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 Al direttore                             Padova, 15, 05, 2012

Nessuno si salva da solo

di Gabriella Imperatori

Nessuno si accorge mai di niente prima che la cronaca denunci delitti efferati,  violenze famigliari, disperazioni che inducono al suicidio. Prima erano tutti, carnefici e vittime, persone “normali”: per vicini, amici, parenti. L’indifferenza, o l’incapacità di immaginare la sofferenza altrui, la solitudine, l’orgoglio di farcela da soli – che spesso cela la convinzione che il chiedere aiuto crei solo fastidi al prossimo – ci rendono spesso ciechi al dolore degli altri, specie se è ben nascosto. Come quello dell’ultrasettantenne di Abano Terme, padre di due figli di 38 e 40 anni affetti da grave handicap, dei quali lui, da solo, s’è sobbarcato la cura senza mai  interrompere il lavoro di antiquario e restauratore. Sempre  attivo, cordiale, generoso con tutti, apparentemente di buon umore, un  umore che solo ogni tanto cedeva alla preoccupazione, alla sensazione di non farcela più.  Ma poi si riprendeva. La moglie era morta dieci anni fa, e da allora era lui che si occupava dei suoi “ragazzi” con infinito amore, portandoseli sempre dietro, nutrendoli, vestendoli, riuscendo a dar loro serenità. Finché all’improvviso è crollato. S’è chiuso nel laboratorio sottocasa e lì, senza che i figli al piano superiore si accorgessero di nulla se non forse di avere fame, s’è impiccato: lasciando soltanto alla fine un appello affinché qualcuno si occupasse di loro.
Eppure era un uomo amato, e la sua assenza dal negozio, dopo qualche giorno, era stata notata  da un collega commerciante che aveva dato l’allarme alle sorelle del defunto. Da quel momento i  due giovanottoni con la mente da bambini sono stati accolti e rifocillati da parenti, che ora cercano di trovare una soluzione per il futuro. Un futuro che potrebbe essere il ricovero in una casa di accoglienza (quel che il padre non avrebbe voluto). O meglio,  suggerisce qualcuno, la trasformazione del loro appartamento in una casa-famiglia da far gestire a una Onlus.  Chissà. Adesso qualcuno si mobiliterà, la soluzione verrà trovata anche se nessuno poterà restituire ai fratelli l’amore che il padre gli dava senza mai lamentarsi. Tutto il paese si commuoverà, al funerale ci saranno centinaia di persone ma sarà comunque troppo tardi, per l’uomo e per i poveri figli di un dio minore ma di un padre maggiore. Si spenderanno parole di amicizia e affetto, sincere anche, come sono sincere quelle di chi assiste impotente al crescendo di suicidi per motivi economici. Sarà riesumata la “sindrome di Werther”, ricordando l’ondata di suicidi in seguito all’uscita del libro di Goethe. Ma il cordoglio postumo serve solo, se serve, a ricordarci l’importanza dell’attenzione al nostro prossimo, a non lasciarlo solo, percependo il suo problema come problema di tutta la comunità. Riconoscendo i diritti di chi  è più sfortunato.
Ecco, si tratta proprio di diritti: di chi non vuole pietà o assistenzialismo, ma esonero totale dai tagli di spesa pubblica, prepensionamento dei parenti che  si occupano dei malati, aiuti in denaro ma anche in quotidiana compagnia. Diritti per cui sono sfilati a Roma in corteo, nei giorni scorsi, centinaia  di portatori di handicap in un sussulto di orgoglio e dignità, perché,  come hanno scritto sui loro striscioni, “Non siamo un mondo a parte ma una parte (in Italia l’8 per cento) del mondo. Come lo è ciascuno di noi.



