mamma mi
voleva così bene che per questo aveva voluto portarmi in Italia, via dai
Titini, lontano il più possibile dalle foibe. (Ma
c'eran già state le foibe?) Ma io avevo capito lo stesso che non era me
che voleva portar via dalle foibe dei Titini. Io ero solo una protesi. Come adesso
sono una protesi di Alessandra,
forse perfino di Federica.
*****
Si avvicina Natale. L'aria è
piena di fumi di caldarroste, e la gente si aggira allegra fra le bancarelle di
dolciumi. Qualcuno fischietta, i bambini vogliono tutto, gli altri si limitano
a desiderarlo. Ma io non amo il tardo autunno,
son nata d'estate. Oggi non vado a lezione perché sono raffreddata e
afona. E' rosso perfino il mio naso oltre ai capelli, mi sento orribile. Fuori
turbina un insolito vento borino, un nevischio fuggevole non fa in tempo ad
attaccarsi per terra ma spolvera di bianco le cupole orientali del Santo che
dalla finestra sopra la mia scrivania sembrano lo sfondo portentoso di una tela
di Chagall. Ma sì, in fin dei conti è
bella questa piccola città maligna e arcana, chiusa nella foresta dei portici
che ogni tanto lasciano apparire visioni mozzafiato (cambiare
termine). Le piazze multicolori e
il grande Palazzo della Ragione che all'interno cela un antico tribunale e un
odoroso bazar orientale. Le cupole e i minareti della basilica dove troppi
stili si confondono senza romperne l'armonia. Il Prato, che dicono sia la più
grande piazza d'Europa, con tante statue bianche come fantasmi, circondate da
un canaletto circolare che a sua volta incastona una piccola isola verde. E'
bella ma claustrofobica, penso che anch'io un giorno me ne andrò, come
Federica, in cerca di metropoli, di orizzonti meno soffocanti.
Per il momento però resto
nella biblioteca del collegio a riordinare gli appunti, occupazione che detesto
sempre perché far ordine presuppone metter mano al mio disordine e il mio
disordine è malato, fatto di cose che vorrei ma che non riesco a buttar via. L'Istria? Mio padre? In realtà ci sono
legata con una corda molto più robusta di un cordone ombelicale. Mia madre? I
suoi misteri e le sue menzogne? La sua mancanza di coraggio? Eppure non so
rinunciare alla sua tenerezza, perfino la sua apprensività nei miei confronti
mi opprime ma mi dà calore e rifugio. I sensi di colpa? Il dover essere, così
scomodo perché lo prendo troppo sul serio, anche se non lo prèdico come
Alessandra che magari non lo pratica? Ecco, forse ci siamo, per andar libera
nel vasto mondo, che non è solo l'Istria e non solo Venezia e tantomeno questa
stanza di collegio, avrei bisogno di affrancarmi dai mille fili che mi stringono da dentro, da
tutte le gerarchie, da tutti i dogmi. Ma se mi liberassi da queste che sono
anche le mie sole difese sarei debole come un bruco, e non so se ce la farò mai
a percorrere da sola un cammino di ricostruzione tutto in salita, in un
sentiero esposto su precipizi dove potrei cadere e non risollevarmi e
spiaccicarmi giù.
Oggi non vado all'università
e non ci sarò neppure alla festa di Capodanno dove andranno gli altri, forse
anche Alex e Stefano, ma io di sicuro resterò a Venezia a casa coi miei, non ce
la faccio più ad andargli dietro a tutti e due. Sabato scorso eravamo a casa di
uno dei Bellissimi, c'era un grande abete già
addobbato e luccicante di candeline dorate, e alcune coppiette lo guardavano,
doverosamente estatiche. Alessandra come al solito non si perdeva un ballo e
quando era entrato Stefano non lo aveva degnato nemmeno di una sbirciatina.
Così, facendomi coraggio, gli ero andata io incontro, e il padrone di casa, che
conosceva poco tutti e due, ci aveva presentati scambiando i nostri cognomi.
Quando aveva pronunciato il suo, attribuendolo a me, Stefano aveva precisato
disinvolto "non ancora" e aveva ridacchiato, e anch'io avevo riso ma
mi era sembrato un segno del destino, come quando l'Elisabetta fa i tarocchi di
nascosto dalle monache e guardandomi fissa mi dice che un ragazzo, per ora
stregato da un'altra, presto s'accorgerà di me. Adesso lui è però scivoloso
come un'anguilla, e se un giorno mi cerca poi per una settimana posso star
sicura che sarà irreperibile.
Verso le undici arriva una
visita per Federica, che è uscita di prima mattina. Una donna. La suora
portiera la indirizza a me, lei mi s’accosta
e mi chiede se ho idea di quanto la dovrà aspettare. E' sua sorella, si
presenta: ma non potrebbero essere più diverse. Questa qui ha un'aria tutta
perbenino, pare stata alla scuola di Alessandra, però è più provinciale e
anonima. Nient'affatto bella. Una biondina insignificante di statura media, con
i capelli cotonati a ciocche tutte uguali, tanti riccetti rivolti all'indentro
che la fanno sembrare un carciofo, e il rossetto clair-de-lune sulle labbra
pallide e sottili. Dalle orecchie le pendono due orecchini d'argento con
piccole pietre turchesi, indossa una redingote di lanetta scura e una borsetta
di pelle le penzola dal braccio destro. Sembra
un po' vecchia, già una zitellina. Dimostra almeno trent'anni. Quel che
la fa vecchia è l'espressione, come di rabbia
rassegnata e impotente, di una che mai si è sentita amata. Le dico di
sedersi su un divano e la rifornisco di riviste che sfoglia distrattamente,
come sovrappensiero. Quando finalmente, dopo un'ora buona, arriva Fede, si alza
di scatto, le va incontro diventando paonazza e si mette a parlarle sottovoce
ma fitto fitto, in tono concitato. Da lontano mi sembra minaccioso.
"Se non torni neanche a
Natale è finita, lo sai": è l'unica frase che colgo perché la voce si era
involontariamente alzata, ma mi fa supporre che anche il sabato e la domenica,
da qualche tempo, Federica non ritorni a casa. Dove andrà? In collegio, per
restarci nel fine settimana, bisogna avere motivi validi. Di solito ci restano
solo le meridionali e le sarde.
Quando sua sorella esce,
Fede è pallidissima e sale difilato in camera senza neppure pranzare. Resta a
letto tutto il pomeriggio. Se tento di parlare fa finta di dormire. Le labbra
sono esangui e gli occhi ostinatamente chiusi. A sera però si alza anche se
continua a tacere, ed esce come sempre, la testa imbacuccata in uno scialle
bianco che la fa sembrare bella e tormentata come Anna Karenina (chissà perché
le trasgressive, anche come immagine, sono sempre i personaggi femminili che mi
piacciono di più: forse perché trasgressiva io non riesco a esserlo, anche se
mi piacerebbe tanto). Torna tardissimo, verso le due. Dopo quella sera non esce
più. Due giorni prima di Natale fa la valigia e parte per il paese, come io per
il mio, e non mi dice niente, solo mi abbraccia con forza e gli occhi scuri
sembrano più lustri del solito. Alex invece raggiungerà i genitori all'estero,
col proposito di rientrare a Capodanno. E io tiro su le mie quattr'ossa e la
valigia piccola dimenticandomi di
salutare Milena che è chiusa in camera, anche lei a fare i bagagli. E poi non
faccio che sentirmi colpevole per averla dimenticata.
*****
In corriera, nell'autostrada
sepolta nella nebbia, m'imbatto in Salvio, che sembra contento di vedermi e si
siede accanto a me. Sta andando a Venezia per incontrare un amico che studia a
Ca' Foscari, un calabrese come lui, e come lui senza i soldi per tornare a casa
a Natale. Passerà le vacanze in città, m'informa, da solo perché i suoi
compagni di appartamento sono già partiti o in partenza, e così mi chiede se
può venire a trovarmi a casa mia, un giorno di questi. Annuisco, gli do
l'indirizzo. Salvio, che di nome vero fa Salvatore come metà dei suoi
conterranei, è un ragazzo alto e bruno coi riccioli sempre scomposti, allegro e
pieno di iniziative, e viene spesso nella nostra facoltà a conoscere ragazze
perché a Medicina ce ne sono ancora poche, ma non si vede mai né al circolo
universitario né tantomeno nelle elitarie festine dei Bellissimi, dove io e
Federica, del resto, siamo invitate solo perché donne, passabilmente carine e
soprattutto compagne di Alessandra. Salvio si dichiara apertamente "di
sinistra" e ateo, fa politica in polemica con le associazioni dei
cattolici. Fantocci senza spina dorsale, figli di papà e mamma, dice con un
certo disprezzo. E' un tipo focoso e forse romantico, oltre che bello, ma
scioccamente mi irrita la cadenza del suo parlare, le doppie che infarciscono
le parole che dice, i "sabbato" e "subbito" e
"dubbito", il suo chiamarmi "piccioncino", il suo tentare
di baciarmi ogni volta che mi accompagna in collegio. Che si fa così, si fa?
Per questo lo evito quando posso, anche se in fondo mi è simpatico e mi sembra
più libero e spontaneo dei rampolli piccolo o alto borghesi o baciapile -
invece che baciar ragazze - che frequento
con Alessandra. Ma è il mio patrigno che mi ha instillato certi pregiudizi nei confronti dei "terroni",
secondo lui scansafatiche e lamentosi, incapaci di lavorare un po' più del
dovuto e sempre pronti a spillar soldi al Nord. Se poi sapesse che Salvio è
anche comunista! Naturalmente non gli credo ciecamente, però un po' di
diffidenza me l'ha trasmessa.
Con la testa rifiuto le idee
preconcette, ma mi accorgo che certi comportamenti m’infastidiscono anche se
non mi so spiegare il perché. Forse, semplicemente, m'infastidisce la corte di
Salvio perché sono innamorata di Stefano e di tutti gli altri mi disturba
perfino la vista. Le compagne di facoltà e di collegio, però, lo hanno subito
adocchiato per la sua bellezza mediterranea su una statura insolitamente
nordica, per gli occhi arabi, l'abbronzatura naturale tutto l'anno, il sorriso
ironico e i muscoli da statua di Policleto che s'intuiscono perfino dal
pullover. "Cosa mai vai cercando?" mi chiede anche Federica che in
queste cose vede spesso giusto, e aggiunge che Stefano è solo l'incarnazione di
un astratto desiderio. Ma io vado cercando proprio quelle emozioni che Stefano mi suscita e Salvio no, forse perché
il primo è misterioso e cangiante come i cieli della nostra terra e l'altro
troppo esplicito anche nel suo
desiderarmi, e mi spaventa.
Non lo so perché poi il
sesso mi spaventa tanto, mentre quando ero piccola mi attraeva
inconsapevolmente la sua forza primitiva, la sensazione incandescente che mi
procuravano le prime esplorazioni corporee, la curiosità per gli attributi
sessuali degli altri bambini. E nell'adolescenza, a letto, nelle notti senza
sonno mi sentivo bruciare, ma resistevo e per non cadere in tentazione mordevo
il lenzuolo insalivandolo e poi bucandolo con i piccoli canini affilati. Forse
è per il disprezzo che avverto ancora adesso nei commenti per quelle "che
la danno facile", che "si fanno mettere le mani addosso davanti e
didietro", che sono "poco serie". O magari demi-vierges. Parole
come scudisciate. E io mi lascio frustare come nei paesi africani frustano le
adultere e le donne per male.
Sulle semivergini comunque
ho fatto molte fantasie, su quelle ragazze che la danno e non la danno, che
danno tutto ma solo al di qua del confine, sacra soglia di tempio varcata la
quale sarebbe disonesto indossare l'abito bianco da sposa. Perciò tanti abiti
color avorio.
Ma come si fa poi a essere certe
che quel confine sia rimasto intatto? Mia madre dal ginecologo non ci va mai,
ha il terrore delle malattie ma è fatalista, figuriamoci se ci porta me, e poi
avrei vergogna e paura, anche se io l'amore vero non l'ho fatto mai, ma potrei
essere caduta da piccola quando giocavo sfrenatamente sui sassi aguzzi della
spiaggetta istriana e l'imene (termine che ho imparato a scuola studiando
anatomia) potrebbe essersi rotto per una caduta. Oppure potrei essere stata
violentata, sempre da bambina, forse nel sonno, e magari è per questo che ho
tanta paura del sesso. Se no che significato avrebbero quelle immagini mentali
che mi appaiono nel dormiveglia, quando mi pare che il mio corpo diventi piccolissimo
e come avvolto, o sovrastato da un involucro enorme? Uno stupro rimosso? Che altro?
"Potrebbe essere un
ricordo di vita intrauterina" azzarda Alex e probabilmente ha ragione, ma
l'ipotesi non riesce a darmi tranquillità, e continuo a fantasticare sulla
terrificante "prima volta", quando il mio ragazzo o marito si
accorgerà che non sono più vergine e io non potrò fornire alcuna spiegazione e
in ogni caso non mi crederà: come si fa a credere a fantasie di stupro o di
accidentali cadute su sassi acuminati?
Alessandra, che dopotutto è
anche comprensiva e di sicuro meno nevrotica di me, pensa che tale eventualità
sia altamente improbabile. Federica prende invece un'aria assorta, come se la problematica le fosse del
tutto indifferente.
"Federica - mi confida
Alex - il salto lo ha già fatto, ne sono sicura, e non avrebbe problemi se non
ci fosse quella sua famiglia così severa. Che d'altra parte è una protezione,
una sicurezza per una come lei". (Come lei come? penso ma non chiedo).
*****
La mia famiglia invece è mia
madre, che è sempre così lacerata, così divisa fra l'immagine delle nostre
isole e penisole sparse di ville e giardini, illuminata dal ricordo della
passione per mio padre che resta il sogno intatto di un perfetto (perfetto?)
impossibile, e la vita quotidiana accanto a un uomo che ci
protegge davvero anche se in un suo modo brusco e introverso, senza comunicare
se non con i fatti. Un uomo per cui prova gratitudine ma anche rabbia perché
non è l'altro, quello che non l'ha voluta come oggi Stefano non vuole me. Di
sicuro è per questo che m’incaponisco a cercare chi non mi vuole, anche se,
invece, esito a ricalcare la seconda parte del copione materno, accettando
magari la corte di Salvio che un po' mi piace ma non amo. Io però non ho nessuna
bambina da crescere, io sono libera.
In corriera, il tempo è
volato mentre parlavamo del più e del meno, per non affrontare le cose che
premevano davvero, ma la vicinanza di Salvio mi comunica mio malgrado una
sensazione piacevole che si dirama in ogni cellula del mio corpo. Ha un buon
odore di sigarette e dopobarba agli agrumi, due braccia forti di cui percepisco
i fasci di muscoli contro i miei, bei denti candidi nel sorriso ironico.
A Piazzale Roma lui si
stacca con fatica da me, promette ancora di telefonarmi, e mentre salgo
sull'imbarcadero e poi sul vaporetto in partenza e lo vedo fermo a guardarmi,
alto come un normanno e con l'impermeabile svolazzante, mi chiedo se non sto
per caso sbagliando tutto, se non è solo la paura di essere come mia madre a
trattenermi, a togliermi il coraggio di provare a vivere invece che immaginarmi
la vita.
*****
Quando ritorno al collegio,
dopo le vacanze, sfoggio un cappotto nuovo, un cappotto-regalo-di-Natale di
stoffa pelosa grigio perla, con la martingala ("Carpe diem per Martin
Galan" so che mi dirà Federica, la quale giocattola sempre con le parole)
e con le "canne" sul dietro, un cappotto che mi fa sentire grande e
molto elegante. Ho raccolto i capelli in
una coda di cavallo e mi sono truccata un poco, pochissimo e con tinte tenui
perché ho già troppi colori al naturale. Mi aspetto che tutte lo notino, mi
sento finalmente bella anche perché la visita di Salvio, con cui ho passato una
giornata intera a Venezia vagando a caso fra calli e campielli, mi ha rassicurato
sul mio incerto fascino.
Ma nessuna delle ragazze
sembra notare la mia metamorfosi, sono io che invece mi accorgo subito che c'è
una strana agitazione nell'aria, che a cena s'intrecciano commenti sussurrati a
bassa voce, e i visi sono rossi, eccitati. Ci sono Sara e Milena, che ha preso
posto accanto a me (non si era offesa, allora, del mancato saluto: dovevo
immaginarlo, è troppo intelligente). E Alessandra che stasera è seduta a un altro tavolo. Invece manca
Federica, anche se è già lunedì e domani riprenderanno le lezioni. Chiedo di
lei e mi risponde il silenzio. Ma non è un silenzio vuoto, somiglia piuttosto a
quello precario alla fine di ogni conferenza, quando l'oratore chiede se ci sono domande e nessuno ha il
coraggio di rompere il ghiaccio. Finalmente è Sara a parlare con voce atona:
"Federica non verrà più, farà la pendolare, e forse nemmeno subito perché
adesso è ammalata, ce lo hanno appena comunicato le suore". Ma dagli occhi
di Milena capisco che ci dev'essere dell'altro, dell'altro che devo, che voglio
sapere perché Fede, adesso ne sono certa senza ombra di dubbio, è stata la mia
migliore amica in questi pochi mesi così nuovi e intensi.
Milena questo lo sa, e se
prova un filo di gelosia per la nostra amicizia è gelosia buona, è come se ci
ammirasse entrambe e trovasse normale, anche se un po' doloroso, non essere lei
la preferita. Forse lei che pur essendo atea prova interesse per le religioni
perché vuole sapere come gli uomini sconfiggono la paura della morte e le
innumerevoli pre-morti quotidiane, ha appreso dal Buddismo a non soffrire
troppo per le delusioni, a non aspettarsi riconoscimenti e successi, come quei
monaci che compongono i loro sfolgoranti mandala di granelli di sabbia colorati
fino a farne un capolavoro per poi distruggerlo, e allenarsi così a non
soffrire separandosi da ciò che di bello hanno fatto o vissuto.
Cosa prova dentro di sé,
Milena non lo dà mai a vedere: ha sempre una specie di sorrisetto irridente
sulla faccia aperta, con i capelli tagliati corti come un ragazzo, e ben poco
femminili sono anche i suoi vestiti e i modi decisi. Ma gli occhi rivelano
momenti di un'inquietudine che non si permette di esplicitare a parole,
un'inquietudine pudica. Stasera però mi guarda fisso, con uno sguardo d'intesa
che dice ti voglio parlare, da sola, senza Alessandra o Sara o altre, e così
appena finita la vaschetta di macedonia scipita in cui galleggiano due
ciliegine sciroppate che fanno colore ma non hanno sapore, ci alziamo quasi in
contemporanea e ci avviamo, a pochi secondi l'una dall'altra, su per le scale,
verso le poltroncine di vimini del mezzanino. Poi però lei cambia idea, mi
chiede di seguirla in camera sua che, singolare privilegio, è una cameretta
singola, ma molto piccola e senza bagno, così che deve servirsi di quello del
corridoio. Ma lei viene dalla campagna profonda e forse da una casa anche
quella senza bagno, e a queste cose non ci bada. Si siede sul letto, a me
indica una poltroncina rossa: "per l'ospite", spiega abbozzando un
sorriso stentato, ma capisco che ha ben poca voglia di scherzare.
"Sai qualcosa,
vero?".
Fa cenno di sì, sembra per
un attimo ancora incerta se parlare, poi si decide.
"Vedi - attacca con
imbarazzo, come a volersi scusare per un pettegolezzo, lei che è tutto fuorché
pettegola -, sono convinta che attraverso di me è con te che voleva comunicare,
quando è venuta in campagna a trovarmi, la scorsa settimana".
Alzo gli occhi stupita, un
po' gelosa, poi subito comprensiva. Già, avevamo dimenticato di scambiarci gli
indirizzi al momento del saluto, io e Fede, certe com'eravamo (o forse
piuttosto com'io ero?) di rivederci prestissimo.
"'Sai - mi ha detto -
non ci tornerò più in collegio, mio padre me lo proibisce, credo per sempre. In
ogni modo per un pezzo dovrò studiare da sola, perché m'impedisce anche di
frequentare le lezioni. Quello che non sa è che per tenermi prigioniera occorre
la mia complicità...’.
Le ho chiesto cos'era
successo di tanto terribile, ma la verità è venuta fuori un poco alla volta, e
non tutta, ogni frase che le usciva di bocca sembrava un conato di vomito per
liberarsi di un peso insopportabile ma non eliminabile. Tutto è cominciato quel
giorno che è venuta qui sua sorella e tu l'hai ricevuta, te lo ricordi?".
Ricordavo, come avrei potuto
dimenticarlo?, ricordavo perfettamente quella ragazza così perbenino e che
tuttavia senza un motivo ragionevole
m'era sembrata repellente. Un topo
ammaestrato.
"Ecco, era venuta qui
quel giorno perché Alessandra le aveva telefonato, preoccupata, a quanto pare,
per le uscite serali di Fede. Non avrebbe mai voluto parlargliene, le aveva
detto, ma aveva l'impressione che sua sorella corresse dei rischi di cui il
minore era quello di essere cacciata dal collegio, se le suore avessero
scoperto i suoi rientri clandestini alle ore piccole".
Tremo di sdegno, ma nello
stesso tempo sono sicura (insomma, quasi sicura) che Alessandra non sia stata
mossa proprio da cattiveria, ma dal desiderio sincero di evitare a Federica
guai più grossi. La sua solita vocazione da dama di carità ispirata da Dio.
"Ma in fin dei conti
cosa può averle detto, oltre il fatto che rientrava tardi? Con me ha ipotizzato
che uscisse con Stefano, che non è certo un bruto...".
Malgrado la drammaticità del
momento, Milena scoppia a ridere.
"Questa era solo una
punzecchiatura per te. In realtà Alessandra non sapeva niente, ma la sorella di
Federica ci ha messo poco a scoprire
tutto".
"Tutto cosa?".
Milena esita un attimo,
sembra chiedersi se sono abbastanza adulta per accettare la verità.
"Che Federica ha, o
aveva, una relazione. Ecco, una relazione speciale, con un uomo sposato, uno
che sta per separarsi e le vuole bene, ma al paese non può farsi vedere con
lei. E allora l'unica possibilità che avevano di incontrarsi era qui in città,
la sera dopo cena quando nessuno poteva riconoscerli".
Milena ha saputo anche (ma
perché solo io mi perdo sempre tutto?) come faceva Fede a rientrare di notte.
Al paese aveva conosciuto una delle educande povere dell'altro collegio, quello
la cui conoscenza ci era interdetta. Era figlia di una ragazza-madre rimasta
incinta mentre serviva, come domestica,
in casa di un ricco avvocato. D'estate, quando la famiglia era in vacanza, e
solo il figlio minore, studente, era a casa con lei, era rimasta incinta e più
tardi l'avevano licenziata, ma la figlia della colpa doveva essere nascosta,
chiusa in quel collegio dove le ragazze lavano la biancheria dei frati della
Basilica senza prendere un soldo, ore e ore, al freddo invernale e al caldo
acquoso d'estate, mangiate dalle zanzare. Se protestano sono botte, castighi
umilianti, dice Milena che l'ha saputo da Fede. Possono fare il bagno solo due
volte all'anno, a Pasqua e a Natale, e gli altri giorni lavarsi a pezzi con uno
straccetto, senza togliersi un camicione che deve nascondere la nudità anche a
loro stesse. Se però le monache trovano
in giro, magari in qualche cassetto, biancheria intima sporca, gliela calcano
in testa e le fanno inginocchiare nel refettorio, mentre la lettrice di turno
legge a voce alta la storia di Santa Maria Goretti.
Resto allibita, con noi le
suore esigono disciplina, ma si mostrano aperte, quasi moderne. "Noi
paghiamo - mi ricorda Milena - e non siamo figlie di madri nubili". (Io
sì, in un certo senso, lo sono, o almeno lo sono stata, e capisco adesso da
cosa mi ha salvata mia madre). "Ci sarebbe da scrivere un romanzo, su
quelle ragazze", aggiunge, "Fede sa molte cose perché, quando la sua
compaesana tornava a casa degli zii, gliele raccontava. Così hanno fatto un po'
amicizia, e sai, beh, era lei che aveva rubato delle chiavi per farla
transitare, di notte, da un collegio all'altro senza passare davanti alla suora
portinaia". Come facessero non lo capisco ancora, ma il puzzle a poco a
poco si ricompone, Federica mi sembra ora molto più adulta e navigata, con
questa sua doppia vita che avrei potuto intuire ma nella mia ingenuità non
avevo nemmeno voluto sospettare. Come al solito, mi sento cretina. Ascolto i
rintocchi della pendola, mi distraggo per non pensare.
"Non è finita",
riprende Milena, "se fosse tutto qua...". E io a sentirmi sempre più
inadeguata, già mi pareva tantissimo riuscire a sovrapporre le due diverse
Federiche che entrambe corrispondevano a un aspetto della sua realtà. Federica
la cucciola giocherellona, anche se a volte filosofa altre volte scervellata,
Federica dal cognome slavo i cui antenati arrivavano forse dalla stessa terra
di mio padre, Federica che sopportava a stento le prediche di Alessandra ma poi
rideva con lei e con me, commentando i doveri della perfetta amicizia
cristiana. E dal lato in ombra che era come la faccia nascosta della luna,
Federica l'amante, la dark lady che certo si stupiva del nostro gran parlare di
sesso e di purezza e di demi-vierges, e dei goffi tentativi di avvicinamento
che i ragazzi mettevano in atto alle festine. Qual era la vera Federica?
"Il fatto è - prosegue
Milena - che prima la sorella ha inscenato lei una sfuriata, ma quando ha
capito che Fede non aveva nessuna intenzione di troncare quel rapporto, ha
detto tutto al padre e...".
"E lui ha deciso di
punirla togliendola dal collegio e magari dall'università...".
Milena indugia ancora, certo
dalle mie reazioni mi sente davvero troppo piccola, troppo sprovveduta, ma
poi forse stabilisce che anch'io devo crescere,
e riprende sottovoce: "C'è dell'altro, Marina. Suo padre, lo sai, è il
medico condotto del paese. E... quando Federica è tornata a casa prima di
Natale, non le ha detto niente, solo di presentarsi subito in ambulatorio. Qui
si è chiuso a chiave con lei e l'ha obbligata con la forza... ecco, a... farsi
visitare. E' un uomo altissimo e robusto, sai, è da lui che ha preso Federica,
non dalla madre che è una donnina minuta e fisicamente assomiglia alla figlia
maggiore...".
Mi vanno via le forze, spero di non aver capito.
"Ma scusa, visitare
come?".
"Come un ginecologo,
per vedere se era ancora vergine".
"Il padre? La
figlia?".
"Il padre. La
figlia".
Sento la nausea pungere in
gola, risalire in bocca lasciandomi un sapore di vomito fra l'acido e l'amaro,
vedo le manone che frugano come quelle di un macellaio dentro le viscere vermiglie
e umide di Federica, la nostra Federica, vedo gli occhi sbarrati di lei, sento
le sue grida, non riesco più a dire niente, ho la gola gonfia. Quando un uomo
vuole umiliare una donna la riduce a carne, pura carne da macellare, stuprare,
buttare. E se non ce la fa la rende bestia con le parole.
"A un certo punto, il
padre s'è messo a urlare: vacca, cagna, troia, puttana".
Dentro di me ripeto: urlava.
"Lei ha gridato a più
non posso - Milena è ormai inarrestabile -, si è
ribellata, le ha prese".
Dentro di me ripeto: le ha
prese.
"Pugni e schiaffoni a
mani nude e pesanti. Calci perfino, che l'han fatta rotolare dal lettino sul
pavimento. Soprattutto quando il padre ha scoperto che, effettivamente, vergine
non era più. Un'offesa, un affronto personale per lui. Sai, è sempre stato
attaccatissimo a Federica, morbosamente geloso di lei. Sembrava disprezzare la
moglie e l'altra figlia, con loro aveva sempre un'aria di sufficienza, gli
devono sembrare due donne insignificanti, e forse lo sono. Era su Federica che
puntava tutto, e lei lo sapeva. La domenica, fino a pochi anni fa, d'autunno la
portava con sé in lunghe escursioni sulle colline nebbiose, sulla spiaggia
vuota o sul delta deserto del Po. E d'inverno in montagna a sciare, e discuteva
con lei di ogni cosa perché Federica era reattiva e, lo sai anche tu, mai
banale. Ma una volta qualcosa si era guastato...".
Milena s'interrompe e poi di
nuovo va avanti:
"Perché lui, di ritorno
da una gita, l'aveva stretta a sé all'improvviso e in un modo che a Fede era
sembrato poco paterno, affannoso, capisci?, così mi ha detto e forse non ha
detto tutto, allora lei si era scostata bruscamente e lui si era ripreso, non
ci aveva più riprovato, ma da quel momento il rapporto era cambiato, lei non
aveva più voluto seguirlo da sola, e lui aveva preso a criticarla con
disprezzo, a rimproverarla per ogni nonnulla, ed era arrivato a incaricare la
sorella di sorvegliarla, quando si era accorto che Federica gli sfuggiva".
... E la sorella aveva
incaricato Alessandra di spiarla, e nessuna di noi aveva capito niente...
*****
Si chiamava Ivan, il padre
di Federica, in omaggio alle sue remote origini slave, ed era stato un ragazzo
di campagna, figlio terzogenito del sacrestano del paese. Suo papà, il nonno di
Fede, era un uomo di chiesa, cattolico e osservante anche se nelle sue radici
c'era certamente traccia della religione
ortodossa dei suoi avi.
Ma quelle radici, quella
lontana migrazione si perdevano nella notte di tempi immemorabili: lui viveva
qui e nel paese era il parroco quello che contava, che dettava legge e
prometteva un fulgido futuro trascendente a compenso della povertà immanente. E
come lui anche Ivan si era attaccato agli insegnamenti del parroco, più ancora
che a quelli del Cristo. Il Cristo andava bene sui santini, quelli col Sacro
Cuore rosseggiante sul petto, o nella riproduzione gigante incorniciata sul
muro di cucina, sopra il camino. Un Cristo biondo con i capelli lunghi e
ondosi, per niente ebreo. Un Cristo ariano. Lo stesso del ritratto portato in processione,
due metri avanti a quello della Vergine col manto celeste e il volto mite e
come assoggettato (anche se schiacciava con insospettabile energia, sotto i
piedi, il serpente maligno) che per Ivan era stata il primo ideale estetico di
donna dopo sua madre. Di faccia, le due un poco si somigliavano per gli
occhioni spalancati e il sorriso dolcemente stupito per come andavano le cose di in
questo mondo.
Ma la dolcezza di sua madre
era più che altro apparente, i sacrifici erano il suo credo e del resto proprio
le sue rinunce, con quelle del marito, avevano reso possibili gli studi di
Ivan. In cambio lei chiedeva altre rinunce, soprattutto un'adesione totale agli
insegnamenti della religione, o meglio del suo ministro che prometteva o
minacciava la giustizia ultraterrena per
dar senso alle lacrime di questa vita, ai soldi che neppure bastavano per
comperare la biancheria, sicché lei la confezionava da sola con la ruvida tela comprata al
mercato che sfregava e beccava la pelle come un cilicio. Per dar valore al
bucato fatto con la cenere per risparmiare il sapone, ai servizi quotidiani nelle case del medico e del
farmacista, alle parche cene di molta polenta e poche sardelle.
Ivan Kvas aveva adorato sua
madre anche quando, cresciuto, si era iscritto a Medicina, e in città si era
dovuto scontrare con un modo molto diverso di vedere la vita e soprattutto la
sessualità, ma, pur frequentando di tanto in tanto le prostitute del piccolo
bordello per studenti dove scaricava i suoi robusti istinti, non aveva voluto
rinnegare del tutto gli insegnamenti materni. Ogni volta si confessava, faceva
le penitenze con una gioia masochistica quasi superiore al piacere del corpo
che invece lo lasciava dolente, sfibrato. Malato. Sconfitto nella carne come il
Parsifal del mito. E aveva sognato una donna totalmente pura per mondarsi con
lei e formare insieme una famiglia indissolubile. Aveva forte il senso della
sacralità familiare fondata sul sangue, e gli pareva possibile celebrarla
soltanto con una donna vergine. Non importava che fosse bella, carina bastava
per poterla desiderare senza dover ricorrere alle donne di strada. E così,
quando aveva conosciuto, in corriera, la maestrina che veniva a insegnare al
suo paese da un paese vicino, una biondina un po' insipida ma sottomessa come
dev'essere una sposa, l'aveva subito corteggiata e in poco tempo erano arrivati
alle nozze. Ma forse la biondina non era così pura come aveva creduto, oppure
in lui i lunghi anni di castità intervallata dal peccato mortale avevano agito
come freno, oppure ancora il terrore dell'inferno si era inserito anche nel
rapporto coniugale, fatto sta che qualche cosa era andata storta ed era
cresciuta più storta ancora, e lui ne aveva dato la colpa a lei e lei a lui ma
senza parlarne mai apertamente, di certe cose non si parla, solo per allusioni
ustionanti come una sigaretta sulla pelle (chissà perché gli venivano sempre in
mente immagini di torture). Così entrambi avevano subito voluto un figlio sperando
nel miracolo e forse il figlio lo avrebbe fatto davvero, il miracolo, se non
avesse pensato male di morire al quinto mese di gravidanza, e proprio il giorno
successivo a una gita che lei aveva voluto fare a tutti i costi e che le
sarebbe stata per sempre attribuita a colpa. Il suo compito era far figli, non
ucciderli, le aveva detto. Anche se lui la uccideva con le parole.
Il figlio era maschio, e
dunque le due femmine che erano seguite non potevano sostituirlo, specie
Chiara, la più grande, che era tutta sua madre e suscitava troppo spesso in
Ivan un bisogno quasi sadico di schiacciarla, punirla, annientarla come sua
moglie. A cui aveva fatto smettere l'insegnamento perché si curasse delle
bambine - tanto c'era lui a guadagnare -, ma spesso poi le rinfacciava di
essere una mantenuta, una maestrina di paese riciclata in casalinga. Dopo si
pentiva, quando le vedeva il viso contrarsi sugli zigomi e scarnificarsi,
allungandosi sempre di più, e il sopracciglio destro piegarsi tremolando ad
angolo circonflesso, la bocca torcersi all'ingiù e le palpebre appesantirsi per
il pianto segreto che non ce la faceva a sciogliersi in lacrime liberatrici. Ma
riusciva ad addolcirsi solo fino alla volta seguente, bastava ben poco per
scatenare il suo disprezzo o la sua ira.
Lei si era chiusa in una
malinconia che aveva trasmesso alla figlia maggiore insieme a un senso
d'impotenza, di debolezza, di paura della gente e della vita. Paura di lui,
soprattutto. E rassegnazione ad essere donna. Ma via via che la piccola
Federica cresceva in grazia e intelletto, sia lei che Ivan avevano dovuto fare
i conti con un carattere indocile su cui nulla potevano lusinghe, minacce o
musi lunghi. Federica, fin da piccola, aveva ragionato da sola e si era aperta
una breccia sia nella cronica depressione materna sia nell'inesausta sete
paterna di risarcimento per un qualche segreto torto subìto e non vendicato.
Federica era identica a suo
padre nell'aspetto e nell'acutezza mentale, ma era una creatura libera e
fintanto che la sua libertà non aveva contrastato la simbiosi con Ivan, lui
l'aveva amata senza condizioni. Era rinato con lei. Federica piccola,
l'anatroccolo che lui portava al mare e che vinceva il terrore dei cavalloni
per un suo sorriso. Federica scolara con il grembiulino bianco, che faceva
sempre il tema più strano, Federica adolescente che portava a casa libri di
filosofia o leggeva i romanzi e poi glieli passava, e la sera si raccontavano a
vicenda dei loro compatrioti Alioscia
o Raskolnikov o Pierre Besuchov
come fossero dei vicini di casa. D'inverno, in montagna, lei scendeva giù dalle
piste nere - avevano preso lo stesso maestro di sci, lei era diventata presto
la più brava ma Ivan ne era orgoglioso - e d'estate andavano in camper in giro
per l'Europa e per Fede lui riusciva a portarsi dietro anche le altre due donne
della famiglia.
Alla maturità, Fede aveva
preso il massimo dei voti e lui per premio voleva portarla in aereo in America,
da anni le aveva promesso che avrebbero esplorato insieme i canyons dell'Ovest
e visitato le riserve indiane, lei sì che l'avrebbe fatta viaggiare perché lei
era intelligente, ma Federica si era rifiutata, era un po' che rifiutava tutto
e soprattutto suo padre. Da quando quella sera, tornando da Cortina, lui aveva
accostato la macchina all'orlo della strada con il pretesto di un colpo di
sonno, e poi non ricordava bene, forse aveva davvero sonno, sapeva solo che non
voleva perderla, la sua cucciola lunga lunga coi capelli e gli occhi neri che
guardavano troppo il maestro di sci, l'unica donna della sua vita che era come
se l'avesse fatta lui, lui da solo come Zeus aveva fatto Atena già adulta e in
armi come un maschio, e adesso non poteva rinunciarci, non doveva arrivare un
altro a guardarla con occhi lascivi in cui si leggeva la voglia di spogliarla,
di portargliela via. Non subito, almeno. Forse mai. Non era successo niente di
definitivo, quella sera, almeno a quanto ricordava, aveva riavviato il motore
ed erano ripartiti per la pianura. Ma Federica gli era scivolata via per
sempre. E neanche questo lui lo poteva tollerare.
Quando Chiara gli aveva
detto, due anni dopo, che Fede usciva con un uomo, soli soli nella notte buia
finché andavano a rinchiudersi chissà dove, lui immaginava in una qualche
sordida stanzetta d'albergo, lì per lì non le aveva creduto, e l'aveva
schiaffeggiata, un manrovescio che le aveva lasciato il segno di tutte e cinque
le dita.
"Come lo sai?",
l'aveva aggredita.
"Me lo ha detto una sua
compagna di stanza, le avevo chiesto di darle un'occhiata, lei lo ha fatto per
un mese e in questo mese tua figlia - aveva detto proprio così, tua figlia,
come se lei sola lo fosse stata - è uscita due o tre sere alla settimana...".
Ammazzato. Era rimasto
ammazzato.
"Sei sicura di non
inventare o esagerare? Sei sempre stata invidiosa di tua sorella, perché è
tutto quello che tu non sei e non potrai essere mai...".
"Certo lei è sempre
stata la tua preferita, il tuo orgoglio, e me mi hai sempre disprezzata come se
neanche fossi tua figlia anch'io. Però sei stato tu a darmi l'incarico di
sorvegliarla!".
"Non di sorvegliarla,
idiota, di farle da sorella maggiore, di darle consigli, di rassicurarla".
Non riusciva più a
controllare le parole e nemmeno il tono di voce che si alzava sempre più ringhioso.
"Non è vero!",
stavolta Chiara lo aveva fronteggiato a testa alta in un soprassalto di
dignità. "Mi hai chiesto tu di andare in città, di scoprire che cosa fa,
se si vede con qualcuno. Qualcuno che esiste davvero e (era arrossita ma non
aveva abbassato lo sguardo) di cui tu sei geloso".
La seconda sberla era
arrivata puntuale sbattendole sui denti con un rumore secco, avrebbe voluto
vederglieli schizzar via tutti quanti, quei dentini da coniglio, ma Chiara era
fuggita in lacrime e Ivan non si era placato finché Federica non era tornata a
casa, finché il suo scempio non era stato compiuto. L'aveva frugata così,
incurante degli urli di lei. Senza riguardo, senza neppure desiderio, senza più
affetto. La sua era soltanto vendetta. Anzi giustizia, che se non si fa, qui
sulla terra o in cielo, tutto diventa
lecito, anche tradire un padre andando a letto con un altro uomo. Puttana.
*****
Milena, ora che ha preso
l'aire, sembra non si debba più interrompere, e io, man mano che la storia di
Federica vien fuori, ricostruisco frasi spezzate, riempio silenzi, vedo scene
deliranti, interpreto espressioni che mi erano parse indecifrabili. Chissà se
Alessandra sa qualcosa...
Milena mi legge dentro.
"Fede mi ha
raccomandato di parlarne solo a te, di dire ad Alex che lei sta poco bene, e
basta. E non vuole che nessuno le scriva o si faccia vivo finché non sarà lei a
trovare il modo di tornare in città, se deciderà di farlo". "Sono
molto preoccupata", soggiunge "ma penso che dobbiamo rispettare
questo suo desiderio".
Lo penso anch'io, certo. E
nel contempo mi chiedo come farò senza di lei, lei la ragazza dalle tre A, così
anarchica agnostica amletica, che si domandava come fa ad esistere un altro
inferno più terribile di questo che già abitiamo, vuol dire allora che la
creazione è imperfetta, forse una specie di prova generale. Ma poi subito
rideva e io credevo che scherzasse. Lei così allegra e così triste, piccola e
grande, no, non solo alta, così diversa dalla perfettissima Alex che però, bene
o male, aveva fatto la sporca spia. Mi resta Milena, certo, anche Milena è
importante, anche lei è libera e senza dogmi, anche lei mi vuole bene: ma è
un'altra persona, e le persone non sono intercambiabili.
*****
E' strano. Mentre sono
certissima che ricorderò sempre tutto
del primo semestre di questo primo anno di università, che lo conserverò nel
cervello come un film indelebile, il secondo si stinge già mentre lo vivo,
senza Federica.
Frequento di malavoglia le
lezioni, preparo gli esami alzandomi la mattina alle cinque - sono sempre stata
mattiniera quando studio, nel primo pomeriggio invece mi piace fare la siesta o
sognare a occhi aperti, come fa mia madre -, studio e non m'interessa niente di
quel che studio, mi aspettavo molto dall'università e invece ne sono delusa, i
professori tengono noiosissimi corsi monografici che servono alle loro carriere
più che a noi studenti, fa un caldo afoso, "wet", avrebbe detto
Federica che studiava inglese, e ogni
giornata è sospesa come una nuvola in un cielo immobile, in un'infinitudine
opaca senza vento e senza cambiamento. La vita ha perso azione, ha sbiadito i
colori, è qualcosa che mi grava addosso, mi schiaccia, m'immobilizza,
impedendomi anche di fuggire.
"E' soltanto un calo di
serotonina" dice sdrammatizzando Milena che è l'unica amica rimasta al
collegio dopo che anche Alessandra è partita, ormai da un mese, quasi all'improvviso.
"Farò un salto in
Olanda dai miei genitori e poi andrò a Parigi a fare ricerche per gli
esami" aveva detto. "Tornerò in giugno, ma forse per allora saranno
rientrati anche i miei e così andrò direttamente a casa".
Chissà se la sua è una fuga
dal rimorso: certo non può sapere con esattezza quel che è successo a Fede, ma
qualcosa deve pure aver intuito.