Al direttore                            Padova, 23 maggio2012

 Carcere: le  parole per dirlo.

di Gabriella Imperatori

“Caro assassinatore,  spero che tu finisca in carcere senza pane e senza acqua.” Comprensibili ma agghiaccianti, nella loro ingenua indignazione, queste parole di una scolaretta di Brindisi rivolte, in un compito, al killer di Melissa Bassi. Parole che inconsciamente reclamano la pena più dura. Come l’idea del carcere-gabbia di cui buttar via la chiave: un’espressione  che si sente risuonare di continuo da chi vuol essere rassicurato sperando che la rassicurazione, spesso usata a fini elettorali, equivalga a sicurezza. In questi tempi bui  dove la legittima paura è governata in modo demagogico, il recente convegno padovano al carcere “Due palazzi” ha consegnato pensieri da meditare. Talvolta controcorrente, talvolta pessimistici, tal’altra utopistici. Parole di magistrati, di scrittori, di giornalisti, di operatori carcerari. Di queste parole vorrei sceglierne alcune per riflettere su un‘istituzione chiusa che fra tutte è la più emblematica. Un mondo a parte più che una parte del mondo.
Architettura. Gli spazi, i lunghi corridoi, le infinite porte inchiavardate, le celle piccole (e sovraffollate) sembrano ispirati a un modello detentivo opprimente e tale da bandire ogni speranza. Chi vi soggiorna perde i  connotati di persona per assumere quelli  di chi “deve” solo soffrire, ma che per questo tende a percepirsi come vittima più che ad elaborare la colpa; a pensare che l’atto criminoso “è accaduto”, invece che assumersene la responsabilità  per arrivare al pentimento.
Biblioteche. Ben fornite e guidate da volontari, sono invece uno strumento che può, attraverso la cultura, indirizzare verso una riconciliazione col mondo esterno, uscendo dal proprio passato di criminali.
Branda. La maggioranza dei detenuti bivacca sulla branda, senza studiare o lavorare, usando linguaggi volgari e violenti e ricostruendo le strutture del potere.
Colloqui. Sono previsti, ma per molti avvengono di rado, e non sono contemplate le manifestazioni di affettività e sessualità che  pure potrebbero distogliere da perversioni anche violente.
Danimarca.  In questo paese si cerca di rieducare  il detenuto responsabilizzandolo. Gli viene  assegnata una  cifra settimanale che deve gestirsi da solo (per cibo e organizzazione della giornata), il che prepara meglio il momento  del rientro nella società libera. Non è previsto il “fine pena mai”.
Fatica. Più che di pena (restituire il male con il male, secondo Gherardo Colombo) si dovrebbe parlare di “fatica” del cambiamento: una fatica positiva, mentre raramente lo è la pena.
Fuga. Chi lavora fuori del carcere quasi mai  tenta la fuga. Prevale una sorta di “gentlemen’s agreement”, oserei dire, stabilito con l’istituzione che consente il recupero attraverso il lavoro esterno. Infantilizzazione. Il carcere, con le sue mille regole burocratiche, infantilizza, non fa recuperare il senso di responsabilità.
Malavita. Il carcere è l’università del crimine,  il dottorato della mala-educazione, il creatore di mostri e malati di mente, il propagandista dei miti contemporanei, primo fra tutti quello della ricchezza.
Noia. Scandisce la giornata-tipo del detenuto che rifiuta studio e lavoro. 
Numeri. Il detenuto è un numero (“Quanti ne hai?” è un’espressione comune nell’universo dei burocrati carcerari).
Obbedienza. E’ sempre e necessariamente una virtù? Ha prodotto anche la Shoah.
Perdono. Uguale per-dono. E’ appunto un dono, non un diritto, ma può essere una conquista.
Pericolo. E’ ovvio che chi è pericoloso non deve essere lasciato in libertà.
Psicofarmaci. Se ne fa uso o abuso, sono forme di contenimento chimico.
Psicologi. Sono scarsissimi. Si calcola che, al Due Palazzi, ogni detenuto abbia diritto a una seduta  di dieci minuti l’anno.
Racconto. Raccontarsi è un modo per purificarsi, e per reggere le situazioni più ardue (la malattia, il dolore ingiustamente subito).
Suicidi. Sono tanti, troppi. Per  scarsità di sostegno famigliare, per insufficienza di prospettive future, per degrado, per disperazione.
Torture. Troncare le relazioni affettive, consentire il sovraffollamento e la convivenza fra le subculture, fra le diverse esperienze, prepotenze e fragilità che fan parte della società  carceraria, non sono in qualche modo forme di tortura?
Volontariato. E’ forte e utile, specie in insufficienza di operatori.
Zambrano Maria (scrittrice): ”Il riscatto è tornare a prendere contatto con le parti buone di sé che la vita ha fatto smarrire”.
 

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