Benché con Alex non avessi
legato come con Federica, mi sento comunque abbandonata. Perché non mi aveva
detto dei suoi progetti, perché mi ha messo davanti al fatto compiuto, come se
di me non le importasse niente?
"In realtà - dice
Milena - le importa solo di se stessa e del suo entourage. Alessandra è molto
ambiziosa, nonostante la modestia che ostenta, per lei conta il successo in
ogni campo, ma non ne fa parola con nessuno finché un obiettivo non l'ha
raggiunto".
Proprio come me che dissipo
i miei sogni raccontandoli, e mi
accontento di vivere nella fantasia ciò che in realtà non vivrò mai. Alessandra
è una formica che accumula o un castoro che scava, costruisce, lavora senza
sosta per realizzare quello che ha in mente. Forse un matrimonio d'eccezione, o
un lavoro d'eccezione, qualcosa che continui a farla svettare sopra gli altri e
a farle raccogliere regalmente gli omaggi degli ammiratori. Come la principessa
Grace.
Di Federica nulla. Non si è
più rivista all'università, qualcuno dice che si sia trasferita in un'altra
sede ma nessuno ha notizie precise, al telefono di casa una voce femminile -
sua madre, sua sorella, una domestica - risponde sempre che non è al paese, in
questo periodo. No, non si sa quando
ritornerà.
Così in quella grande camera
a tre letti, dove ormai per quest'anno non prenderà più posto nessuna nuova
ospite, sono rimasta sola. Niente più Tre Grazie, niente più festine perché
ogni casa è ardente come un forno acceso e poi tutti studiano. Niente più
nemmeno i fuggevoli incontri con Stefano, dissolto anche lui nel nulla dopo la
sparizione di Alessandra e Federica. Non so bene cosa voglio e mi sento
incapace di tutto. Non so volare, o volo troppo basso, perché nessuno mi ha
insegnato a volare alto, o perché porto, e sempre porterò, un pallino di piombo
conficcato nell'ala. Come quell'uccello con la coda verde che nella pineta mi
aveva fatto notare mio padre, un uccello che anche lui volava basso, con
cautela, ogni tanto scendendo a riposarsi su un ceppo della radura. Come i
vecchi che si riposano su una panchina dopo un pur breve cammino. "Vedi?
E' stato colpito - mi aveva detto - da un cacciatore inesperto che non è
riuscito a ucciderlo ma lo ha lasciato per sempre mutilato, incapace di
autosufficienza nel volo".
Non sapevo, allora, anzi non
sapevamo nessuno dei due, che anch'io sarei stata ferita seppure non a morte e
che per sempre quel granellino di piombo mi sarebbe rimasto incistato dentro: a
legarmi i movimenti, a impedirmi di vincere la paura perenne che mi blocca.
Studio sul terrazzino,
ripeto a memoria le frasi sottolineate e ne sottolineo altre ancora con colori
diversi, così le pagine dei miei libri a poco a poco appaiono tutte nevroticamente colorate come flipper, con un
effetto di horror vacui che di sicuro non facilita la sintesi. Mi distraggo a
osservare i fondali chagalliani che si elevano dal chiostro e ora sono dorati
dal sole rovente, seguo con l'occhio le rondini in folle picchiata e le nuvole
che senza parere mutano di continuo profilo e consistenza come i miei pensieri,
ma non ci vedo più preistorici mammuth o dinosauri come quando ero bambina, o
Padreterni benevoli e barbuti. Mi suggeriscono soltanto un'idea di
provvisorietà, di fugacità che però si ripete - forse solo per me - instancabile,
paradossalmente eterna. Bel destino, un'eterna provvisorietà, roba da legge del
contrappasso dantesco. Vanitas vanitatum. E mi fanno affiorare il rimorso per
tutto il tempo che ho ammazzato cercando invano di imparare le materie della
vita su cui non prendo mai voti lodevoli, di sgrovigliare i gomitoli pieni di
nodi e ritrovare un filo da seguire per andare avanti. Con Federica e
Alessandra per un momento mi era sembrato possibile. Con Stefano, ne ero certa,
di una certezza senza prove, quasi una fede, ci sarei riuscita. Ma Stefano si
era volatilizzato come la nuvoletta che avevo occhieggiato poco fa e adesso non
c'è più, svaporata via, e io non riesco più a trovare, da sola, un filo di
senso alla mia vita.
"Forse il senso della
vita è semplicemente vivere, giorno dopo giorno - dice Milena pragmatica -,
cioè sforzarsi di non morire prima del tempo. O anche non stancarsi di
indagarne il senso come fanno i filosofi, ma tanto l'una che l'altra impresa
sono destinate al fallimento, perché come condannati a morte non abbiamo
speranza di grazia, solo certezza di un'esecuzione rimandata a data da
destinarsi, che dipende appunto dal destino".
E' pensosa, ma poi sorride,
sa sempre essere autoironica sul suo filosofeggiare adolescenziale. Stavolta mi
chiude d'autorità il libro e mi dice dài, per oggi basta, andiamo fino al Prato
a prenderci una Nafta (uguale gelato più panna montata più sciroppo di amarena
più una manciata di amarene intere, insomma una bomba di calorie). Vada per la
bomba, sempre meglio che i brodini delle suore che non san di niente e con
questo caldo ti fanno solo sudare.
Ci avviamo sotto i portici,
comodissimi quando piove, mentre se piove a Venezia e non hai l'ombrello come
minimo ti parte via un paio di scarpe. Però i portici, anche stavolta non posso
non pensarlo, restringono e oscurano le strade rendendole simili alle navate di
una cattedrale gotica, sbarrando l'entrata al sole e accentuando quel peso che
devono provare tutti gli abitanti di questa città segreta e malata. Ma qual è il suo segreto e quale la
sua malattia? O, più probabile, sono solo io la malata che ci proietto dentro
il mio male?
"Il segreto è la colpa,
di cui nessuno riesce davvero a liberarsi - mi spiega Milena -, che sia colpa
sessuale o avidità di denaro o smania di potere o invidia per la fortuna
altrui, ma è soprattutto la prima quella che non ti viene perdonata, e che
perciò non ti perdoni".
Già, è la prima, anche se
incomincia a coniugarsi, verbo che usano da qualche tempo sia i genietti di
facoltà sia i Bellissimi, con le ideologie sovversive che iniziano a essere
formulate in riunioni segrete. E che dalla colpa ti liberano rovesciandola
sugli altri.
"Hai mai baciato
nessuno?" mi chiede inopinatamente Milena guardandomi fissa.
A parte i baci rubati alle
festine, quando si balla sulla mattonella e si spengono le luci e il ragazzo di
turno ti suda addosso e tu non ti diverti per niente ma chissà perché non hai
voglia di dargli lo spintoncino educato in cui è specialista Alessandra quando
tutti la vedono, e così continui a lasciarti strusciare e il calore dei corpi
che si toccano diventa quasi piacevole
suo malgrado, specie se ti lasci trasportare dalla fantasia che ci sia uno
Stefano a stringerti fra le braccia e a baciarti, ma gli Stefani anche alle
feste non ti stringono e non ti baciano, forse si conservano incontaminati per
l'Alessandra o altre come lei. A parte dunque i baci-non-baci delle festine,
l'unico bacio vero che mi viene in mente
è quello che mi ha dato Gianni, lo scorso anno, in montagna, in quel
paesino povero ma bello che non ha mai voluto arrendersi al turismo anche se è
ricoperto da folte pellicce di foreste nere e l'acqua dei torrenti risuona di
trombettieri angelici e le pareti di pietra dolomia, pallide al giorno come
nelle leggende alpine, si arrossano di sera come intimidite dalle prime stelle
che cominciano a stremolare nel cielo concavo. Ma gli abitanti hanno sempre
preferito aiutare i figli a emigrare piuttosto che lanciarli in imprese
turistiche, e difatti c'è una valle profonda
che si apre quasi al centro del paese e che non a caso hanno chiamato
California, e i vecchi dai volti incisi di crepacci, che son rimasti a guardia
delle piccole frazioni isolate, si guardano bene dal vendere le terre e i masi.
Perché, se ai figli andasse male laggiù nella Grande Mela o nella Grande
Arancia o addirittura nell'infinito Sud della Pampa, potrebbero sempre tornare
qui, ma da padroni, non a servizio delle multiproprietà o dei villaggi
turistici installati dai signori delle città. Al massimo, i vecchi affittano appartamenti
a buon prezzo, nei mesi estivi, a turisti come noi, gente quasi povera anche se
di una povertà ben dissimulata, o come Gianni, che è venuto quassù per curarsi
gli esiti di una brutta pleurite.
Gianni è comunista tesserato e sindacalista e poeta, ha dieci
anni più di me e per il mio diciottesimo compleanno mi fa ballare diciotto
volte, nella terrazza dell'unica piccola pensione ai piedi del campanile e di
fronte al cimitero dove ogni notte serena si accendono i fuochi fatui. Posto
allegro per noi giovani, dice ridendo, ma altro non c'è. Difatti Gianni mi
porta, una sera, a costeggiarlo, e intanto mi conta la storia dei due montanari
che son saliti sulla croda e non son più scesi a valle, e nessuno ne ha trovato
i corpi, ma nelle notti di bufera loro ritornano a piangere la mancata
sepoltura. E poi mi guida giù sul greto del torrente che si è gonfiato dopo tre
giorni di diluvio e mi sento come la donna del Romancero Gitano di Garcìa
Lorca, anche se io non ho ancora marito. Il sentiero è scivoloso, almeno io
scivolo con le mie scarpette da tennis che fra l'altro mi stanno grandi perché
tutto mi viene ancora comprato in crescita, e allora Gianni mi cinge la vita per
sostenermi finché arriviamo a un grosso masso piatto che si sporge sull'acqua
turbolenta. Ci sediamo. Gianni adesso parla di Marx e di Engels e della Russia
dove andrà la prossima estate se sarà guarito. Poi tace di colpo e comincia a
baciarmi, e le sue labbra rosse e calde, febbricitanti, forzano le mie e la sua
saliva si mescola alla mia e io non provo alcun piacere ma solo un vago senso
di schifo e però sono anche contenta, mi sento promossa al mondo dei grandi
anche se non vedo l'ora che tutto finisca per poter tornare al mio lettino e
ripensare a questo primo bacio che nel ricordo diventerà certo più bello, come
sempre avviene per ogni esperienza del mondo. Quel che è certo è che vorrei che
restasse un episodio isolato, anche se le stelle sono grosse e brillanti come
pietre preziose e la Croda argentea manda bagliori sotto la luna e il fragore
del torrente in piena che c'investe con i suoi spruzzi è una musica degna del
rito iniziatico che si sta compiendo. Ma poi il volto di Gianni cambia
espressione, il corpo prende a contorcersi sopra il mio, cerca di alzarmi la
gonna ma non fa a tempo, e io sento un liquido vischioso scivolarmi sulla
stoffa e sulle mani mentre il suo sguardo, pian piano, si fa di nuovo placato.
"Ci ricorderemo di
questo momento - dice solennemente Gianni, ma mi sembra anche che reprima uno
sbadiglio -, io mi ricorderò sempre del tuo viso bianco di luna e tu ti
ricorderai del canto dell'acqua", aggiunge, anche se lui ha una donna che
lo aspetta in città, una donna che sta per sposare (ma questo non me lo dice e
io lo verrò poi a sapere per caso e ne proverò sollievo e rabbia insieme). La
brezza della notte mi asciuga il vestito, il vento dell'alba me lo fa
raggrinzire.
"Allora non è stato
bello, il tuo primo bacio", riassume Milena il mio racconto confuso e
frammentario. E' stato, penso, forse doveva essere. Anche se non era un bacio
d'amore ma solo di crescita, e per lui, forse, una specie di addio al celibato.
*****
Ma quel che ne resta, dopo
l'estate, è solo il solito maledettissimo senso di colpa, e il bisogno di
lavarla via confessandola a quell'inquisitore che odio ma, nei momenti critici,
ha potere decisionale sulla mia vita, fino al punto di influenzarne i dettagli:
è lui che dice no al bikini (anche se lo porto lo stesso, ma lo stesso torno a
confessarmi), è lui a dividere il mio corpo adolescente in zone buone (quali?
il naso? i capelli?) e cattive ("le parti basse", così lui le
definisce in gergo burocratico da
confessionale, ma anche la bocca e le mani e gli occhi non sono sempre
innocenti!), e a me pare di stare in una macelleria dove la carne rosea è
esposta su freddi banconi metallici, o in un altrettanto gelido ambulatorio
ginecologico.
Incomincia ogni volta
con un:
"Ti sei toccata?".
"No. Beh, lavandomi, certo....".
"Hai provato
piacere?".
"Non saprei, forse
no...".
"Forse no o forse
sì?".
"Forse sì".
"Sta' attenta, è un
piacere cattivo!".
Poi si passa ai baci.
"Hai baciato
qualcuno?".
"Sì".
"Dove?"
E' il momento della verità,
si può morire tacendo o si può morire parlando.
"Vicino alla
bocca".
"Vicino o sulla?".
E' il momento della verità
delle verità, si muore evitandola e si muore toccandola. So che secondo lui le
ragazze virtuose non baciano i ragazzi, e le ragazze semi-virtuose li baciano
sulla guancia, quando son voltati. Non un millimetro più in là.
"Sulla bocca".
Sento il suo respiro farsi
più rumoroso, al di là della grata.
"E lui ti ha
baciata?"(Che domanda!).
"Sì".
Quando l'argine è rotto, la
piena dilaga, non la puoi fermare.
"Dove?".
Rispondere è come toccare un
filo scoperto con la corrente elettrica, sono appena stata folgorata, devo
proprio bruciarmi.
"Vicino alla
bocca".
Io so che secondo lui le
ragazze virtuose non si fanno baciare dai ragazzi, e le ragazze semi-virtuose,
quando un ragazzo sta per baciarle, si voltano di scatto, in modo da offrire la
guancia. Non un millimetro di più. Bisogna sempre poter convincersi che i baci
siano stati non-baci.
"Vicino o sulla?".
"Sulla
bocca".
"A labbra chiuse o
aperte?".
Silenzio e debolezza, tanta
debolezza che potrei morire. Poi:
"Aperte".
"Baci colombini,
allora. E' peccato. Peccato grave. Non farlo più. Mai più".
Prometto, con le forze che
mi restano. Nel proponimento, un pensiero astuto, maligno, satanico: mi erano
piaciuti di più i baci-non-baci dei baci colombini.
Si rilassa.
E tutto sommato, nel suo
computo ragionieristico-voyeuristico (forse anche statistico) non mi sembra
sconvolto dai miei imbarazzati resoconti, che mi costano perché temo di essere
sacrilega se non li faccio ma insieme mi vergogno di piegarmi a questa
umiliazione e mi chiedo cosa potrà mai importare a Dio che sopporta le guerre e
gli assassinii e tutte le altre iniquità del mondo che ha creato. Ma quando
sente che lui è comunista, avverto nel suo subitaneo silenzio come uno scatto,
infatti si dimentica delle distinzioni corporali e mi chiede "di fare un
sacrificio, una rinuncia indispensabile". Essere comunista è dunque peggio
ancora che commettere atti impuri, traduco dentro di me. E siccome da parte mia
non ho nessuna voglia di continuare questa storia senza senso mi dichiaro, con
molto sollievo, pronta a sacrificarmi come l'agnello pasquale. Così lui
soddisfatto si dimentica perfino di darmi la penitenza in preghiere, e io esco
di chiesa allegrissima per essermi liberata in un sol colpo di Gianni e dei
sensi di colpa. Forse è questo il bello del cattolicesimo, che non ti lascia
mai a lungo a tu per tu con la tua coscienza, la quale può essere molto severa
perché sa quali fogne albergano in ciascuno di noi, sotto, molto sotto la
superficie. Non ti lascia mai solo con i tuoi dubbi, perché ti scodella la
verità bella e pronta perché "rivelata", oppure prodotta da menti
illuminate che hanno diritto di scegliere per te. Tutto, perfino i roghi se
servono a salvare le anime. Non ti lascia mai solo con la colpa, con la
macchia, ma ti indica un detersivo universale capace di scioglierla
all'istante, qualunque essa sia. E' una religione drammatica perché ha al
centro una vittima, perché ci fa sentire vittime (o carnefici, o alternativamente
vittime e carnefici), ma in un certo senso anche allegra e vitale, perché tutti
gli orrori li puoi cancellare con un atto di pentimento davanti a una persona
diversa da quella che hai offeso o fatto soffrire.
Milena sorride, io le
sorrido di rimando anche se la malinconia resta fonda in entrambe, come la
solitudine seppure siamo in due. Perché io amo Stefano per il quale sono
trasparente, e Milena ama me che neppure (ma è proprio vero?) me ne accorgo.
La Nafta scende giù soffice,
per un poco ci addolcisce tutte e due.
*****
A Federica scrivo una, due,
tre lettere. Tutte senza risposta. Arriva, invece, una busta rettangolare
azzurro-polvere con una sigla stampigliata in caratteri eleganti che
riecheggiano il liberty. Sono le iniziali intrecciate di Alessandra. Spero
assurdamente di trovarci qualche rivelazione o qualche indizio sulla scomparsa
di Federica, o almeno qualche parola di amicizia per me. Ma la lettera sembra
una guida turistica o un reportage giornalistico per riviste femminili.
Apprendo dell'esistenza di canali immobili in cui si specchiano, ormai immobili
anch'essi, vecchi mulini ad acqua. Di campagne ove pascolano sonnacchiosi greggi di pecore su
smaltate praterie, naturalmente smeraldine. Infine che la Ville Lumière ha
dispiegato tutte le sue luminarie apposta per lei, e lei alterna biblioteche
austere, musei e vagabondaggi sulle rive della Senna, fermandosi a curiosare
nei baracchini dei bouquinistes o risalendo le viuzze del Quartiere Latino
sulle tracce - chissà perché proprio Alessandra - di Sartre e Simone de Beauvoir.
E' una lettera che mi
suscita un po' d'invidia (ma perché non mi aveva detto niente?), un po' di
rabbia (perché non dice niente di Federica?), un po' di delusione (perché è
sempre così decorativa?). Ma è pur sempre una lettera di Alessandra, e
Alessandra, si sa, o l'ammiri incondizionatamente o ti suscita invidia, rabbia
e delusione.
Decido di andare di persona
a cercare Federica. Anche se lei non vuole vedermi. Alea iacta est.
*****
Oggi fa meno caldo del solito
perché stanotte ha diluviato, e l'asfalto è pieno di pozzanghere che riflettono
frammenti di arcobaleno. La strada è quella che faceva ogni settimana Federica
quando tornava a casa sua, così mi sembra di fare un pellegrinaggio. Ma
pellegrinaggio è una parola triste, evoca qualche cosa d'irreparabilmente
perduto o santificato e Federica non è, non voglio che sia, perduta, tantomeno
santificata. La città mi viene incontro, stavolta non con i portici gotici o le
cupole bizantine o i campanili orientali sottili come minareti, questa qui è la
città delle strade e piazze fasciste con gli alti, boriosi palazzi del potere.
Poi si sfilaccia in una periferia di villette con giardini popolati di statuette dei sette nani, o di
condomìni brutti e pretenziosi, appena costruiti e già scrostati, coi
pianterreni ancora allagati dal nubifragio. Ma in fondo allo stradone si
delinea nitido il profilo delle colline dalle verdi forme tondeggianti, morbide
come seni di donna. I casolari di mattoni rossi, col portico e il fienile
adiacente, cominciano a essere disertati dai contadini che si costruiscono
villette cubiche a due piani, senza tinteggiatura per motivi di risparmio:
quella può aspettare, tanto la bellezza cosa conta? È il mattone che conta.
Mentre i cittadini più furbi comperano per due lire le vecchie fattorie con il
progetto di ristrutturarle in case da week-end. La passione di questa gente per
i soldi e gli affari, anch'essa nascosta come il peccato sessuale, esplode
nelle occasioni di morte, quando si devono dividere le eredità, in liti forsennate tra parenti serpenti. I giardini e
i palazzi si celano dietro facciate austere, quasi spartane, i soldi non
vengono ostentati eppure si deve sentire che ci sono, che valgono, forse più di tutto.
La corriera ha una tromba stentorea
che intona a ogni curva un motivetto volgare. Lo stradone, che va
restringendosi via via che ci allontaniamo dalla città, ha una svolta a sinistra che s'inerpica sui monti
diventando poco più che un sentiero per vecchi ciclisti in maglietta sportiva.
Da un lato, ci lasciamo alle spalle l'abbazia benedettina coi severi bastioni
attorniati di vigneti carichi di uva acerba. Qui, in questa abbazia, s'è
convertito Totila. Finché la strada,
ancora mal asfaltata, arriva a un centro abbastanza grosso dove la corriera fa
sosta per dieci minuti, così scendo in un negozio di alimentari per farmi un
panino, perché nonostante tutto sono sempre affetta da fame nervosa
("Carenza d'amore" ridacchia Milena imitando lo stile di Alessandra,
"fortuna che hai un metabolismo perfetto, non come me che ogni cosa che
ingoio si trasforma in ciccia"). Il panino lo faccio riempire di burro e
mortadella e si scioglie in bocca, e solo allora mi ricordo che somiglia ai
panini che mia madre portava nella sporta di rafia al mare istriano e ce li
mangiavamo nelle radure bevendo aranciata o mish-mash, cioè sempre aranciata ma
corretta con un po' di vino rosso, e
avanzavamo ogni volta qualche pezzettino di pane da sbriciolare per gli
scoiattoli e gli urogalli della pineta.
Senza accorgermene, faccio sempre le cose che faceva la mamma, ma
provandone fastidio non appena me ne rendo conto, mentre le cose che fa la
nonna e che dovrebbero irritarmi, perché la nonna sembra uscita da un'altra era
e un altro mondo, mi fanno tenerezza, al massimo mi strappano un sorriso.
La corriera riparte, sempre
strombazzando, si arrampica fra basse pareti verdi che introducono, dai
finestrini aperti, odori aspri di mentuccia, dolci di caprifoglio, pungenti di
conifere, risvegliandomi l'olfatto addormentato. Finché la strada si allarga di
nuovo rivelando antiche ville guardate da statue bianche immerse in giardini
francesi, dove cinture di bosso s'intrecciano in labirinti costruiti per i
villeggianti di due secoli fa. Anch'io sto penetrando in un labirinto, alla
ricerca del mostro che tiene prigioniera
l'amica perduta.
Siamo arrivati. La piazza è
proprio brutta, pensata senza alcun senso estetico, dominata da una chiesona
vagamente rinascimentale. Un'edicola-tabaccheria, il municipio, la farmacia e
tre o quattro negozi: il centro è tutto qui. Chiedo qual è la casa del medico
condotto e mi viene indicata una stradina tutta villette e siepi ben potate. La
casa è l'ultima a destra e non è una casa anonima, ma una costruzione del primo
Novecento che somiglia alla mia, anche qui attorno alle finestre sono stati
disposti dei mattoni rossi in modo da formare delle arcate. Al piano superiore
c'è una grande terrazza con ombrelloni a righe bianche e marroni, nel giardino
sonnecchiano per mancanza d'uso un'altalena e un gazebo, e in alto si slancia
una torretta dove, dai suoi racconti, dev'esserci la camera di Fede.
Federica aveva scelto, verso
i quindici anni, di stare nella torre che allora non la faceva sentire
prigioniera ma al contrario più libera, più in alto di tutti, lontana dal gelo
che intuiva fra i suoi genitori. Bastavano quei trenta scalini a separarla
dalle prediche ansiose della madre, dai ricami che pretendeva di insegnarle (a
punto erba, a punto croce, a punto
quadro, a punto catenella), dal buon senso e dalla gelosia della sorella, dalla
presenza smisurata di suo padre. Adorante e soffocante. Troppo disponibile.
Troppo indagatore. Non nel modo meschinello di sua madre, certo. Lui non
leggeva i suoi diari senza permesso, non origliava le sue telefonate, però,
quando la sorprendeva al telefono, il volto gli s'incupiva impercettibilmente.
Non intercettava le sue lettere. Semplicemente c'era, c'era sempre a invadere
il suo spazio, in ogni momento importante. C'era con il corpo grande e grosso e
caldo che quand'era bambina le era sembrato il più confortevole dei rifugi.
C'era con il pensiero che voleva spiegarle ogni cosa, interpretarle ogni
frammento di realtà. Con il suo giudizio inappellabile.
"Non mi piace come ti
sei vestita, oggi. Non ti sta bene, ti fa sembrare una vecchia".
"Non mi piace questa
espressione che hai usato, è sciocca e volgare, la dicono tutti e non significa
niente".
"Quel ragazzo che ti ha
accompagnato mi sembra un mediocre, sa dire solo banalità".
Lui non diceva mai banalità,
ma spesso pronunciava sentenze spietate, e perché queste sentenze non ferissero
anche lei, Federica si sforzava di compiacerlo, almeno si era sforzata di farlo
fino a quel giorno in cui lui l'aveva stretta a sé con il respiro affannoso,
con le mani brancicanti attorno al suo corpo e gli occhi famelici. Per un
minuto, o forse pochi secondi, lunghi però come una vita. Da allora lei aveva
smesso di essere la sua bambina, nella torre ci stava rinchiusa a pensare, a
calmare, alla vista della pianura che si allargava azzurra fino alla città, il
tumulto degli interrogativi senza risposta che non poteva porre a nessuno.
Era fiera, Federica. Si
rivelava solo in qualche parola che pareva sfuggirle per caso. Come quando le
avevo detto che io avevo avuto due padri ma era come se non ne avessi avuto
nessuno. "Se potessi dartene almeno metà del mio!", aveva sorriso
soltanto con le labbra. E io avevo capito solo dopo. Molto dopo. Troppo dopo.
Sento il cuore martellarmi
sulle tempie, ai polsi, sulle vene del collo, dappertutto tranne che al posto
giusto, non c'è mai niente di normale nel mio corpo, ma premo lo stesso il
bottone del campanello perché non posso più aspettare, devo sapere, devo
ritrovare Federica. Federica, sono qui.
Risponde solo il latrato di
un cane che esce dalla sua baracchetta legato a una lunga catena e si avventa
contro il cancello. E' un doberman nero e asciutto con l'aria feroce che gli
compete. Mi accorgo infatti che la scritta "Cave canem" è ben
visibile su uno dei pilastri che delimitano l'inferriata. Suono di nuovo, anche
se nel frattempo ho scoperto che tutte le imposte sul davanti sono accostate,
mentre sono aperte, e fissate al muro con ganci arrugginiti, due finestrelle
laterali, velate di tendine bianche. C'è
qualche cosa di fatiscente, in questa casa, come se già da un pezzo i suoi
abitanti avessero smesso di provare gioia di vivere, di progettare o anche solo
di immaginare un futuro. Sono così le case dei vecchi, e difatti forse qualcuno, lì dentro, o tutti
per una sorta di epidemia familiare, sono invecchiati precocemente.
Finalmente si fa sulla porta
un uomo alto e robusto, no, non anziano, eppure come appassito. Anzi consumato.
Mi squadra interrogativo, poco accogliente.
"L'ambulatorio è
chiuso, non ha letto il cartello?".
Macché, non l'ho letto, sono
così distratta che non potrei mai fare l'investigatrice, e neppure la
giornalista, mi sfugge tutto perché ho la testa sempre occupata dalle mie
sciocche fantasticherie ("Ma perché ti svaluti sempre?", sento
arrivarmi la voce di Milena che ormai mi fa da coscienza critica come il grillo
di Pinocchio, "le fantasie aiutano a vivere, sono i poveri di spirito
quelli a cui non sfugge niente, specie dei fatti altrui"). Tossicchio,
cerco di mantenere ferma la voce e
attacco con finta disinvoltura:
"Ecco, veramente non
sono una paziente, sono una... una compagna di Federica. Ha dimenticato in
città degli appunti, volevo restituirglieli, ma in collegio non si vede più, le
ho scritto e non ha risposto, ho provato a telefonare ma...".
"Federica non c'è -
m'interrompe con voce definitiva -, e non penso tornerà prima
dell'autunno".
Sta per fare dietro-front
senza neppure salutare ma io torno alla carica, e non so dove trovo il
coraggio.
"Potrei almeno avere il
suo indirizzo?".
Esita una frazione di
secondo, anche se non sembrava un tipo capace di esitazioni, poi spara secco:
"Non mi ha autorizzato a darlo. A nessuno. Quanto agli appunti li può
lasciare a me. Provvederò a farglieli avere".
Esito anch'io, perché gli
appunti non li ho, erano solo un pretesto. Poi sparo a mia volta:
"Non sono autorizzata a
darli a nessuno".
Adesso mi guarda con più
attenzione, anzi con evidente sorpresa, non dev'essere abituato alle sfide. Poi
fa l'occhio cattivo e per un attimo penso che mi voglia picchiare, o forse
visitare come ha visitato Federica. Le mie gambe si stringono. Certi
uomini hanno bisogno di denudare le
donne per ridurle all'obbedienza. Invece fa un fischio al cane che si era
ritirato nella cuccia e che torna fuori velocissimo dal canile scagliandosi
nella mia direzione. Faccio appena in tempo a scostarmi dal cancello. L'uomo mi
volta le spalle e rientra in casa, sbattendo la porta con un colpo che
riecheggia come uno sparo.
In paese, nessuno sa niente
di Federica, che "dev'essere in città a studiare". E la madre? E la sorella?
Partite, forse, è un po' che non si vedono in giro neanche loro. Magari sono
nella casa al mare. Ma nessuno sa dirmi dove si trova.
*****
Sto per raggiungere la
fermata dell'autobus, arresa, quando sento
dei passi e la voce di una ragazza, una voce senza espressione, che mi
raggiunge da dietro. "Forse il professor Nordio ne sa qualcosa, perché non
prova da lui? Sta in quel condominio
giallo dall'altra parte della strada. Di solito a quest'ora lo trova, durante
l'estate".
Il professor Nordio? E chi
potrà mai essere? Forse un insegnante delle scuole medie, che Federica deve
aver frequentato qui al paese. Oppure era lui l'uomo con cui Fede s'imboscava
di notte all'insaputa di tutti, giù in città? Ma quel tale era sposato, a
sentire Milena, forse conviveva ancora con la moglie, aveva dei figli. Come
trovare il coraggio d'interrogarlo? Mi avrebbe respinto anche lui, incattivito per la mia invadenza.
Invece non mi respinge e non
s'incattivisce. Quando suono il campanello e rispondo, alla schiva voce
maschile, che sono un'amica di Fede, mi apre subito. Magari la moglie è al mare
anche lei. Doveva essere ben informata, la ragazza senza espressione. Lui
invece ha un'espressione confusa, dolente ma come speranzosa che io sappia, che
gli possa dare qualche informazione. Mi fa entrare nel piccolo soggiorno
modesto, con la libreria in tek e due divanetti in finta pelle, da professore
delle medie con famiglia, appunto. Mi offre un caffè.
"E allora - mi chiede
dopo due secondi -, sa dov'è?".
"No, non lo so, per
questo son venuta qui, ma suo padre mi ha sbattuto fuori".
"E' suo padre la causa
di tutto. Ma nemmeno io so dove si trova Fede adesso. Non mi ha più scritto,
più telefonato. Come svaporata, o persa in un deserto".
Non so come trovare la forza
di continuare, alla fine mi butto:
"Ma lei, lei è un amico
di Federica?".
Cerco di sovrapporre le
poche cose che so dell'uomo di cui Fede "aveva bisogno" su questo
tipo in tuta e scarpe da ginnastica, con un volto scarno e ascetico e la barba
lunga di due giorni. Uno che ha gli occhi gonfi e arrossisce spesso, ma non
sembra per timidezza. Piuttosto per una specie di furore trattenuto.
"Un amico, sì, credo di
poter dire che sono un amico. Ma un amico che doveva nascondersi, mi
capisce?".
Non so se capisco. Nascondersi
dal padre di Federica di certo, forse anche da una donna, da paesani pettegoli
e occhiuti, dalle suore giù in città, dalle amiche non così poco sveglie come
me.
"Io a Fede voglio bene
- aggiunge dopo un attimo sollevando la testa -, e sono molto preoccupato per
lei, ma non posso fare niente per ritrovarla".
Penso che non abbia altro da
dire e che stia per congedarmi, sia pure in modo più urbano del padre di
Federica. Faccio per alzarmi ma lui all'improvviso mi fa cenno di aspettare e
riprende a parlare, benché con sforzo evidente.
"Fede è stata mia
scolara alle medie - conferma la mia supposizione -, io insegnavo lettere, e
insegno ancora, giù in città. Lei era la più intelligente della classe, la più
originale. Nei temi non ripeteva mai quello che insegnavo, piuttosto lo metteva
in discussione, esprimeva i suoi dubbi e le sue opinioni".
Anche allora, penso ma non
dico. E lui continua:
"Era una ragazzina
molto allegra, avida di vivere. Solo ogni tanto il suo sguardo si faceva
assente, come se inseguisse un pensiero segreto. Durava tre, cinque minuti. Poi
si risvegliava e ricominciava a parlare, a far domande, commenti. A volte era
presa da un riso irrefrenabile, altre volte, specie quando leggevo in classe
una poesia che la colpiva, diventava serissima. Il giorno dopo la sapeva già a
memoria, senza che nessuno l'avesse obbligata a impararla. Sua madre, le rare
volte che veniva a colloquio con me - perché di solito, sa, ci veniva suo padre
-, mi sembrava preoccupata. Diceva che Fede non voleva mai andare a dormire,
che leggeva fino a notte fonda. Leggeva di tutto, dai fumetti ai classici, già
allora. Stevenson, Conrad, Dickens, perfino Dostoevskij. Le sembrava ingorda di
conoscenza, e lo era, ma in modo felice, non come compensazione...".
"E suo padre, sua
sorella?".
"Oh, sua sorella è
molto diversa, e forse è sempre stata gelosa. Una brava ragazza, molto legata
alla madre. Del padre, invece, era come un'innamorata respinta, lui vedeva solo
Federica che a quell'epoca, quando era adolescente, lo considerava un eroe, un
maestro. Capivo che era un legame molto, forse troppo stretto, e per questo
cercavo di sostituirmi, almeno come insegnante, a lui. Ma lui ne era
infastidito e contraddiceva, con lei, tutto quello che io cercavo di
trasmetterle. Senza rendersene conto, forse, voleva esserle indispensabile,
unico, e faceva terra bruciata di tutti gli altri suoi rapporti. Anche per
questo Fede è cresciuta con tanti dubbi...".
"E dopo?".
"Dopo io mi sono
trasferito in città e sono tornato qui solo lo scorso anno. Mi sono sposato,
nel frattempo, ho avuto un figlio. Adesso sta spaccandosi tutto, ma avevo
ritrovato Federica e negli ultimi tempi la vedevo spesso. Finché lui non l'ha
mandata via, o lei non è scappata".
"Ha qualche idea sul
perché?".
Lo so il perché, ma cerco
una conferma. O spero in una smentita.
"So solo che da un
anno, o forse più, il rapporto fra di loro si era incrinato. Lei aveva preso le
distanze, qualche volta faceva del sarcasmo pesante su di lui. Ma non mi ha
detto niente di preciso. Intuivo che aveva bisogno di un altro appoggio, e
questo non poteva arrivarle da nessuno della sua famiglia".
"Forse lo aveva trovato
in lei...".
"Lo pensavo anch'io, ma
può darsi che abbia sbagliato tutto. Pensavo, vede, che avesse bisogno di me
anche come uomo, come compagno. Invece era un altro padre che andava
cercando".
Avverto un crescente
disagio, un imbarazzo ad andare avanti. E insieme un desiderio di sfogo.
"Lei è Marina,
vero?".
Già, non mi ero neppure
presentata.
"Sono Marina",
confermo.
"L'avevo capito subito.
Mi raccontava molto di lei... Ma mi scusi, sto parlando troppo, so che anche
per lei Fede era - si corregge - è importante".
Fa una pausa.
"Per me era unica"
(dimentica di correggersi).
Forse vorrebbe continuare,
esita ancora, poi tace definitivamente. Il caffé si raffredda nelle tazzine che
nessuno dei due ha toccato. Non voglio insistere. Se nemmeno lui sa dov'è, vuol
dire che dev'essere prigioniera (o finalmente libera) da qualche parte dove non
può o non vuole comunicare con nessuno. Magari l'ha fatta rinchiudere nel
reparto psichiatrico di qualche clinica, quello là, o perfino in un convento.
Forse simile al convento delle figlie-di-nessuno annesso al nostro collegio per
signorine-bene. Devo accontentarmi del
racconto di seconda mano di Milena, destinato a me che son costretta a tenermi
dentro il mio segreto come il professor Nordio deve tenersi il suo. E
immaginare, soltanto immaginare il resto della storia. Forse una storia
d'amore, forse di ribellione. O di risarcimento.
*****
I giorni precipitano verso
gli esami. Ma sento il bisogno di parlare con qualcuno che, per una volta, non
sia Milena. Vinco la ritrosia, chiamo Stefano e, miracolo, sembra entusiasta di
sentirmi. No, di Federica non sa niente, neanche di Alex, a dire il vero, aggiunge
con falsa disinvoltura. Sì, sta studiando, deve dare Procedura Penale, poi
andrà in Inghilterra, in un college dell'Oxfordshire, e alla fine (o prima,
parla a velocità supersonica e in tono eccitato, per cui non riesco a capire
bene) passerà un mese in montagna, con la famiglia.
"Dove andate?"
chiedo, io pure con finta nonchalance.
Nomina un piccolo paese in
una valle parallela a quella dove avevo passato le vacanze dei miei
diciott'anni, quello del torrente e dei fuochi fatui e della valle chiamata
California. E del mio primo bacio non-d'amore. Questa qui è una vallata un po'
più chic e più costosa, anche se non più bella, ma io, prima ancora di
riflettere, mi sento sicura che riuscirò
a convincere i miei a cambiare i programmi di vacanza.
"Davvero? - mi sento
replicare ancora una volta stupita del mio inconsueto ardimento - che
combinazione, credo proprio che anche noi andremo lì. I miei stanno trattando
l'affitto di una casa per la stagione e concluderanno giusto nei prossimi
giorni".
Si mostra entusiasta, ha
espressioni di un'euforia che pare sincera, progetta gite ed escursioni, il mio
cuore fa capriole anche se temo, per
esperienza, che non siano progetti affidabili. Quante volte mi aveva detto:
"Uno di questi giorni ti porto al cinema". Oppure: "Domenica si
potrebbe andare a sciare, non so ancora se sarò libero ma ti chiamo
comunque". Poi non chiamava. Ma stavolta, lo sento, lo voglio sentire, non
sarà così, e quindi devo darmi da fare per convincere i miei genitori, magari
raccontando a mio padre, patito di raccolte, che la zona è piena di funghi e
frutti di bosco.
L'opera di convincimento, in
effetti, risulta più facile del previsto. Manca ancora più di un mese alla
partenza e adesso posso concentrami sugli esami, anche se l'assenza di Alex e
Fede accentua la mia insonnia e la mia ansia. Però c'è sempre Milena, con la sua presenza attenta, e
capisco che su lei posso contare, che mi vuol bene senza condizioni, non come
Alessandra che sembra sempre impegnata a dimostrare la sua superiorità. E nemmeno
come Federica, che da parte sua è troppo impegnata a fare a pugni con la vita.
Milena sa tenersi tutto dentro, cioè tutto quello che la turba e che lei combatte in silenzio, ma è sempre disposta ad
accollarsi i turbamenti degli altri, anzi delle altre, soprattutto i miei.
*****
E' la Paoletta che, un bel
giorno, mi "apre gli occhi". La Paoletta che viene da Venezia come
me, ma l'ho conosciuta solo da qualche mese. Fa Lettere anche lei, secondo
anno. Tutte facciamo Lettere, salvo qualche esemplare raro che fa Matematica
oppure Farmacia, ma tutte quante siamo state programmate per l'insegnamento: un
lavoretto, dice la mamma, niente male, che ti rende autonoma (lei non lo è mai
stata, da quando siamo emigrate, e le pesa) e ti lascia il tempo per badare
alla famiglia: proprio l'ideale per una donna. Sarà per questo che di maschi in
facoltà ce ne sono sempre meno. La Paoletta la incontro in treno o in corriera
nel fine settimana, la vedo naturalmente in facoltà ma lei non abita in
collegio ed è molto fiera della sua autonomia. Vive in casa di un'affittacamere
e divide la stanza con una certa Alice, che, nomen omen, è riuscita a ottenere
il passaporto del Paese delle Meraviglie, cioè quello dei genietti di
Filosofia, e a legare con il più geniale di tutti. Peccato che lei sia atea e
lui invece cattolico, ed entrambi si facciano in quattro per convertirsi
reciprocamente.
La Paoletta, invece, di suo
è un'appassionata di astrologia di cui sa tutto, in secondo luogo di medicina
alternativa, ma fa il possibile e
l'impossibile per sembrare un'intellettuale astratta come Alice, la quale del
resto se la tira sempre dietro (anche se le vieta di parlare di oroscopi fuori
dell'intimità della loro camera). Forse perché è sempre informatissima, la
tiene al corrente di tutti i pettegolezzi - notizie, li chiama lei -
universitari, di cui la sapiente amica va ghiotta. Paoletta è una veneziana
bionda come quelle della pittura del Rinascimento e delle canzoni che cantano i
gondolieri, ha capelli lunghissimi che ferma anche lei con un cerchietto come
Federica, ma le punte sono rivolte all'insù, e saltellanti ad ogni passo. Gli
occhietti piccoli, furbi e grigi sono sempre fissi su qualcosa come quelli di
un cane da tartufi, e le labbra gonfie e prominenti, da cui sporgono leggermente
due grossi incisivi candidi, le danno un'espressione più avida o infantile, da
fratel coniglietto, che sensuale. Si muove in continuazione, ondeggiando
spalle, gambe e braccia, parla tanto che non si capisce come faccia a
respirare. E oltre che sulle persone, il suo sguardo indagatore punta sulle
cose che, afferma, lo sentono e si lasciano attirare. Infatti è specialista nel
trovare per terra qualche moneta o banconota, e una volta perfino, nella
toilette di un bar, un braccialetto d'oro che sfoggia con fierezza. A volte
fruga perfino fra le immondizie, e, racconta, ogni tanto le capita un colpaccio
di fortuna. "Non avete idea di quello che la gente butta via!". E'
curiosa di tutto. "Dovrei fare la giornalista", sogna ogni tanto ad
alta voce. Effettivamente non le sfugge niente e in più racconta molto bene. Ma
soprattutto le piace interpretare le vite altrui, e quando può, predìre:
l'amore, lo studio, la fortuna. Però sa anche ascoltare, tutta concentrata e
senza distrarsi, introiettando e incasellando ogni cosa come un'enciclopedia.
Agli esami - racconta con orgoglio - è sempre andata bene perché tutti i
possibili riassunti, bignami, manualetti e perfino rubriche di rotocalchi sono
suoi. Ha preso un trenta raccontando un
libro di storia di cui aveva letto solo una recensione di mezza pagina. Il libro,
si lascia scappare, non aveva proprio senso leggerlo, la recensione diceva già
tutto. Del resto è proprio perché è così scoperta che Paoletta è simpatica a
tutti. Quasi a tutti. E di quel quasi ne soffre. Il dolore
più grande sembra provarlo quando non si sente presa in considerazione, allora
diventa sospettosa, non è possibile mentirle, ti fa il terzo grado, anche
perché detesta ogni tipo di mistero, reticenza o metafora, tranne quelli celati
dagli astri. Detesta e insieme ammira, per motivi diversi ma equivalenti, anche
Alex e Federica. Troppo misteriose, appunto. Quanto a me, non lo so. Mi cerca
spesso, da quando mi ha "scoperta" in corriera, ma soprattutto da
quando mi ha vista con Alessandra e Federica, e qualcuno le ha detto che ci
chiamano, ma ormai dovrei dire ci chiamavano, le Tre Grazie. Paoletta è sempre
attirata da ciò che brilla o è colorato, come se avesse bisogno di rischiarare
con una luce esterna una specie di buio opaco che sente dentro e a volte le si
legge nell'espressione, e nell'omega malinconico che le disegna due
leggerissimi solchi attorno alla bocca, quando non sorride. Come se fosse
possibile riempire il proprio vuoto con le vite degli altri. Assomiglia a quei
bambini piccolissimi che sono attirati dai rossetti e dalle collane delle donne
e scappano via dai baffi, dai grigi (e dai vocioni) degli uomini. Alice a volte
sembra essere il suo idolo, di sicuro quando Paoletta è con me, e ne decanta
l'intelligenza e l'originalità come se fossero sue. Altre volte però le sfugge
un commento rancoroso, come se non si sentisse accettata pienamente da lei, ma
solo usata, e forse, segretamente, un poco disprezzata. Dev'essere questa la
segreta paura che l'accompagna sempre: di essere usata perché sa tutto di tutti
(anche il destino), e così ognuno può sfogare il proprio lato più vacuo o
irrazionale senza esporsi in prima persona: semplicemente ascoltando. Usata
come una tecnica di rilassamento, usata per lasciar emergere impunemente una
parte inconfessata di sé. Lei questo lo intuisce anche se lo cancella dalla
coscienza. E allora alterna elogi - per accattivarsi la gente che potrebbe
sfuggirle - a piccole ottuse cattiverie che mette in atto quasi senza
accorgersene, cercando non proprio di metter male fra le amiche, ma di metterle
in competizione fra loro. Oppure mediocrizzando
i pensieri altrui, rendendoli banali e scontati. Ma si riscatta sempre in
qualche modo, perché essere accettata è la cosa che le preme di più.
Oggi viene a prendermi alle
quattro. Volevo studiare Storia della Filosofia, mi mancano cento pagine e
tutto il ripasso, ma i libri mi danno la nausea, il caldo sloffia la mente e
appesantisce il corpo mentre il sole lancia raggi impolverati dalla finestra.
Perciò scendo coi libri in giardino. Alex non si è più vista e Fede non
risponde ai miei messaggi. Milena mi è passata davanti, poco fa, mentre cercavo
di decifrare il flipper di sottolineature policrome del manuale, si è fermata
un attimo, sapevo che se avessi alzato lo sguardo mi avrebbe chiesto se volevo
uscire con lei, certo capiva che avevo bisogno di qualcuno ma temeva di non
essere lei quel qualcuno, e temeva a ragione perché le voglio bene ma in lei
c'è qualcosa che non capisco, che mi lascia allarmata, che non mi dà respiro,
quei suoi racconti a voce bassissima che mi fan dubitare di essere sorda, o
quel suo ascoltarmi famelica come se fossi un oracolo e guardarmi come se fossi
un angelo. E poi quel voler condividere tutto, i libri che leggiamo i film che
vediamo le musiche che ascoltiamo. Mi soffoca. E oggi, anche se sapevo che poi
me ne sarei pentita, l'ho evitata, ho chiamato la Paoletta che - strano - era
libera dai suoi molteplici impegni e dispostissima a uscire con me. Però non
potevo dire a Milena che ero stata io a cercarla, così non ho alzato lo
sguardo, anzi ostentatamente ho premuto sul libro il pennarello turchese che
fin'allora non avevo usato, e lei discreta, in punta di piedi, se n'è andata
via per ritornare in camera sua. Ho scelto anch'io di dar voce a una parte
inconfessata di me che non mi piace.
La Paoletta arriva giusto
adesso con una minigonna viola che le scopre le lunghe gambe perfette (Mary
Quant è appena sbarcata anche qui da noi) e una maglietta di un viola più
chiaro, quasi lilla, i capelli lavati che cadono dritti e pesanti e non
arruffati e ricciuti e tanti come i miei che basterebbero per un paio di teste,
e il solito cerchietto glieli sventaglia sulle spalle come spighe di grano
maturo. Ammucchio i libri, li deposito su un tavolo del salone e schizzo via
prima che Milena possa vederci insieme. Ma la Paoletta, che l'ha adocchiata da
lontano, ridacchia:
"Come sei riuscita a
mollarla?".
Io allora mi sento davvero
Giuda perché come avrei fatto tutti questi mesi senza Milena, però oggi ho
bisogno di sentirmi leggera, di non parlare di Bergman o di Brecht o di Buddha,
e soprattutto di non sentirmi puntare addosso sguardi adoranti oppure dolenti,
da cane bastonato. Così ho optato per quelli indagatori di Paoletta e adesso
faccio fatica a mentirle, a dirle per esempio che Milena sta preparando un
esame e non ha tempo per uscire, perché io
posso anche essere stanca di Milena, qualche volta, ma non tollero che
Paoletta lo sappia, non voglio essere sua complice nel giudicarla. Paoletta non ci crede, a quel che farfuglio,
ma abbozza, anche perché stavolta si sente la preferita, e allora m'impelago, per autopunirmi, in una disquisizione
su un film che ho visto ieri sera con Milena e lei aveva visto con Alice.
"Che palle!"
sbotta subito.
Ma io la contraddico
saccente:
"Ma no, è una metafora
della morte di cui ci sono segnali e prefigurazioni in ogni momento della
vita".
"Questo è ovvio, lo
capiscono tutti" dice lei che non lo aveva capito affatto, come conferma
la sua espressione. Allora tira in ballo Alice "che è la più intelligente
della facoltà (sottinteso: tu invece no, tu sei come me), ma nemmeno a lei è
piaciuto molto", ed è chiaro che la straordinaria intelligenza di Alice è
usata contro di me, che non devo montarmi la testa perché sto sempre con quella
pizza di Milena e da quando la frequento nessuno mi cerca più come quando
uscivo con Alessandra: "Quella sì è una ragazza molto ma molto in gamba.
E' del Leone, vero?".
Cerco di cambiare discorso,
ma lei non molla e torna su Milena, e io giù a dirne bene, tutto il bene
possibile che allora non si capisce proprio perché oggi l'abbia messa da parte,
finché Paoletta implacabile incalza:
"Ma che è lesbica te ne
sarai accorta, no?".
Silenzio mio.
No, non silenzio, perché
riascolto quelle parole, che non ho capito. Qualcuna è lesbica, non so chi.
Silenzio suo, per assaporare
meglio la mia sorpresa. Mio Dio, anche questa mi era sfuggita, come ho fatto a
non accorgermi di niente, in realtà avevo percepito e registrato tutto,
i suoi sguardi e lo starmi sempre addosso, il suo modo di cercare sempre e solo
ragazze, ma non avevo voluto far mente locale, e non perché la cosa mi
traumatizzasse più di tanto ma perché... ecco, perché "sapendo"
sarebbe stato più difficile esserle amica, e sdraiarsi vicino a lei sul suo o
mio lettino, e sarebbe stato impossibile piangere fra le sue braccia
immaginando che... che forse lei desiderava toccarmi o magari baciarmi, e
magari non baci-non-baci, ma baci-baci. Perché io, che pure al mio primo bacio
eterosessuale ero rimasta disgustata o quasi, sapevo per certo (per certo, o
piuttosto volevo esserne certa?) che era un ragazzo-maschio che volevo, uno
come Stefano, insomma Stefano. Però era anche vero quello che Milena aveva
detto una volta, che l'amore è amore per una persona, indipendentemente dal suo
sesso, e che quando una cerca sempre il ragazzo che non può avere è per crearsi
un alibi, per non mettersi alla prova. Ma forse diceva così perché smettessi di
incaponirmi su Stefano e magari mi accorgessi di lei, io invece niente, ottusa
come una mucca.
E così ad aprirmi gli occhi
- espressione violenta che lascia
immaginare un gesto di forza - è stata
la Paoletta la quale, sospettando dal mio prolungato silenzio di aver toccato
il tasto dolente, e quindi giusto, perde interesse all'argomento e si mette
volubilmente a parlare di moda, e squadrandomi con improvvisa concentrazione mi
dice che il mio vestito verde acqua con due nastrini ai lati della vita è sì
cariniissimo (e strascica la seconda i), però la dovrei smettere di indossare
la sottogonna che ormai non la usa più nessuna e del resto neppure le gonne a
pieghe: sono out, la scelta è fra minigonna
e pantaloni, aggiunge con tono dogmatico, oppure quei completini sai come
quelli che porta Jackie Kennedy anche se fanno un po' signora, oppure i vestiti
dell'Alice senza maniche e tutti plissettati da cima a fondo o i tailleur
Chanel dell'Alessandra che per dire la verità è sempre elegantissima, oltre che
bella e "in gamba".
Di Federica invece vorrebbe
aver notizie da me, buona questa,
proprio da me che quello che so non potrei dirlo nemmeno in confessione,
figuriamoci a lei. Allora provo a rovesciare le parti, sentendomi sempre più
imbranata e scontenta, e le chiedo di Alice e del suo nuovo ragazzo geniale. La
Paoletta non sembra aspettare altro, già si è dimenticata di tutto il resto e
si lancia a raccontare dell'ultima riunione a cui quei due sono andati insieme
e poi Alice gliene ha fatto un dettagliato resoconto.
Erano una decina, in un
piccolo bar poco illuminato e defilato nei pressi degli istituti universitari,
e parlavano fitto fitto di qualche cosa come 'Ma-Ma-Ma-ismo', e qualcuno aveva spiegato che il primo Ma
voleva dire "Marx", il secondo "Marcuse" e il terzo
Mao, e poi avevano incasellato tutto l'universo, e stabilito che bisognava
cominciare a forzare le fondamenta di un sistema corrotto e corruttore, che il
PCI era schiavizzato dall'URSS e poco
aperto alle scienze umane e troppo "prude" con il sesso. Datemi una
leva, chiedeva Aristotele, e vi solleverò il mondo. Eccoti la leva, rispondeva
il nostro tempo: ed era il sesso. Certo non erano tutti d'accordo perché
qualcuno si sentiva ancora cattolico e oscillava fra Dio e i nuovi demòni,
dubitando di quelle recenti idee che circolavano in Francia, in Germania e in
alcuni campus americani, però si cominciava a trovare un comune denominatore,
come la lotta alla scuola meritocratica che poi voleva dire borghese, e alla
famiglia altrettanto borghese che castrava i figli per la loro felicità. Da lì
si doveva cominciare, come faceva Alice che già da un anno la dava a tutti
quelli che gliela chiedevano, e adesso la dava anche al genietto cattolico che
le portava da leggere i Padri della Chiesa e Maritain e Bernanos. L'altra sera
Alice le aveva chiesto di restar fuori fino alle undici, alla Paoletta, e
quando lei alla fine era tornata aveva incontrato sulle scale il genietto che
fischiettva con aria ispirata zigzagando destra-sinistra sui gradini saltati a
tre a tre. "E' uno Scorpione,
dunque un mistico che naturalmente ha anche una forte componente erotica.
Peccato che Alice sia Leone, perché sono due segni che si attraggono ma poi non
sanno stare insieme senza litigare".
*****
Si è fatto tardi, per
fortuna, è quasi ora di cena e la nuvolaglia in tre tonalità di grigio che
veleggia verso ovest promettendo di spegnere l'afa mi dà una scusa per tornare in collegio.
Paoletta non fa una piega, per oggi gli argomenti, pardon le notizie, sembrano
esaurite, almeno con me, e così se ne va tutta allegra progettando di rivederci
presto. Ma io a cena, anche se c'è la pizza fatta in casa, cioè fatta dalle
suore, che di solito mi piace tantissimo a cominciare dal profumo di pane
origano e pomodoro, che si diffonde fino all'atrio, invece del solito odore
dolciastro di minestra, non ho voglia di toccare cibo e ignoro gli sguardi di
Milena e quelli di Sara che stasera mi fissa anche se di solito non si accorge
di niente che non sia lo studio o i suoi progetti di scrittura creativa. Così
salgo in stanza dicendo che mi sento poco bene, no no!, non ho bisogno di
niente, solo di chiudere un poco gli occhi, in realtà mi sento un verme
decerebrato che ha vissuto sempre sotto terra, e spero assurdamente che mi
chiami al telefono Stefano (ma lui naturalmente non mi chiama) o Federica, che
chissà dov'è e se c'è ancora, o Alessandra, o la mamma che una volta alla
settimana telefona in collegio per sapere come sta la sua bambina, o perfino la
nonna che quando riparto da Venezia mi mette sempre in valigia un nuovo capo di
vestiario cucito da lei ispirandosi ai figurini di moda anche se poi di moda
non risulta e mi fa apparire d'altri tempi come ha rilevato la Paoletta, a cui
anche di queste cose non sfugge nulla.
Invece stasera non si fa
vivo proprio nessuno, e comunque capisco che non è nessuno di loro che vorrei,
sono tutti dei sostituti di quel papà slavo che non mi ha voluto e non avrò mai
più. Mai più mai più mai più. Un'eternità negativa mi si apre davanti ed ecco
che, finalmente, due lacrimoni mi scivolano giù per le guance, ho l'occasione per sentirmi vittima della
sorte e piangermi un po' addosso - ebbene sì, è poco coraggioso ma così
liberante piangersi addosso - e lasciar uscire con le lacrime d'acqua e sale la
rabbia e la mediocrità che questo pomeriggio mi ha lasciato addosso.
*****
"Pesca?", chiede
il professore. So bene cosa significa la curiosa domanda in un contesto di
esami, ma sentirmela porre così direttamente mi fa sussultare. L'alternativa
alla pesca del bigliettino giallo, con cinque domande scritte a mano in un corsivo elegante, adagiato coi
suoi compagni in un largo vassoio di silver che da lontano sembra pieno di caramelle Ambrosoli, è affrontare
l'esame con le domande inventate lì per lì e quindi con tutti gli imprevisti,
compreso un sempre possibile cambio d'umore del
prof che è appunto un umorale, o un intervento dell'assistente che per
far notare la sua competenza potrebbe buttar fuori una domanda cattiva su un
paragrafo marginale di quelli che non avevo sottolineato con nessun pennarello,
e dunque contempla anche la possibilità di un dodici sul libretto. Con le domande
già scritte sul bigliettino è diverso. Peschi, leggi le domande, e se le sai
accetti il colloquio, altrimenti te ne vai e puoi tornare la sessione dopo,
quando il professore non se ne ricorderà neanche più, o addirittura alla sessione
estiva di Bressanone, dove si va per flirtare e recuperare esami, senza che
nessuno abbia da obiettare niente. C'è chi si ritira solo perché la sua
preparazione sulle cinque domande non è da trenta ma solo da ventisei. Io
Storia Romana l'ho studiata in fretta e male, quest'anno non riesco ad appassionarmi
nemmeno ai Gracchi che quand'ero al ginnasio mi parevano gli antenati dei
sindacalisti, come l'omerico Tersite del resto, che a me era simpatico più
degli eroi aristocratici che lo picchiavano e sbeffeggiavano perché era povero
e brutto. Tantomeno alla vita romana dell'epoca imperiale come ce la racconta
Svetonio o il Carcopino. Quest'anno avrei fatto volentieri un corso sull'amore
(platonico e non ricambiato), sui dolori dell'amicizia o perfino sul lesbismo,
magari cominciando da Saffo.
Però ho già dato tre esami,
Storia della Filosofia e due complementari: una lode e due trenta del tutto
inaspettati, perciò mi sento (almeno in questo) sotto una buona stella, anche
se la Paoletta ha predetto che quest'anno avrò delle delusioni. Pesco, dunque.
La pesca non è di qualità, a quattro domande posso rispondere qualcosa, insomma
cavarmela sia pure alla meno peggio, all'ultima chissà se ci arriviamo, non ci
si arriva quasi mai, la risposta non la so proprio ma decido di rischiare. Ho
bisogno di un'estate libera da date, epigrafi e pandette. Sfodero perciò un
sorriso raggiante (sorridi sempre, mi consiglia la mamma, hai un bel sorriso) e dico che resto. Il
professore prende in mano il bigliettino, lo legge con tale attenzione che
sembra quasi che non lo abbia preparato lui, e consegna il mio libretto
all'assistente, la quale comincia subito diligentemente a compilarlo scrivendo
con la stilografica a inchiostro blu la materia d'esame e la data. A questo
punto già mi preparo a rispondere alla prima domanda su Pompeo che se ne va in
giro per i mari a snidare pirati dai loro covi (i pirati, specie quelli della
Malesia, mi sono sempre stati simpatici), a cui penso già di aggiungere le altre
imprese del tipo, quelle che a quarant'anni facevano piangere d'invidia Giulio
Cesare ai piedi della statua del rivale, quando il prof, chissà poi
perché, decide di attaccare dalla fine,
e io mi accorgo che la testa comincia a vorticare in cerca di parole e che se
non fossi seduta sentirei sprofondare il pavimento come se fosse fatto di
quelle sabbie mobili con cui il mio patrigno si divertiva a terrorizzarmi
rievocando i suoi trascorsi di marinaio. Intanto sento il volto diventare in
tinta coi capelli e farfuglio cercando di scivolare fuori tema, ma lui mi ci
riporta implacabilmente e così smetto di dibattermi e mi chiudo nel silenzio.
Sconfitta. Arresa. Finita. Morta.
Il professore, che dopotutto
è un brav'uomo, si agita un po' anche lui, cerca di instradarmi, ma della
differenza fra le province senatoriali e quelle imperiali (domandina
facilissima, se solo non avessi saltato il paragrafo) proprio non so dire una
parola. Allora mi guarda con curiosità e alla fine mi chiede perché mai sono
rimasta. Perché perché, come faccio a dirti perché speravo che non saremmo
arrivati all'ultima domanda e tu vai a cominciare proprio da lì, come faccio a
spiegare e giustificarmi se tutti, tu, l'assistente, i ragazzi che sono entrati
a sentire il mio capolavoro di esame
(compreso Salvio che è venuto per farmi coraggio) siete lì a guardarmi
come se fossi Niobe impietrita dalla disperazione e a cercar soluzioni che non ci sono perché la regola è chiara: se
non si sa una domanda niente promozione.
"Allora mi
ritiro", balbetto alzandomi.
"Ma ormai, replica lui,
abbiamo scritto la data sul libretto (e scusa, non potresti proprio
cancellarla, metterci su un timbro, che so, una dicitura tipo scritto
per errore, insomma caro mio non hai né fantasia né potere!) e siamo costretti
a scrivere, se non un voto, almeno un Ritiro...".
Così ecco fatto, al quarto
esame il libretto è già sporcato, altro che quello dei genietti che definiscono
il loro "sverginato" al primo
ventinove, io mi porterò l'onta per quattro anni quattro, a ogni esame tutti la
scopriranno, mi chiederanno come mai oppure non chiederanno niente ma si
metteranno in sospetto, e nessuno mi considererà un genietto ma solo
un'inaffidabile che arranca, e le vacanze che sognavo con Stefano saranno
inquinate dalle beghe fra Mario e Silla, e se poi anche a ottobre non ce la
farò dovrò rinunciare all'università, non perché a casa m'imporranno questa
rinuncia ma perché non potrò sopportare l'onta di due bocciature.
Intanto quello mi
restituisce il libretto ancora aperto e con l'inchiostro fresco, l'ignominioso Ritiro è scritto in stampatello in modo
che non sfugga neanche all'occhio più presbite, poi mi saluta con qualche
parola che non afferro ma che forse vuol essere di consolazione o
d'incoraggiamento, e adesso il pavimento sprofonda davvero mentre passo fra i
banchi disposti in fondo alll'Istituto e Salvio si alza a precipizio e mi sostiene per il gomito e mi porta fuori
ma anche lui non capisce perché diavolo ero rimasta. Un'amnesia? Cosa ti è
successo? O ti sei sentita male? Ecco qua che cosa potevo dire, mi sento male,
così mi avrebbero fatto uscire per mezz'ora e intanto mi sarei potuta studiare
la risposta, oppure mi avrebbero cambiato il biglietto e forse stavolta sarei
stata più fortunata... Ma tanto ormai non conta, tutto è fatto, è compiuto, mi
sento la peggiore di tutte, perfino la Paoletta si è beccata un ventitré, e
adesso come farò a dirlo alla mamma che per mandarmi al liceo e
all'università si è sposata per
convenienza, e a Stefano che magari non mi ama ma finora mi stimava, e
all'Alessandra che lei di sicuro non si sarebbe fatta incastrare... Ecco, sì,
mi resta Milena, e difatti eccola qui fuori che m'aspetta e so che capisce
tutto e che mi stima lo stesso, o dovrei dire mi ama ancora. Perché per lei non
sono la peggiore, sono sempre la più perfetta di tutte.
Io però, con una cattiveria
che non si merita, le dico: "Ci vediamo stasera", ed esco con Salvio
al quale non par vero e mi guida subito in un bar dove mi rifornisce di
aperitivo e sigaretta e intanto mi stringe un po' a sé - ma possibile che pensi
solo a quello? - e poi mi propone di andare a prendere un po' d'aria in
campagna. Non ho la forza di replicare, così saliamo su un autobus che arriva
in periferia ma sembra lo stesso campagna, c'è un fiume abbastanza largo che
scorre lentissimo e giallastro e sulle rive ha cespugli polverosi che
nascondono piccole radure, e anfratti dove si può piangere in pace. Salvio però
non vuole che pianga, mi asciuga gli occhi, stende per terra un giornale che mi
irrita (cosa cavolo ha, paura di sporcarsi?), poi dice cosa vuoi che sia, una
volta succede a tutti e con originalità tira fuori bocciature di Einstein in
Fisica e di D'Annunzio in Italiano, e io avrei voglia di rispondergli ma no!
chi lo avrebbe sospettato?, invece sto zitta e assaporo l'odore aspro di menta
che ha il potere di distrarmi e mi concentro sul movimento monotono dell'acqua,
tre metri più in giù, che a poco a poco mi calma. La pelle di Salvio ha un buon profumo di lieve sudore
maschile misto alla solita colonia di agrumi calabresi, così quando mi bacia
non provo affatto schifo ma una sensazione sorprendentemente piacevole, peccato
che lui cerchi subito di sbottonarmi la camicetta, perché se il primo bacio è
stato un fallimento e il secondo, questo qui, quasi un successo, non vorrei rischiare
che il resto, la famosa prima volta, fosse una delusione, perché è la prima
volta che conta, non la seconda (come per il mio esame di Storia Romana). E
soprattutto vorrei che fosse con Stefano e non con uno che mi consola ma di cui
non m'importa niente, e allora anche se mi sto cominciando a rilassare dico che
adesso devo andarmene, devo telefonare a casa, mi riallaccio la camicetta, lui
ci riprova ma ormai l'occasione è sfumata, ci rialziamo, i vestiti sono stropicciati,
il giornale è da buttare, i capelli spettinati, la pelle come quella degli
indiani d'America e il cuore, almeno il mio, una poltiglia.
*****
La corriera, quest'anno la
mia vita è costellata di corriere, si arrampica ansimando su per i tornanti e
ad ogni curva il conducente suona la tromba
come quel giorno che sui colli
andavo in cerca di Fede, ma non riesce a interrompere il corso poco allegro dei
miei pensieri. Sto raggiungendo la famiglia in montagna dopo una settimana a
Venezia a leccarmi le ferite con la nonna, la quale ogni giorno mi preparava
pietanze sublimi per farmi riprendere peso e colore. E' bravissima, alterna
cucina della sua terra toscana, fritti croccanti di verdure e cervella e
crostini di milza, con specialità istriane come gli gnocchi di riso e
marmellata, non parla tanto ma nel nutrirmi esprime tutto il suo affetto oltre
che la creatività. La nonna è un'ex aristocratica, ha fratelli tutti quanti
laureati e ha vissuto in case patrizie di città e di campagna, ma dopo il
matrimonio il nonno ha avuto dei dissesti e lei si è facilmente riciclata in
una vita modesta e perfino esule, quando si sono spostati in Istria e poi
dall'Istria a Venezia.
"Il mi' babbo mi diceva
sempre di adattarmi, di prendere la vita per il bavero e pensare alla
famiglia".
E così ha fatto con forza e
senza troppe malinconie. Solo io ero la sua spina, perché il mio, di babbi, mi
aveva lasciata anche se - "nella sfortuna c'è sempre una fortuna" -
ne avevo poi trovato un altro.
La nonna era adattabile, ma
nel cuore restava toscana. Anzi, poiché aveva vissuto a Firenze ma era nata a
Pisa, si sentiva pisana e s'irritava quando le leggevo il verso di Dante sulla
sua "Pisa, vituperio delle genti".
"Il mi' babbo diceva
'vita e imperio delle genti’, non 'vituperio'. Dev'essere uno sbaglio della tua
edizione", sosteneva convinta. Le variazioni sui testi erano una delle sue
specialità. Una volta, alle medie, le raccontai
che per tema in classe avevamo dovuto commentare il sentenzioso e
filastroccante Metastasio: "Se a ciascun l'interno affanno / si leggesse
in fronte scritto / quanti mai che invidia fanno / ci farebbero pietà".
"L'ultimo verso è
sbagliato", assicurò lei. Quello vero dice "girerebbero in
landò".
"E cosa diavolo
è?".
"Una carrozza, diamine!
Ma cosa ti insegnano a scuola?".
"E perché in
landò?".
"Per la vergogna,
perché l'espressione non rivelasse il loro stato d'animo!".
Scuoteva la testa, e io
rimanevo allocchita.
Anche sui cibi conosceva
proverbi, frasi fatte, consigli per gli acquisti e per l'uso sociale: spesso
misteriosi.
"Al contadino -
recitava - non far sapere / quanto sian
buoni formaggio e pere".
Fin qui chiaro, anche se
reazionario. Dicendoglielo, avrebbero fatto fuori tutte le riserve in
magazzino. Il seguito però lo era molto meno:
"Ma fa' sapere al mondo
tutto / quanto sian buoni fichi e prosciutto".
Uno sprazzo di generosità
sociale per una sorta di comunione gastronomica? Un'annata ricca di suini? Un
doppio senso volgarotto? La nonna non lo sapeva e non le importava, ma i fichi
ancora caldi d'orto abbinati con prosciutto crudo erano uno dei miei antipasti
preferiti e lei me li serviva volentieri, accontentandosi per sé di un
caffelatte.
"Perché non ti godi un
po' Venezia, prima che arrivi l'orda dei turisti?".
Vorrei farlo, Venezia è lì
che attende da me di essere esplorata e penetrata e non solo sfiorata con lo
sguardo, ma non è ancora tempo, anche se sono passati quasi quindici anni da
quando ci sono approdata. E' ancora il simbolo del mio esilio, della mia prima
sconfitta. Avevo i vestiti ben rattoppati - inserti scozzesi o a fiorellini su
fondo unito, che oggi sarebbero roba da boutique - e una casetta con poche sedie e pochi
tavoli dove non potevo ancora invitare a far le lezioni nessuno dei miei
compagni, anche se la mamma e la nonna si davano un gran daffare a confezionare
vaporose tendine di sangallo e cuscini colorati, e perfino a tessere, nelle
sere invernali, policromi tappeti "persiani". E il nuovo papà nelle
ore libere da un lavoro che aveva trovato all'Arsenale ricopiava da un vecchio
libro di navigazione vedute di marosi con le creste di schiuma e galeoni
corsari dalle vele concave, poi le colorava con gli acquarelli e le lasciava
asciugare nell'orto, contornandole alla fine con cornici dorate di sua
fabbricazione. Insomma la casa sembrava un cantiere, ma a poco a poco prendeva
vivacità e colore. Però sentivo che non
bastava ancora e non perché le case degli altri fossero tanto più belle, in
quel dopoguerra povero in cui solo i pescecani potevano sfoggiare ricchezza di
cattivo gusto; ma perché noi eravamo i profughi, "poveri lamentosi e
pretenziosi" e probabilmente, anche qui, "fascisti", mentre i
veri fascisti veneziani si erano rapidamente mascherati o riciclati, se non da
comunisti almeno da cristiani, cioè da democristiani, e tutti i grandi
avevano fatto almeno un po' di Resistenza, magari solo una telefonata
per avvertire che c'era una retata in corso, o avevano invitato a cena un ebreo
che poi nei racconti diventava averlo nascosto a rischio della vita, comunque
tutti avevano fatto qualcosa per costruire la nuova Italia, e se erano stati
monarchici dopo il referendum avevano cambiato casacca anche se, nel chiuso
delle case, alcuni a volte canticchiavano ancora che "sul cappello che noi
portiamo / ci sta lo stemma di casa Savoia", e questo a dire la verità lo
faceva anche la nonna che di cappelli militari non ne aveva ovviamente portati
mai ma aveva il culto della Regina, "la mi' regina", della quale
portava pure il nome, e tanto bastava a farla sentire monarchica a vita.
Dunque Venezia era la mia
disfatta ribelle, era la disfatta rassegnata di mia madre, e forse per questo,
come in un film, quel giorno che per la prima volta ci era apparsa dal mare
dopo che la nave aveva gincanato fra isolotti grigioverdi, aveva voluto apparirci
imbronciata e piovosa, inquietante come un destino presago di ulteriori
sconfitte. La Giudecca, e il Lido dove d'estate affittavamo una capanna sulla
spiaggia meno elegante, erano un'altra cosa, è vero: le stradine bordate di
siepi d'alloro e profumate di caprifoglio e le villette liberty erano
abbastanza simili a quelle della
nostra cittadina istriana, che del resto anche nella sua parte
vecia
assomigliava un po' a Venezia, una Venezia ricostruita a memoria da
emigranti che ne avevano ricordato soprattutto i campanili e le calli senza
sole. Alla scuoletta delle suore mi
avevano accettata con simpatia, forse perché ero così piccola o perché anche i
nemici devono essere accettati in nome di Gesù. Erano suore buone, quelle lì. E la corta calle dove abitavo,
aperta su un campiello, si riempiva dei
nostri strilli e giochi, miei e dei piccoli vicini di casa. "Guardie e
ladri" dove non volevo mai fare la guardia, ruolo scelto di solito dai
ragazzini più antipatici, o "Palla prigioniera" o
"Campanon" erano palestre di astuzia infantile, gare di abilità,
prove di alleanze. Giochi che non richiedevano giocattoli salvo una vecchia
palla, un fazzoletto che serviva da bandiera, qualche pietruzza piatta e tanta
voglia di giocare, e i maschietti cominciavano a farci la corte e inventare
canzoncine su di me e le mie amichette, e d'estate si andava tutti insieme alla
spiaggia, senza grandi fra i piedi, così si poteva tuffarsi di
testa dalla diga anche solo un'oretta dopo aver mangiato e non dopo tre come
quando c'era la mamma, e poi arrivava col vaporetto delle cinque la nonna a
portarci la merenda di pane, burro e acciughe, oppure i fichi tiepidi di sole e
con la goccia di miele dolcissimo, o le prugne profumate ancora di albero.
L'albicocco invece non faceva mai frutti, ma nessuno lo sradicava, faceva anche
lui un po' di ombra e quindi aveva una sua funzione nella vita dell'orto e
nella nostra.
Ma allora era allora e
adesso è adesso, non mi bastano più le merende e i vestiti ormai senza toppe
che mi fa la nonna, anche se mi danno ancora conforto, adesso ho bisogno di
Stefano e Stefano va in montagna e io lo inseguo anche se faccio finta che sia
una combinazione. E lui fa finta di crederci. Così quest'anno non andrò in
spiaggia o sui murazzi e neppure tornerò nella vecchia valle della California
da dove tutti i giovani sono emigrati perché lì non si poteva più vivere, come
noi eravamo emigrati perché neppure laggiù in Istria si poteva più vivere. E
forse come tutti quanti noi umani che ci sentiamo immigrati in un mondo dove
non sappiamo bene se siamo vivi o no.
*****
A ogni fermata un nuovo
paese e ogni paese è più montanaro di quello che lo precede. Fra l'uno e
l'altro traversiamo vallette strette e buie, con alture spelacchiate ai due
lati e nel fondo un torrente bianco e
azzurro che ballonzola fra i sassi, dominato da una grande centrale
idroelettrica. Fa già fresco, il sudore leggero della pianura mi si rapprende
sulla pelle mentre imbocchiamo una valle più verde bordata di case di legno, e
alla fine svoltiamo a sinistra, dove la strada s'inoltra fra praterie apparentemente senza fine, ma non è vero
perché la fine sono le vette che appaiono all'improvviso fiammeggianti già del rosso carico della sera. Rosso di
sera bel tempo si spera, dice la nonna che è un'arca di proverbi, e anch'io
ricomincio a sperare. Il nodo di angoscia si scioglie, sono a casa, una delle
mie tante piccole, provvisorie case.
*****
Odore di mamma, finalmente:
un odore pulito di sapone di Marsiglia ma caldo e forte, come quando mi prendeva
"sotto le ali" nel lettone, appena il papà usciva di casa. La mamma
non ama far da mangiare come la nonna, ma stavolta mi ha preparato una cena a
base di frittelle salate e dolci, e poi jota e altre leccornie che mi consolano
per l'esame andato male. "Meglio un asino vivo che un dottore morto",
sentenzia, "e poi perché asino? L'esame lo ridarai e andrà benissimo, ne
sono sicura", e giù anche lei con gli esempi di Einstein e D'Annunzio che
staranno tirando calci nella tomba ad essere nominati per motivi irrilevanti, o
forse infondati. Prima di metterci a tavola mi consegna una cartolina di
Salvio, già arrivata prima di me. Sento un moto di tenerezza, di commozione
quasi e insieme di leggera insofferenza, per un attimo penso a lui ma è appunto
un attimo, la domanda mi brucia sulla lingua e non riesco a trattenerla:
"E' passato nessuno qui a cercarmi?".
"No, chi doveva
venire?".
"Beh, un amico, ma probabilmente non è ancora
arrivato, verrà su nei prossimi giorni".
Invece lo so che è partito
già tre giorni fa. Non ha fretta di incontrarmi, come al solito. Adesso sento
il consueto moto di delusione (ahi le previsioni della Paoletta!), anche se
dovevo aspettarmelo, perché Stefano non cambierà mai, nessuno cambia mai. O se
cambia, cambia in peggio.
La mia cameretta è sotto i
tetti, no, non proprio una mansarda, ma ha il soffitto spiovente, una stufa di
maiolica bianca e blu e una finestrella che dà su un prato in salita, che anche
lui sembra arrampicarsi verso l'infinito. E' meglio che non si vedano le
montagne che chiudono l'orizzonte comunicando un senso di limite, di
oppressione di cui non sento proprio bisogno. Anche se erano così nitide
stasera da sembrare ritagliate dai cartoncini colorati dei bambini. Il prato è
largo, dà l'idea del possibile. La mamma è di nuovo qui con me, disfiamo
insieme la valigia e appendo nell'armadio i tre vestiti nuovi - di cinz, di
piquet e di rasatello - che mi ha fatto la nonna, i blue jeans, i maglioni
multicolori, il kilt, i calzoncini corti, le pedule e la giacca a vento. Sotto
la finestra, c'è un tavolinetto di abete dove allineo i libri di storia, tre
romanzi, Jane Eyre, Orgoglio e
pregiudizio, Tess dei D'Ubervilles, il teatro di Ibsen e di Cechov, oltre
che L'Antologia
di Spoon River, le poesie di Neruda e perfino Siddharta, che quest'anno tutti leggono davvero, dopo aver finto di
leggere Proust. Ma i classici consolano sempre, anche se certo Alessandra
avrebbe fatto scelte meno scontate.
Da sotto, arriva la voce del
papà che ci chiama a tavola. Ha preparato con le sue mani il budino di
cioccolata - mi sa che stasera ingrasserò tre chili -, in onor mio, ma per lui
ogni occasione è buona per preparare dolci di cui è golosissimo, mentre nella
pentola si cuociono lentamente, esalando il loro profumo selvatico, i funghi
porcini che ha raccolto nel bosco e che mangeremo domani.
Ha una vera passione per i
funghi, e le sue gite sono lunghi andirivieni su e giù per le montagne, gite
utilitarie ma senza meta geografica. Io invece ho bisogno di mete. Un rifugio,
la cima di un monte, un esame da superare, Stefano, anche se so che non le
raggiungerò tutte e specie l'ultima. Non mi piace raccogliere e conservare
("Vuol dire che sei una mutante", commentava Federica), come non mi
piace cercare, riordinare, mettere a posto le cose anche se detesto il
disordine apparente ("Vuol dire che hai paura del tuo disordine
interiore", psicanalizzava Alessandra) e Milena si arrabbiava: "Ma
perché volete sempre interpretarla? Marina è Marina, è fatta così perché è
fatta così, come ha gli occhi verdi e i capelli rossi. C'è un motivo oltre il
suo Dna?".
Sento nostalgia di Milena,
di Federica, di Alessandra, perfino di
Sara e Paoletta, stasera ho le lacrime in tasca, ma la cucina, da basso, è
calda, la cena sa d'infanzia, la mamma per una volta non sembra malinconica, il
papà dopotutto è lui il mio vero papà, non quell'altro che non ci ha voluto e
ci ha lasciato partire per l'esilio, perché eravamo italiane e dunque fasciste.
Il sonno già lo sento
arrivare, con la stanchezza delle emozioni dei giorni scorsi. Dalla finestra
senza imposte, una luna porosa e spugnosa ascende grigia nel cielo viola.
Domani è un altro giorno, penso come Rossella O' Hara, ho due mesi davanti da
vivere nello stesso paese dove c'è Stefano, dove c'è la mamma, dove il prato
apparentemente senza fine potrò risalirlo fino a intravedere un nuovo
orizzonte. Un piumino candido mi avvolge in un calore confortante, non spietato
come quello della città universitaria, del collegio delle suore, non malato e
perfino funebre come quello di Venezia. Sono già nel dormiveglia quando ancora
una volta sale la mamma per darmi la buona notte. Sto ancora sognando quando,
la mattina dopo, arriva di nuovo a riempirmi la stanza di aroma di caffè forte,
di uovo a bere tiepido, di fette di pan tostato croccante su cui si scioglie il
burro salato di malga. E' dolce, mia madre, quando non è disperata, quando non
è matta, quando non è nostalgica di un uomo che non sarà più suo, che non è mai
stato suo, ma che le ha lasciato me.
*****
Indosso i jeans e una camicetta
a quadrettini bianchi e blu, calzo scarpe da ginnastica immacolate, finalmente
della mia misura, ed esco, ufficialmente in esplorazione dei dintorni, in
realtà nella speranza di incontrare "per caso" Stefano. Il sole già
scotta sulla pelle chiara incremata a dovere e le rocce lontane, color piombo,
non più vermiglie come ieri sera, disegnano nettissima la linea della
vegetazione: fino a 1800 metri, terra verde, più su, pietra nuda. Non sgarrano
di un centimetro. Le case candide del villaggio mandano lampi di luce come i
sassi piatti delle stradine non asfaltate. Dal forno della cooperativa esce un
sano odore di pane caldo. Il torrente si divide e si riunisce scendendo a
precipizio dal prato senza fine. Mi avventuro in direzione opposta, verso la
strada asfaltata da cui ero arrivata e che congiungeva i paesini della valle
biforcandosi in due rami diretti ad altrettanti valichi. I passanti salutano
con un cordiale "buon giorno" che in città sarebbe impensabile fra
sconosciuti. Rispondo a tutti e sorrido, cammino e mi guardo intorno, respiro
odore acuto di resina e umido di segherie e dolciastro di fieno appena
tagliato. Non mi ricordavo più di quanto mi piacessero questi odori: quasi come
quelli dell'Istria. Per un po' riesco a sentir vibrare ogni fibra del mio corpo
che è un corpo che sta bene, che torna a funzionare e a sentirsi vivo. Tiro
calci ai sassi e faccio giochetti mentali scemi: se questo sasso andrà a
bocciare quell'altro più grosso che s'intravede laggiù, vuol dire che Stefano
mi ama. Bang, il sasso colpisce quello vicino al bersaglio, non ho mai avuto
buona mira. Provo con un altro. Stavolta è in palio l'esame di Storia, prendo
la mira con cura: centro. Almeno questo. Mi sento più leggera, mi guardo
intorno. In una radura circondata di faggi e abeti vedo emergere una villetta
con un'insegna dove sta scritto "Al Rododendro". Dev'essere un bar,
ci sono tanti ragazzi e ragazze seduti su panche all'aperto. Più in là, fra gli
alberi, un altro gruppo, molto numeroso, saranno forse una ventina, attira la
mia attenzione e senza parere m'inoltro nel sentiero che mi porta vicino a
loro. Sono tipi fuori del comune, sembrano quasi usciti da una foto di gruppo
del secolo scorso. Calzano pesanti scarponi chiodati, assurdi per quella radura
lungo la strada, indossano camicie scozzesi di flanella e per terra hanno
deposto zaini affardellati. Forse tornano da una gita. Qualcuno mastica un
panino, qualcun altro intona una canzone e a poco a poco tutti si uniscono al
coro. Mi vien voglia di fermarmi con loro, sono rustici e belli, non ho il
coraggio di abbordarli, ma un ragazzo alto alto (poi scoprirò che infatti viene
chiamato Giorgio Lungo) m’invita inaspettatamente: "Vuoi cantare con
noi?". Arrossisco, esito, poi annuisco, e subito mi sento osservata con
una specie di affetto, come se mi avessero sempre aspettata. Ma anche con
curiosità, come fossi un'aliena. Mi accorgo che molti sono in coppia, coppie
giovanissme che esprimono l'amore castamente, braccio sulla spalla, testa di
lei appoggiata al torace di lui, qualche bacio sulla guancia, i cattolici
baci-non-baci. Ma Giorgio Lungo è libero e si dedica a me con
un'attenzione di cui ho bisogno anche se
è un altro quello che sto cercando. Vengono qui tutti gli anni, mi dicono, sono
studenti - Giorgio Lungo studia astronomia -, fanno gite ed escursioni e comunque
viaggiano sempre con scarponi e zaini, anche quando, come adesso, fanno solo
giretti per i boschi, a fragole e lamponi. Non sembrano intellettuali come i
miei compagni di facoltà, o mondani come
i "Bellissimi". Sono molto nature.
Scoprirò che gli altri ragazzi villeggianti li chiamano "i Lupi". Mi
piace. Per una mattinata dimentico
Stefano e mi integro coi Lupi. Com'è riposante!
*****
Lo incontro nel pomeriggio,
nella piazza al centro del paese dove il municipio è dedicato "al Sacro
Cuore della Beata Vergine Maria". Capisco perché siamo un popolo di santi,
ma io, che mi escludo anche come possibile poeta, mi sento piuttosto una
navigatrice coatta, un'apolide, una senza patria segnata dall'esilio e condannata
a scontare le colpe dei padri in un errare inquieto e senza fine.
Mi fa le feste, finge
sorpresa, dice naturalmente che ci rivedremo presto, se non altro per
festeggiare il mio compleanno (dunque se ne ricorda! il cuore batte un colpo in
meno), ma poi scappa via subito, ha un impegno (anche qui in vacanza?) e come
al solito mi lascia interdetta, insicura. E' un fantasma che appare e scompare.
Quando appare, è il genio buono di Aladino, vuol sapere cosa desidero per
darmelo. Ma poi una forza maligna me lo sottrae e non ho lampade da sfregare
per farlo ricomparire. Per fortuna ho diciannove anni che sto per compiere, per
fortuna ritrovo i Lupi che mi portano a cantare in un fienile. Non è il
massimo, ma a poco a poco il coro polifonico di voci bianche e voci baritonali
mi trasporta altrove, e penso che domani andremo in gita, e ci sarà Giorgio
Lungo, e sono naturalmente invitata, e nessuna
forza maligna distruggerà i miei programmi.
*****
I Lupi, oltre che con
benevola curiosità, mi trattano con rispetto, come se appartenessi a una razza
o classe superiore, forse perché sono sempre ben vestita nonostante i miei
abiti fatti in casa. Camminiamo molto, cantiamo moltissimo, ci arrostiamo al
sole sulle panche dei rifugi, mangiamo panini col salame e beviamo, dalle
borracce, acqua gelata di torrente. Quando scendiamo al paese, al tramonto,
sembriamo un plotone di alpini di ritorno da un'esercitazione. La mamma mi
guarda perplessa, ma vedendomi serena non obietta niente. Una volta incontriamo
Stefano che con altri ragazzi più simili ai "Bellissimi" che ai Lupi,
passeggia nei pressi del "Rododendro". Anche lui mi guarda stupito,
poi mi s’avvicina confidenziale, un po' ironico, quasi geloso, e mi dice che
per il mio compleanno, cioè fra tre giorni, stanno organizzando una festa
proprio lì, e allora io mi libero subito, mentalmente e verbalmente, da tutti
gli impegni possibili, con la famiglia, coi Lupi, compresa una gita in
Marmolada che avrei fatto volentieri. E prometto che ci sarò, certo che ci
sarò. Giorgio Lungo ha spiato l'incontro stando in disparte e resta un po'
rannuvolato, ma non dice niente, solo raccoglie il mio zaino posato a terra e
se lo carica in spalla, insieme al suo. E' uno di quei gesti che equivalgono
alle parole, anzi dicono molto più delle parole. Aspetta che Stefano mi abbia
congedato (è sempre lui che mi congeda) e mi accompagna a casa. Mi sembra che
si siano scambiati uno sguardo, loro due, inquieto quello di Giorgio, sfuggente
ma indagatore, come sempre, quello di Stefano.
*****
Tre giorni senza tempo di
prati senza fine, di mucche che scampanano stonate, di corvi che volteggiano a
cerchi concentrici, di polenta gialla fumante nei rifugi. Le coppie dei Lupi
sono caste ma strettissime. Giusi ha diciotto anni, solo uno meno di me, ha
occhi azzurro-ghiaccio e assomiglia alla protagonista svedese del film "Ha
ballato una sola estate". Un film che avevo visto al Cineforum con Milena,
e poi ne avevamo discusso per le scene di sesso e innocente nudità, che ai
"fucini" però erano sembrate peccaminose o disgustose. Chissà se
Giusi e Franco, che si vedono solo d'estate perché lui sta a Venezia e lei a
Roma, qualche volta si appartano ad amoreggiare o se il loro sentimento si
esaurisce nelle carezze leggere e nei piccoli baci-baci che si scambiano nei
rifugi, quando lei si sdraia sui panconi di legno con la testa sulle ginocchia
di lui e io li invidio perché loro sono comunque in due e io invece sono sola.
Franco ha il volto butterato dall'acne, ma i lineamenti sono belli, e
l'incantato sperdimento con cui guarda Giusi e lei guarda lui è lo stesso che
proverei per Stefano se Stefano non fosse sempre in cerca di quello che non ha.
Come me.
Ogni tanto Giorgio Lungo
parte da solo in esplorazione, o si lascia scivolare giù dai ghiaioni in discesa
fulminea, fra rotolii di pietre sporche. Poi aspetta, forse aspetta me che
faccio la frivola e gli chiedo con finto rammarico perché mi ha abbandonata.
Lui arrossisce sulle orecchie e sulla punta del naso già bruciata dal sole e
unta di crema Nivea, e dice non credevo che t'importasse, ma da allora mi sta
sempre vicino, mi porge la mano per attraversare i torrenti e i crepacci, e
nelle soste mi appoggia leggermente - molto leggermente - il braccio sulla
spalla, in segno di protezione più che di possesso (come invece farebbe
Salvio). Gli altri ci guardano compiaciuti come si guarda a un innamoramento
nascente. Ma io, solo io, so che non è così. Che vorrei, davvero vorrei essere
come loro e non sempre divisa fra ciò che ho e ciò che mi piacerebbe avere: proprio
come Stefano, sì, siamo fatti della stessa pasta, forse per questo ci cerchiamo
ma non ci troviamo mai. In corsa l'uno davanti all'altra senza possibilità
d’incontro. Intanto però mi dichiaro impegnata per la sera del mio compleanno,
perché "era un impegno preso già prima di conoscervi" e dunque non
posso mancare. Giorgio sa che non è vero ma non mi smentisce. Sta sempre dalla
mia parte, lui. "Il giorno dopo comunque si va tutti in Marmolada",
dice perentorio e io annuisco, tanto lo so che loro ci andranno comunque e che
Stefano comunque sparirà dopo la sera della festa.
*****
Compio finalmente diciannove
anni, fra poco non sarò più matricola e già mi sento vecchia. La mamma mi
regala, anche a nome del papà che non sa mai prendere l'iniziativa da solo, una
bellissima gonna (scozzese!, però diversa dalle altre, in vari toni di azzurro
e verde) e una giacchetta di daino tinto di blu, un regalo che lui aveva fatto
a lei e lei con tenerezza ha girato a me. Stasera li indosserò, insieme a una
maglietta turchese. Senza i Lupi posso permettermi di essere elegante e
"cittadina". Con loro mi censuro. Un poco però li rimpiango,
rimpiango soprattutto Giorgio che la sera
studia le stelle e me ne racconta le storie, mentre temo l'ambiguità di
Stefano. A sera, al "Rododendro", sono in dieci ad aspettarmi, fra
ragazzi e ragazze. Non conosco tutti, Stefano fa l'anfitrione e pare proprio,
agli estranei almeno deve sembrare così, che sia il mio ragazzo. Mi adatto al
gioco con una felicità che non provavo da tanto. Balliamo stretti
(relativamente) al suono dei Platters, quasi sempre noi due, finché arriva
l'ora della torta dove sta scritto in caratteri corsivi e con svolazzi vari
"W Marina", e tutti battono le mani e intonano i canti di rito,
compreso il "Perché è una brava ragazza, / nessuno lo può negar",
proprio a me che sono arcistufa di esserlo ma sorrido lo stesso, sorrido a
tutti di quel sorriso "senza perché" tipico delle donne. Sorrido
perché so che mi fa più bella, perché fingo di essere allegra e che tutto mi
sorrida, perché tutti rifuggono da chi è triste tranne pochissimi come Milena e
Federica, e perché Stefano è qui con me. Anche se poi non riesce a trattenersi
ed esclama: "W Marina e tutte le ragazze che compiono diciannove anni in
questi giorni!". Oddio, come avevo fatto a dimenticarlo? Festeggiando me,
per procura festeggia Alessandra. Come al solito irraggiungibile mentre io,
come al solito, sono una piccola, insignificante vicaria.
*****
Arrivano tre lettere in
contemporanea, troppa grazia Sant'Antonio, forse qui nelle valli la Posta
aspetta di far numero per mobilitare i postini. Da Salvio, da Milena, da
Alessandra. Niente da Federica, a cui pure ho spedito il numero telefonico di
questa casa di villeggiatura, ma chissà se la mia lettera sarà riuscita a
raggiungerla. Ne dubito molto. Leggo per prima la lettera di Alessandra che mi
fa gli auguri e descrive la sua estate in termini come sempre cromatici e
addobbati come un albero di Natale. E' al mare di Ponza (azzurrissimo,
traslucido, metafisico) per riposarsi da un lungo viaggio (stimolante) di cui
descrive dettagli, persone e cose. Poi mi coinvolge in squarci visivi della
Parigi degli artisti dove ha passato un altro mese, dei castelli (magici) della
Loira e delle scogliere (drammatiche) della Normandia. Accenna appena alle mie,
di vacanze, e alla possibilità che io abbia incontrato Stefano ("che è lì
anche lui, no?"), così facendomi capire che si scrivono, o per lo meno che
lui le ha scritto. Di Federica neppure una parola, come non l'avesse mai conosciuta.
Passo alla lettera di Salvio e quasi mi viene da piangere, perché è ingiusto
che io non riesca a volergli bene nel modo in cui lui ne vuole a me, così com'è
ingiusto che Stefano non ne voglia a me ma ad Alessandra la quale altamente di
lui se ne infischia. Non so come gli risponderò, penso prima ancora di aprire
la busta, il suo amore m’intenerisce ma non lo voglio illudere, eppure mi sento
sempre riscaldata dalle sue parole dirette, non ambivalenti e contorte, così
come mi sento riscaldata, ma non mi basta, dalla timida dolcezza di Giorgio
Lungo che di lungo ha anche i denti, da buon lupo come si deve, ma non osa
baciarmi. Dev'essere perché "i nostri cuori rispondono a stelle / che non
vogliono saperne di noi", come scrive Neruda nel libro di versi che sto
leggendo la sera. La lettera di Salvio in realtà non è una lettera, ma una
cartolina inserita in una busta, che riproduce gli innamorati di Peynet. In
basso, solo un "A presto", e la firma. Sono delusa e sollevata
insieme.
La lettera di Milena l'ho
tenuta per ultima, come faccio con i cioccolatini migliori. La busta è pesante
e infatti contiene molti fogli di quaderno a quadretti, fitti fitti di cose e
soprattutto di sentimenti e di idee, di cui è invece desolatamente vuota la
lettera di Alessandra.
Milena passa le vacanze
nella sua casa di campagna dove legge, studia e ascolta dischi, e continua a
cercare notizie di Fede. Ha di nuovo parlato con suo padre, che le ha sbattuto
giù la cornetta. E meno male che per telefono non si può picchiare né violentare
né controllare la verginità con le dita. Una volta però si è imbattuta nella
sorella ed è quasi riuscita a strapparle un appuntamento. Si vedranno, se tutto
va bene, fra una quindicina di giorni, poi mi farà sapere. Più oltre parla
anche di Dio, ormai non crede proprio
più che esista, ma è importante lo stesso fare il bene. Le religioni nascono
per questo, dice, per consolare gli uomini e per dargli una legge morale, con
la promessa del premio e lo spauracchio del castigo eterno, ma una persona pensante
sa cos'è il bene, lo sa nella sua coscienza, che ha il primato su ogni legge
religiosa, morale e sociale, come dimostra l'"Antigone" di Sofocle che lei sta leggendo e che mi presterà perché la devo leggere subito,
appena ritorno. Parla a lungo anche di me, di quanto sente la mia mancanza e di
come aspetta con ansia di rivedermi, "per ripassare insieme Storia
Romana", dove, è certo, stavolta prenderò almeno un ventisette. Il caldo
non la spossa, non ha bisogno, lei, di evadere verso panorami drammatici o
bucolici, ama la sua campagna piatta e
afosa coi filari di vigneti e pioppi strepitanti e i colli svaporanti all'orizzonte, e ama perfino le galline,
brutte e un po' sciocche ma rassicuranti, che zampettano sull'aia cercando di
farsi notare dal gallo, mentre Milena sulla sdraio vive la sua vita parallela.
Una vita dove anche lei è bella e amata (da me?) e dove può essere utile a chi
ha bisogno di lei. Nella vita vera non le riesce tanto bene, aggiunge. Invece
le riesce benissimo, come adesso che mi ha fatto sentire tutta racconsolata e
protetta. E chi se ne frega se è lesbica, peccato solo che io non possa rispondere
alla sua domanda d'amore. Quasi quasi me ne pento. O meglio, me ne vergogno.
Sto per ripiegare i fogli e riporli nella busta quando mi accorgo di un
cartoncino rettangolare rimasto nell'involucro. E' quasi come un post scriptum
che sembri sperare di non essere notato e letto. "Non tornerò in collegio,
il prossimo anno. Suor Benedetta ha trovato nel cassettino della mia scrivania
delle pagine di diario che volevo
buttare e poi ho dimenticato. Quando si dice l'inconscio! C'era scritto di
Federica e suo padre, e molto di te. Tutto è stato ritenuto sconveniente,
immorale, turpe. Solo Suor Margaret mi ha difesa, come mi ha scritto poi, ma
non è servito a niente, anzi forse ha peggiorato le cose. In breve mi hanno
scacciata, dovrò trovarmi un altro alloggio. Ma ci vedremo comunque, se lo
vorrai, se non ti darà fastidio la mia amicizia che, credimi, tutto ti dà
e nulla pretende da te".
*****
Agosto srotola nei cieli
alpini una gonfia trapunta di nuvoloni grigi che rovesciano su prati, boschi,
rocce e tetti cascate d'acqua traforate da fulmini e vento. E' un invito a
starmene in casa, a riprendere gli studi, a contemplare dalla mia tana le gocce
di pioggia che disperatamente si aggrappano agli aghi di pino. Ogni tanto
faccio due passi e sotto i piedi mi sembra che tutto il terreno stia smottando,
come la mia vita. Anche i Lupi diradano i loro vagabondaggi. Stefano, dopo aver
progettato una gita sul monte Civetta, si è di nuovo imboscato. Giorgio Lungo
viene a prendermi verso sera per andare con gli altri in qualche baita vicina
al paese a "fare una canta". I ragazzi fanno da contrappunto, con le
voci basse e roche per il raffreddore, agli assolo di qualche ragazza, come
Angela che cantando si trasfigura tutta e
nonostante il naso rosso sembra, in quei momenti, un essere soprannaturale.
Giorgio mi guarda fisso quando canto, o mi stringe la mano clandestinamente, e
io mi sento più forte anche se per lui
provo solo una tenera amicizia, più tenera che per Salvio, verso il quale la
dolcezza si stempera spesso nella
polemica.
Ma una sera che le nuvole
sono in provvisoria ritirata e sono spuntate le stelle, Giorgio me le indica,
mentre gli altri cantano, e me le racconta perché sa tutto di loro. Sa che
Marte è gelido, senz'acqua ma non senza ghiaccio, e dunque un tempo ci stavano
esseri forse simili a noi. E sa che in Venere fa invece un caldo soffocante con
effetto serra. E sa che lontano lontano nell'universo, lontano come nelle
fiabe, ci sono altre stelle dove forse c'è vita, ma ci metterebbero cent'anni
mille anni, i loro abitanti, per mandarci qualche comunicazione, e noi altri
cento mille a rispondere. Forse allora è meglio immaginare che i morti, nel
loro misterioso pellegrinaggio, riescano in qualche modo ad arrivare lassù, e
che il tremolio luminoso degli astri sia il messaggio che ci mandano. Per dirci
che si ricordano di noi.
*****
Un bel giorno, comunque, le
nuvole si sfoltiscono davvero e Stefano viene a trovarmi, fresco e improvviso
come il vento di marzo. Un solicello anemico è spuntato e lui mi propone un
giro in bicicletta, per salutarci, annuncia, perché l'indomani deve partire.
Sono divisa fra l'emozione per la proposta e la disillusione per l'imprevista
partenza, ma decido, in barba alla sentenza cara alla nonna che in amor vince
chi fugge, di accettare. Così perdo un'ora a prepararmi, a scegliere il vestito più bello - verde acqua come i miei occhi -, ad
acconciarmi questi capelli ricci che,
causa l'umidità, proprio non vogliono in nessun modo farsi sistemare. Ho
perfino un brufolo giallo sul naso, colpa del salame che consumo coi Lupi in
razioni industriali, e cerco di nasconderlo con il resto di fondotinta che mi
aveva regalato Alex.
L'appuntamento è per le due
e mentre arrivo alla fontana della piazza il cuore fa il salto in lungo. Lui mi
appare, come sempre, bellissimo, anche se forse non lo è se non ai miei occhi
innamorati. Ma purtroppo non è solo, bensì con due ragazzi che conosco poco e
una ragazza sconosciuta che sembra la brutta copia, e pure in formato ridotto,
di Alessandra. Presentazioni, lui è cerimonioso, lei si chiama Erika con
la k ed è una studentessa di quassù dove
la k abbonda. Fa le magistrali. Lui, in gran forma anche dialettica, sciorina
battute rivolto soprattutto a questa Erika che nemmeno mi sforzo di ammettere
che esista. Non sopporto più niente, in questo momento, men che meno Stefano
più Erika. Ci avviamo per una stradina pianeggiante che dopo due chilometri
s'impenna in una brusca salita, poi ritorna piana per precipitare, alla fine,
cioè al bordo di un boschetto, in una discesa da montagne russe. A piedi è
niente, in bici non mi trattengo più, mi lascio andare in una corsa sfrenata,
in senso letterale e cioè senza freni, per sfogare tutta la mia rabbia, la
gelosia, il rancore. Qualcuno (Milena? O forse qualche psicologo che per queste
banalità si ritiene un talento) dice che bisogna lasciar emergere i sentimenti
negativi. Ecco, ci provo. Provo subito un senso di liberazione, infatti: la
discesa è inebriante e io ho bisogno di ebbrezza, la strada è sassosa ma la
bici avrebbe freni buoni, se li usassi, solo che non li uso, accidenti, e a una
piccola curva che appare improvvisa, schizzo fuori strada battendo di brutto la
bocca contro una pietra. Sento il sangue colare dolce dal labbro ferito, ma non
m'importa. Forse lui si accorgerà di me, finalmente, difatti arriva al galoppo
con gli altri, ma nel frattempo la lingua, cercando di asciugare il sangue, s'imbatte
in un dente insolitamente ruvido: partito un pezzo di incisivo, lo capisco al
volo. Così la mia faccia non sarà più la stessa, il mio sorriso, la cosa
migliore che ho, avrà un buco nero, non ci saranno più neppure palliativi
amorosi per i miei diciannove anni. Il peggio è che mi sento ridicola, goffa,
incapace perfino di andare in bicicletta. Davvero, anche stavolta, la peggiore
di tutte. Qualunque disgrazia mi capiti, me la merito.
*****
Il dente è stato
incapsulato, dopo appena due o tre giorni. Stefano quella sera mi ha
accompagnato a casa, piantando in asso la Erika bruttacopia, poi però è partito
lo stesso ed è stato Giorgio che mi ha fatto compagnia, che mi ha portato in
moto (sì, ha preso a nolo una moto) dal dentista ad Agordo, lui che viene qui
tutti i giorni perché mi è salita la febbre e non accenna a scendere. Mia madre
e mio padre fanno budini di ogni colore e sapore, guarniti di panna e frutti di
bosco. Anche i Lupi mi portano cestini di fragole e mirtilli. Ma l'estate sta
finendo. Ingloriosamente.
*****
Adesso è davvero finita, e
anche se il sole è ancora tiepido si sentono già i brividi dell'autunno in
arrivo. "Passa la morte e se ne va", dice la nonna quando sono scossa
da brividi. E ora sono proprio sicura che qualcosa sta morendo. Ho il permesso di tornare in
collegio finché avrò dato l'esame, evitandomi così il trasloco che odio anche
come concetto. Tanto mi piace fuggire viaggiando, ma sapendo di poter tornare,
altrettanto detesto traslocare, lasciando per sempre i luoghi dove ho vissuto,
infelice e scontenta. Mi dà la nausea controllare le carte, eliminare le cose
scadute perché mi dà la nausea che le cose scadano, mi spaventa scavare in
cassetti, bauli e armadi riportandone alla luce pezzetti di vita, o piuttosto cadaverini
per anni sepolti lì e dimenticati. Meglio lasciar fare agli altri, o trasferire
tutto insieme senza controlli fino a quando verrà il momento di dare ogni cosa
alle fiamme o di gettarla nella spazzatura. Meno male che al collegio ho ben
poco, giusto qualche capo di abbigliamento e alcuni libri dispersi in questa
stanzona ormai troppo vuota. Senza Federica, senza Alessandra, senza nemmeno
Milena in visita serale. Studio dalla mattina alla sera, come un automa. Prendo
trenta e lode. Però l'oltraggioso "Ritiro" resterà lì per sempre, visibile
a tutti. Come la lettera scarlatta.
*****
La lettera di Federica
arriva due giorni dopo, appena in tempo prima che lasci il collegio per
l'appartamento ancora umido di pittura nel grande condominio rosa lungo il
canale. Tutte le case dovrebbero avere davanti un fiume, o il mare, o almeno
una roggia, un canaletto. Acqua che si muove, acqua che sospira o scroscia o
geme o urla, che porta qui e porta via. Questa non scroscia e non urla, ma
lentamente scorre ed è pur sempre meglio che niente. Aprendo la busta mi sento
diventare rossa e bollente come il fuoco, neanche fosse un messaggio d'amore.
E' una letterina breve. "Non ti ho dimenticato, Marina, non ti
dimenticherò mai. So che mi avevi
cercata ma non potevo farmi viva. Troppo rischioso. Sono fuggita dal luogo dove
mi trovavo. Ti spiegherò a voce appena possibile. Ora sono a Milano, ma una
cugina mi metterà presto a disposizione due piccole stanze nel centro della
nostra vecchia città. Milano sembra ancora asburgica, ha viali larghi e palazzi
arcigni, spesso rimpiango le nostre viuzze buie e strette che, tu dicevi,
sembrano navate di chiesa dove si annidano confessionali pronti a farci espiare
i peccati. Io ne ho tanti, di peccati. Ora più che mai. Ma quando penso a te, a
Milena, perfino ad Alessandra, riesco ancora a sentirmi come quand'ero bambina.
Vedi ancora i "Bellissimi"? Già, come potresti non vederli, tu che
vivi là. A me sembrano ormai una leggenda, o personaggi senza volto come quelli
dei sogni. Qui sono sola, o quasi sola, ma sarà per poco, e appena sarà
possibile mi farò viva, staremo ancora insieme a parlare dei fondamentali, e a
rimpinzarci di cioccolata come l'anno scorso. Non cercarmi a Milano, è inutile.
La tua anarchica, agnostica, amletica (scherzo, lo sai) e stupida (sul serio!)
Federica".
*****
Tre giorni dopo, squilla il
telefono per me, è sera ed è la sua voce. "Dove sei?" balbetto afona.
"Su un marciapiede", la voce ride (o stride). "Vuoi dire in una
cabina?". Lei ride ancora ma glissa via, "Ti devo dire che..."
poi cade la linea, ma nessuno richiama più.
Milena, di Milano, aveva
saputo qualcosa dalla sorella di Fede, ma anche lei sorvola. Alessandra invece
mi chiama, per sapere come ho passato l'estate. E' frettolosa, dice ogni
momento "scusami un momento", poi torna al telefono, annuncia parenti
in arrivo, alla fine mi comunica che sta uscendo per andare dal medico.
"Ci vedremo in facoltà, comunque, per gli ultimi esami d'autunno. Ma
intanto ti anticipo una novità, se no scoppio: mi sposo, no, no, non scherzo:
molto presto. No, non chiedermi niente, voglio raccontarti tutto di persona
alla prima occasione. Adesso scusami ancora, ho davvero fretta...". E mi
lascia così, con un palmo di naso, a domandarmi con chi mai si sposerà, escluso
Stefano che certo non può sposarla, a meno che sia incinta (ma Alex non è tanto
tonta da farsi mettere incinta da Stefano, che da parte sua non è sicuramente
tanto audace!), esclusi di sicuro anche i "fucini", che di fronte a
una donna nuda si rotolano per terra gemendo di desiderio, ma non la toccano.
Forse qualche "Bellissimo"? Milena non ne sa niente, solo la
Paoletta, che è onnisciente come l'Altissimo, ha sentito parlare di un
industriale quarantenne (non bello, macché, sembra un uovo!) che vive in un'altra
città. Ricco, sì, molto, lei sfoggia un solitario grosso come una nocciola.
La vita ha fatto le gare di
corsa, quest'estate. Per Federica, per Alessandra, in un certo senso perfino
per Milena. Io sola continuo a fare la teen-ager divisa fra sogni impossibili e
un quotidiano sempre uguale dove non so quale sia il mio posto, così come non
l'ho mai saputo finora.
*****
Novembre, il mese più triste
e opprimente per me che sono nata di luglio. La nebbia trasforma le case e le
strade in un gioco di finzioni, la città diventa invisibile e perciò più
infingarda. A volte mi spingo, nella vana speranza di incontrare per caso
Stefano, fino alle Piazze, dove i fuochi delle caldarroste rischiarano il cielo
ma non riscaldano il cuore, o fino al "Prato" dove percorro i
sentierini attorno all'isolotto vegliato dalle 36 statue candide come fantasmi.
E lo sono, sono i fantasmi di uomini illustri al loro tempo e oggi sconosciuti
ai più, ma fissati nello spazio e nel tempo e dunque eterni di una delle poche
eternità possibili. Una volta mi sembra di scorgere Stefano, abbracciato a una
ragazza. Ma quando si avvicina mi accorgo che non è lui: Stefano è un fantasma
dispettoso, non vuole farsi intrappolare da me.
La mia casa è bella e ben
riscaldata, e come piace a me è in riva all'acqua dove approdano i barconi che
poi ripartono per il breve tragitto fino al mare. E' grande abbastanza e seppure non ha il giardino, come quelle di Venezia
e dell'Istria, permette di intravedere uno squarcio verde del parco pubblico.
Ci sono una ventina di appartamenti e mi
sono già fatta qualche amica. All'ultimo piano abita una famiglia comunista
che, racconta la portinaia, all'epoca del referendum è esplosa in un trepestio
di gioia alla proclamazione della Repubblica. (La nonna tace, ormai rassegnata,
anzi mi pare che un po' ci si stia appassionando, alla Repubblica). Al
pianterreno abita uno studente che canta tutto il giorno pezzi d'opera e perciò
è simpatico al papà che è un melomane, mentre al piano sotto il nostro una
coppia litiga ogni sera ma al mattino dopo esce a braccetto per far colazione
al bar, brioche e cappuccino. Mi guardo intorno senza grande interesse, la
maggior parte del tempo la passo studiando e accumulando trenta, con perfino un paio di lodi. Quattro
esami in due mesi, un record. Mamma e
nonna sferruzzano per me golfini di angora e di shetland, il papà mi dà
impazienti lezioni di guida ma il mese prossimo, dice, forse sarò pronta per la
patente. In facoltà frequento solo i corsi fondamentali e la sera, spesso,
finisco al cinema, mentre la domenica pomeriggio vado ancora a qualche festina
dei Bellissimi. Presto, ho sentito dire, Salvio tornerà su dalla Calabria per
laurearsi. Non so se ho voglia di rivederlo. Giorgio Lungo mi manda cartoline e
foto di stelle comete, che diradano col diradare delle mie risposte. Alessandra
riprenderà gli studi dopo il matrimonio, che verrà celebrato in gennaio. Lui è
un noto medico, anche se abita in provincia. Intanto lei è occupatissima con il
corredo che ricamano le ragazze del collegio povero, e con l'architetto per
l'arredamento della villa dove andrà ad abitare, perciò non la vedo mai. Milena
ha trovato una stanza alla Casa delle Studentessa, un collegio laico dove vado
a trovarla qualche volta. Oppure ci vediamo all'università, ma è come se
un'ombra persistente si fosse insinuata fra di noi. Comunichiamo poco, io
comunico poco. Divoro sempre romanzi
russi, la sera, saltando come lo scorso anno le descrizioni e voracemente
percorrendo la trama in attesa del finale, come se potesse illuminarmi sul mio
futuro. Fatico ad addormentarmi, la piccola luce sul comodino che ho dipinto di
rosso-lacca resta a lungo accesa. Ascolto lo stridio dei freni delle auto in
curva, sotto la mia finestra, e ricordo con nostalgia il silenzio delle mie due
patrie sul mare. Pian piano mi addormento, in attesa di un giorno che sarà
uguale a oggi, a ieri, a dopodomani. Come se fossi già vecchia e senza attese.
Invece no.
*****
Invece arriva un giorno,
anzi una notte, diversa. Una notte tremante. Una notte lucente. Una notte
assordante. Mi risveglia un crepitio che somiglia all'infrangersi di piatti
scagliati a terra, tanti piatti di porcellana, da una mano irosa. Socchiudo gli
occhi, penso sia già mattina, forse qualcuno sta facendo il secchiaio, nello
sbrattacucina. Sento voci, sempre più numerose e forti, voci gridate, voci
stonate, e poi sirene dei pompieri e ambulanze. Mi affaccio alla finestra e
vedo una colonna di fumo alzarsi da una stradina interna dove non mi ero mai
addentrata. Un vicolo di casette non troppo alte, due piani al massimo,
schiacciate da condomìni recenti come il mio, che si affacciano dominatori sul
quartiere. Il fumo si fa sempre più denso e acre e fuoriesce dal vicolo per
immettersi nella strada principale. Forse tira vento. Resto alla finestra,
ipnotizzata, dimentica del freddo nel mio pigiamino di cotone a piccoli
elefanti verdi, quello che portavo anche lo scorso anno, in collegio. Finché
vedo uscire da un portoncino una barella con una forma umana che sembra
spezzata in più punti, o snodata, come un burattino. E' un attimo, l'ambulanza
riparte al volo e restano solo i pompieri a ultimare il lavoro. La notte è
violata. Ascoltando le voci che
lentamente si spengono resto a lungo supina, nel letto, con gli occhi incapaci
di richiudersi. Dal lato opposto dell'appartamento, dove dormono i genitori e
la nonna, nessuno ha sentito niente, e io non chiamo nessuno.
*****
A casa nostra, il giornale
locale arriva all'una, insieme col papà. Ma già alle dieci, quando esco per
andare all'università, m'imbatto in capannelli di gente eccitata che confabula
sui marciapiedi.
"Di sicuro è morta
soffocata e in parte carbonizzata".
"Ma chi era?".
Nessuno lo sa, nessuno la
conosceva. Chi l'ha vista, chi ha visto quella povera forma già così poco umana
uscire in barella dalla casetta rossa a due piani, dice che sembrava
giovanissima, una ragazza, prima che qualcuno la ricoprisse con un lenzuolo.
Una ragazza alta con i piedi che sporgevano dal lettino. Pare che fosse appena
arrivata, che venisse da fuori. I vicini di pianerottolo che l'avevano
incrociata un paio di volte la ricordano gentile ma con un'aria svagata, poco
comunicativa.
"E' stata di sicuro una
sigaretta a provocare l'incendio. Forse si è addormentata senza
spegnerla". All'improvviso l'ascolto si fa ricordo. Della sigaretta, o
meglio "dell'ultima sigaretta", una Giubek, che Federica si fumava a
letto ogni sera prima di addormentarsi, e Alessandra si dava poi un gran
daffare ad aprire e chiudere le finestre della nostra stanza.
"Ci fai intossicare
tutte, e se poi le suore se n'accorgono ci buttano fuori...".
"Se se n'accorgono dirò
che è una sigaretta contro l'asma", ridacchiava Fede, che aveva appreso
dal padre l'esistenza delle sigarette antiasmatiche. "Certo le suore non
sanno distinguere il loro odore, che è pestilenziale, da quello delle normali
sigarette di tabacco".
"Se è per questo anche
le tue non profumano mica di gelsomino...".
Ma perché penso a Federica?
La lettera, certo, con l'annuncio del ritorno in città, e poi la telefonata.
Però la città è grande, insomma abbastanza grande anche se non certo una
metropoli, e sarebbe davvero una ben strana coincidenza che fosse venuta ad abitare così vicino alla
mia nuova casa. Ci credo poco alle
coincidenze, eppure non vedo l'ora di saperne di più. Forse all'università...
Ma lì nessuno sa ancora niente, nessuno ha ancora letto i giornali.
Mi distraggo ascoltando
la voce chioccia e monotona del professore di latino che si crede
all'avanguardia perché ci obbliga a usare la pronuncia classica, come fanno i
tedeschi, con la "c" e la "g" sempre dure e i dittonghi
come fossero iati, e la "v" come la "u", sicché dobbiamo
leggere "Àue Kàessar e "Uàe uìctis" e "Illa dichit male
michi praesenti uiro". Ma questo è
niente: pretende che parliamo fra noi in latino improvvisando dialoghetti
allucinanti che cominciano per esempio con un "Surghe, Paule, ac dic michi...",
perché le lingue, dice, se non parlate sono lingue morte, come se tutti non lo
sapessimo che latino e greco sono lingue defunte da un millennio e mezzo e che
non saranno certo i nostri goffi tentativi orali a farle resuscitare. E però in
Francia, dove mettono l'accento sempre sull'ultima vocale, c'è chi pronuncia
addirittura "Tu cocké, Bruté!", forse per attualizzare lingua e storia.
L'ora successiva passo a
greco, dove per tutto l'anno studieremo la distinzione letterario-filosofica
fra forma ed evento, che pare sia diversissima da quella fra forma e contenuto,
e mentre noi ingenuotti ci arrovelliamo per capirlo, i meno rozzi come Sisto
scuotono la testa disgustati sussurrando: "A queste siamo? Ancora a
queste?". Già, perché per lui contenuti e anche eventi sono concetti
superati, l'arte non ha nulla a che vedere con i significati in senso
tradizionale: deve esprimere concetti o
emozioni pure, che possono provenire anche da forme geometriche o da file di
punti e virgole che sembrano processioni di formiche, vuoi mettere l'emozione
delle file di virgole-formiche? C'è tutto, c'è ironia, provocazione, scansione
del tempo e dello spazio... Oppure da pagine scritte e poi cancellate tranne
una parola, o da oggetti esumati dalla spazzatura, che senso ha la cosiddetta
bellezza reale che tanto è un'illusione? Perché per esempio una cima rocciosa,
o un'insenatura marina, dev'essere bella? O un volto umano? Per convenzione.
Per abitudine a guardare in un certo modo. Così lui organizza gruppi di studio
con proiezioni sperimentali che lasciano tutti di sale, come quando, nel piccolo
cineforum, sbotta: "Ecco, il cinema
è il fascio luminoso che vi sovrasta e che va dal proiettore allo
schermo, è questo che deve emozionarvi!". Che sciocca, io che guardavo
sempre lo schermo! E gli altri devono avere un'aria altrettanto ottusa della
mia, se a un certo punto Sisto si secca e urla: "Vandea, Vandea!",
chissà perché identificando l'incomprensione artistica con la reazionarietà
politico-religiosa, certo piuttosto spiccata in questa città.
Come sempre, una parte di me
ascolta, un'altra se ne va per conto suo, ricordando o fantasticando, così alla
fine ricordo poco delle lezioni a meno che non m'impegni a prendere appunti per
tutta l'ora, e mi perdo invece a osservare le facce dei compagni e la
mutevolezza delle loro espressioni. Oggi poi non vedo l'ora di saperne di più
sulla ragazza bruciata, ho il torace stretto e la gola ingroppata come per un
presentimento, così quando finisce l'ora filo via come un razzo senza salutare
nessuno, faccio a ritroso di corsa la via porticata che termina con una torre
medioevale, oltrepasso la piazzetta dominata da una grande chiesa con la
facciata spoglia, non rivestita di marmi. I signori, qui nel Veneto tranne che
a Venezia, dovevano essere piuttosto avari, perché lasciavano innumerevoli
chiese incompiute a differenza di quelle toscane che invece hanno quasi sempre
bellissime facciate rivestite di marmi policromi. Supero la viuzza dei
miserabili che un tempo erano artigiani conciapelli - e difatti si chiama
ancora con questo nome -, arrivo a casa con il fiato grosso e prima ancora di
gettare il cappotto sulla cassapanca mi precipito sul giornale, già spalmato su
un tavolinetto del salotto, arrivo alle pagine di cronaca dov'è descritto
"il pauroso incidente", il "rogo accidentale", "ma
forse - dice in caratteri più piccoli l'occhiello -, potrebbe anche trattarsi
di un suicidio", corro all'età della vittima: vent'anni! Lo sapevo - cerco
affannosamente il nome, ci sono due iniziali soltanto, ma sono quelle lì e se la "F" potrebbe appartenere
anche a una Francesca, Flavia, Fiorella, la "K" è sua, la
"K" non può appartenere che a lei, la K è lei, la K si staglia sul
giornale come su una bara.
Dunque così è finita le
breve vita mortale di Federica Kvas, dal nome russo e dai piedi lunghi come
quelli degli angeli, Federica l'anarchica l'agnostica l'amletica che cercava
amore e ha trovato brutto sesso e immonda
violenza. Non vorrei essere suo padre, né sua sorella. Non vorrei che ci
fossero suo padre, né sua sorella. Vorrei che ci fosse lei. Vorrei essere lei,
la sua innocenza. Non vorrei essere neppure me stessa, perché in questo preciso
istante, anche se già tante volte lo avevo preavvertito, sento chiudersi inesorabilmente
una parte della mia vita. Quella in cui
tutto sembrava ancora possibile, perfino il miracolo che Stefano si accorgesse
di me.
Ora Stefano è
solo un'ombra. E' stato un sogno interrotto, d'amore per l'amore. Adesso non
sogno più, adesso riesco solo a vedere, ossessivamente, una ragazza bruna e un
po' slava come me, che un uomo maledetto
ha offeso e violato e poi punito spingendola su un marciapiede perché l'aveva
fatta sentire una puttana e non una figlia. Uno che era responsabile della sua
morte. Che si credeva puro, che si credeva giusto, che si credeva padre, che si
credeva uomo. Che possa precipitare nell'inferno in cui crede, bruciare nelle
fiamme dei dannati, e che non riesca a
liberarsi mai di quello che ha fatto. Anche a me, anche a noi. Aveva
tutto il male dentro di sé, dal disonore alla morte, e l'ha sparso su chi aveva
a portata di mano: la figlia gli stava più vicina, e ne è stata bruciata, noi
stavamo soltanto vicino alla figlia, e siamo state ustionate.
Alessandra si sposa con un
riccone già vecchiotto, Federica muore come una strega d'antan, Milena si porta
il peso della sua non accettata diversità. Soltanto Sara, che non crede nella
vita e nell'amore terreno ma crede nella scrittura, continua e continuerà a
lavorare sulle parole. Forse anche su Federica riuscirà a scrivere un racconto,
salvandola dalla morte eterna. E tu onore di pianto, Fede, avrai. Così sia.
vengo dal Canada, sono molto felice di condividere la mia grande e meravigliosa testimonianza con tutti su questa piattaforma ..: Sono stato sposato per 4 anni con mio marito e all'improvviso è entrata in scena un'altra donna che ha iniziato a odiarmi ed era offensivo e tutto perché non gli ho mai dato alla luce un bambino. ma lo amavo ancora con tutto il cuore e lo desideravo a tutti i costi ... Ha chiesto il divorzio e tutta la mia vita stava andando in pezzi e non sapevo cosa fare, si è trasferito da casa e mi ha abbandonato tutto da solo, un giorno un mio caro amico mi ha raccontato di aver provato i mezzi spirituali per riportare indietro mio marito, quindi sono andato online per cercare e ho trovato così tanti incantatori che hanno solo perso tempo e preso molti soldi da me, ma sono tornato da lei e le ho detto che il modo spirituale ha solo preso i miei soldi e non ha prodotto nulla, e lei mi ha fatto conoscere un incantatore chiamato Dr.Wealthy, quindi ho deciso di provarlo. anche se non credevo in tutte quelle cose a causa di quello che ho passato di recente, ho contattato il Dottore e gli ho spiegato tutti i miei problemi e mi ha detto che non avrei dovuto preoccuparmi quando ha lanciato l'incantesimo su di me e sul mio marito che mio marito tornerà da me e che entro 3 settimane rimarrò incinta, quindi ho fatto il piccolo che mi ha chiesto di fare ed ecco che tutto funziona, mio marito è tornato da me e in questo momento abbiamo gemelli ragazzo e ragazza, quindi grazie a Dr.Wealthy sei davvero un grande incantatore, nel caso in cui qualcuno abbia bisogno di aiuto ecco il suo indirizzo email; wealthylovespell@gmail.com o visitare il sito Web: http://wealthyspellhome.over-blog.com I suoi incantesimi sono per una vita migliore O whatsapp ora +2348105150446
RispondiEliminaLe cose non vanno molto bene con me da alcuni anni. Ma tutto grazie al DR WALE per avermi aiutato a tornare al mio momento felice. Tre anni fa ho avuto un incidente che mi ha tenuto fuori gioco per anni. Durante questo periodo ho attraversato momenti difficili. Non sapevo che mia moglie stava progettando di divorziare da me, stava progettando di sposare un altro uomo. Come l'ho scoperto. Questo bel giorno ha lasciato per sbaglio il suo telefono dove ero seduto. Mentre andava a fare il bagno ho aperto il suo telefono e ho visto tutte le conversazioni che stava facendo. Come stava progettando di vendere la nostra casa, divorziare da me nelle mie condizioni e sposare un altro uomo. Dopo aver visto tutto, ero amareggiato e le lacrime hanno iniziato a scorrermi sugli occhi perché non potevo credere che la donna che amo con il mio cuore mi avrebbe fatto tanto male. Dopo aver visto tutto ciò, ho cercato aiuto. È così che mi sono imbattuto nel DR WALE leggendo buoni commenti sul suo lavoro, quindi ho contattato il DR WALE e gli ho raccontato tutto. DR WALE mi ha aiutato a creare una medicina erboristica che mi ha rimesso in piedi. Ha anche fatto un incantesimo che ha fatto sì che mia moglie non smettesse mai di amarmi e mia moglie mi ha implorato di perdonarlo. Puoi contattare DR WALE tramite WhatsApp/Viber: +2347054019402 O tramite e-mail: drwalespellhome@gmail.com
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